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Una battaglia per la dignità
30 giu 2017
Intervista ad Alex Schwazer, a quasi un anno dalla squalifica che ne ha sospeso la carriera.
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6 min
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Alex Schwazer parla con parsimonia della sua carriera agonistica, e quando lo fa usa sempre i verbi al passato. Gli piace invece parlare di sport, dei suoi valori e di quanto abbia rappresentato per la sua vita: praticamente tutto. Non è più un atleta professionista, non lo vuole più essere a quanto dice, ma ama il suo nuovo lavoro, cioè allenare un gruppo di persone che corrono per passione, a livello amatoriale. «C’è molta passione in loro, si tratta di persone con un lavoro e una famiglia che vogliono fare un paio di maratone all’anno senza tutto il business e gli interessi che girano attorno allo sport professionistico».

Oggi Alex Schwazer ha ritrovato una su dimensione: è tornato a vivere a Calice di Racines, la frazione di 400 abitanti in provincia di Bolzano in cui è nato trentadue anni fa e dalla quale era partito a passo di marcia per arrivare a conquistare Pechino. Nel mezzo sono successe tante cose, tra clamorose vittorie e cadute nella polvere. Schwazer ha incassato ed è ripartito sempre «grazie ad una famiglia fantastica e agli amici di sempre, quelli fuori dall’atletica». Ora ha deciso che è ora di fermarsi e mettere su famiglia, così il 10 marzo scorso la sua compagna Kathrin gli ha dato una bambina che si chiama Ida.

Però manca ancora qualcosa: c’è da vincere la battaglia per la propria dignità di persona che ha pagato per i propri errori, ma che non vuole passare da imbroglione recidivo. In questa intervista c’è molto del passato di Alex Schwazer e qualcosa del suo futuro, poco perché l’uomo ragione esattamente come l’atleta che è stato: «Si programma solo il passo successivo, mai a lungo termine».

L’ultima gara della carriera di Alex Schwazer.

«Non riesco ancora a chiudere il cerchio, l’ultimo aggiornamento, se si può dire così, è questo: noi dobbiamo preparare un’ulteriore memoria da indirizzare al giudice di Colonia entro il 31 maggio, una memoria che coinvolge me e i miei legali ma anche il giudice di Bolzano (Walter Pelino che a gennaio fece richiesta del test del DNA da effettuarsi a Parma nel laboratorio del reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri, nda). Memoria che si scontrerà con quella prodotta dalla Iaaf e da lì prendere una decisione sulla possibilità di fare l’analisi del DNA entro la fine di giugno. Non riesco a capire cosa sia possibile opporsi alla richiesta di rogatoria fatta da un giudice, ma la Iaaf si oppone perché dichiara che la giustizia sportiva sopravanza quella ordinaria, che per me è assurdo».

Un anno fa Alex Schwazer tornava alle gare dopo 45 mesi di squalifica per doping. Lo faceva da dominatore nella 50 km di marcia della Coppa del mondo, a Roma dove si era allenato per quasi un anno e mezzo sotto la guida di Sandro Donati. La sua fu una vittoria schiacciante, con il secondo classificato staccato di un chilometro, che faceva guardare con ottimismo al futuro di un atleta di talento che sembrava perduto e che invece sembrava poter puntare all’oro olimpico di Rio 2016.

Oggi quell’oro appare il primo passo di un cammino che non si è mai realizzato. Il 22 giugno del 2016 Schwazer è stato dichiarato nuovamente positivo ad un controllo antidoping sostenuto il primo gennaio dello stesso anno, e in Brasile è andato solo per venire condannato a otto anni di squalifica per recidiva proprio prima di correre l'Olimpiade. La sua carriera è finita quel giorno, sei giorni prima della data stabilita per la sua rinascita sportiva. È una vicenda complessa, ricca di risvolti che toccano temi profondo dello sport e della giustizia in generale; su Ultimo Uomo ne abbiamo scritto quando era tornato alle gare e quando era stato di nuovo accusato. A dicembre ne avevamo parlato con Sandro Donati, l’uomo che lo aveva allenato dal ritorno post-squalifica. Ecco invece la versione di Alex Schwazer dodici mesi dopo.

Il docufilm dedicato da Repubblica.it al caso.

Quella attorno alla rogatoria sulle urine non rappresenta il primo tentativo di ostruzionismo da parte della Federazione internazionale al processo di Bolzano. Già durante l’udienza preliminare dichiarò inutile un eventuale esame del DNA. In seguito, di fronte alla richiesta del gip comunque di procedere chiese di poterlo svolgere nel suo laboratorio di Colonia. Hai messo in conto il fatto che queste provette che contengono le urine in cui si trovano le tracce del doping denunciato dalla Wada nei tuoi confronti non arrivino in Italia?

Sono fiducioso che la situazione si sblocchi presto e che l’analisi verrà fatta dai Ris. Ora la questione in ballo è che il giudice di Colonia potrebbe aprire un’indagine propria se dovesse ritenere che una manomissione delle provette è stata fatta nel laboratorio della sua città. In caso contrario le provette dovrebbero arrivare in Italia, in ogni caso vedo vicina la soluzione. Purtroppo si è perso e si sta ancora perdendo tempo e le urine (vecchie ormai di 15 mesi, nda) rischiano di deteriorarsi. Insomma prima si fa e meglio è. La Iaaf lo sa e fa di tutto per perdere tempo, io invece voglio fare presto perché so di essere innocente. La richiesta del giudice di Bolzano è arrivata il 17 gennaio, nella prima udienza e queste provette dovevano essere già state analizzate tanto che il 22 maggio ci sarebbe dovuta essere l’udienza in cui si confrontavano i dati raccolti dai Ris con quelli a disposizione della Wada, invece siamo ancora qui ad attendere le provette.

Mi pare un caso eccezionale per il nostro paese in cui di solito sono le parti ad attendere i tempi della giustizia, talmente ingolfati da fissare udienze molto lontane nel tempo, qua invece l’udienza arriva troppo presto.

La questione tempi è assurda fin dall’inizio della vicenda, quando sono venuto a sapere della mia positività più di sei mesi dopo il prelievo dei campioni (nelle motivazioni del Tribunale arbitrale che a Rio confermò l’impianto accusatorio nei confronti di Schwazer questa anomala perdita di tempo, secondo la stessa definizione del board, è da imputare a “una serie di sfortunati eventi, nda”). La comunicazione della mia positività mi è arrivata lo stesso giorno in cui tutti lo hanno letto sulla Gazzetta dello sport (tardo pomeriggio del 21 giugno 2016), ma loro hanno qualche legame con la Wada e ne hanno avuto notizia da lì.

Alex dopo la sentenza del Tas

Adesso cosa manca per poter andare avanti nel procedimento?

Ora siamo da cinque mesi ad aspettare che le mie urine si muovano da Colonia. Anche se la situazione si sbloccasse a breve avremmo perso tanto tempo utile. La Iaaf dovrebbe essere contenta che si faccia un approfondimento al più presto, mentre l’atleta che di solito è anche il colpevole tenta in ogni modo di sottrarsi ai ai controlli. Qui invece sono io che voglio approfondire e mi chiedo perché dall’altra parte ci si oppone con tanta forza? Perché le provette non devono venire in Italia?

Stando ai fatti sei risultato positivo al controllo dell’1 gennaio e non sei in grado di dimostrare il contrario (nella giustizia sportiva l’onere della prova spetta all’accusato), ma chiedi un test del DNA, perché?

Io sono convinto che ci sia stata una manipolazione dopo il mio controllo antidoping, molto probabilmente nel tempo intercorso tra il prelievo a casa mia e l’arrivo delle provette a Colonia. Per ora c’è questo unico verdetto di positività, ma anche tante irregolarità nella procedura. Però il sistema sportivo cerca sempre di salvare sé stesso innanzitutto, quindi la Wada, la Iaaf e il Tas ammettono che sì, sulla documentazione non doveva esserci scritto Racines, che le provette non dovevano stare un’ora in macchina incustodite (mentre il commissario Wada faceva colazione, nda), e che quindi controllore della Global Quality Sports (Dennis Jenkel) ha firmato un falso a Stoccarda (Già perché da quanto dichiarato al Tas dallo stesso Jenkel e da Michael Jablonsky che si occupò dell’ultimo trasporto delle provette a Colonia, queste rimasero incustodite nella sede di Gqs dalle 16 del primo gennaio alle 6 del 2. Invece sul documento che accompagna le urine di Schwazer Jenkel sottoscrive di aver consegnato personalmente le provette a Jablonsky, nda). Lo ammettono ma dicono che è stata sfortuna. Io ho questa positività che non so smentire con i dati in mio possesso e che mi condanna, ma loro hanno commesso tanti errori che non dovevano esserci.

Donati: «Rio era un atto di responsabilità».

Donati ci ha detto che davanti al Tas è venuto per rispetto nei tuoi confronti, ma che non credeva a una vittoria. Tu pensavi lo stesso?

Sono andato a Rio pensando che avrei potuto difendermi perché, come ho detto, gli errori fatti durante e dopo il mio controllo, al quale non mi sono mai opposto dando disponibilità 24 ore al giorno, ogni giorno, e non sfruttando le finestre orarie concesse, questi errori sono troppo gravi per poter dichiarare: “è tutto giusto”. Sono convinto che una manipolazione ci sia stata, ovvero sono certo che l’urina sia mia, ma non al cento per cento. Ci sarà certamente una parte non mia, ma il rischio che io corro è che i metaboliti trovati nella mia urina siano metaboliti sintetici, che si trovano in commercio e che i laboratori antidoping possiedono. Questi metaboliti qui non hanno un DNA proprio ma sono neutri. In queste urine si troveranno sicuramente tracce di un altro DNA perché l’operazione nei miei confronti è stata architettata bene ma non così bene, come testimonia il fatto che al primo controllo sulla provetta non trovarono nulla e ci riuscirono solo in un secondo momento. Hanno compiuto degli errori fraudolenti e noi riusciremo a provarlo certamente.

In attesa degli sviluppi legali della tua vicenda passata, come vivi il presente?

Da novembre ho iniziato ad allenare una ventina di podisti amatoriali, io non sono un allenatore ma un atleta con un bel po’ di esperienza alle spalle da mettere a disposizione di chi vuole allenarsi bene. Per me è un modo di rimanere nello sport che è la mia vita. Sono felice perché in loro c’è molta passione, si tratta di persone con un lavoro e una famiglia che vogliono fare un paio di maratone all’anno senza tutto il business e gli interessi che girano attorno allo sport professionistico. Preparo per loro dei programmi dettagliati e quotidiani, non faccio tabelle settimanali o peggio mensili, abbiamo un rapporto molto stretto, li vedo ogni giorno e mi dedico alla loro preparazione. Questo è il mio lavoro adesso ed è bello vedere che ci sono persone che si fidano di me e della mia esperienza, che mi capiscono.

Dici che lo sport è tutta la tua vita, ma come ci sei arrivato? Perché un ragazzo che cresce tra le montagne sceglie l’atletica leggera e in particolare la marcia?

Sono nato a Calice di Racines, un paese di montagna e di sci. Lo skilift è a ottanta da metri da casa dei miei genitori e quindi ho iniziato a sciare subito, e a giocare a hockey come tutti. Verso i dodici anni ho iniziato a correre per poter fare sport anche in estate. La marcia l’ho incontrata per puro caso a scuola, grazie ai Giochi della gioventù. L’ho provata perché consentiva di misurarsi di distanze lunghe e io mi sono sempre trovato meglio sulle lunghe distanze, sulle prove di resistenza piuttosto che su quelle veloci. Quindi per qualche anno correvo e marciavo, poi intorno ai sedici anni sono cresciuto in altezza molto rapidamente arrivando al metro e 87 di adesso e quindi mi sono dedicato esclusivamente alla marcia perché per correre ero troppo pesante. Un maratoneta forte forte deve pesare meno di 60 chili, io quando sono in piena stagione agonistica sono sui 69-70, per cui portarsi dietro dieci chili più degli altri era una zavorra troppo grande.

Interessante che mi dici che la marcia l’hai conosciuta grazie alla scuola, perché a detta del Comitato olimpico e del suo presidente Malagò l’insegnamento sportivo fatica tantissimo a farsi strada negli istituti scolastici, per problemi economici e di cultura.

Sono convinto che non incentivando lo sport come istruzione fondamentale ci si fa del male da soli. I bambini hanno solo da guadagnare facendo attività fisica a scuola, perché si impara a stare insieme e a stare bene fisicamente. I giochi della gioventù sono stati tagliati a livello nazionale, ci si ferma a quella regionale e non va bene, perché senza la scuola devi affidarti solo alla fortuna di avere società sportive nel tuo paese. Difficilmente un bambino si appassiona ad uno sport per puro caso, ci vuole molta fortuna e poi saranno sempre pochi, la scuola invece ha la grande possibilità di avvicinare all’attività fisica un numero enorme di persone, non sfruttare questa capacità è un errore grave.

Vorrei chiederti del rapporto tra la tua personalità e lo sport. Rivedendo la conferenza stampa del 2012 in cui ammettevi di esserti dopato ho pensato a te come il protagonista delle tragedie classiche, alla sofferenza quasi apocalittica e profonda. Ecco non sarebbe stato meglio fare uno sport di squadra?

La domanda è un po’ difficile. Ho sempre pensato di essere portato per lo sport individuale perché è vero che stando in squadra hai un gruppo col quale dividere le responsabilità e la pressione, ma se hai un gruppo, e mi è capitato con l’hockey, che è scarso allora non vinci. Ho sempre avuto bisogno di avere il controllo della prestazione, con tutte le responsabilità del caso. Per questo io ho scelto di prendermi tutte le responsabilità e rischiare in prima persona con l’atletica. Credo che le decisioni vadano prese con lucidità e quando ho deciso di doparmi non lo ero, venivo da settimane allucinanti in cui avevo chiuso completamente con lo sport. Ora, a distanza di anni e nonostante quanto successo nel 2016, posso dire che lo sport è stato tutta la mia vita ed è stato anche bello.

Come ti è tornata la voglia di rimetterti in strada dopo quasi quattro anni di squalifica?

Dopo la positività del 2012 sono stato lontano dallo sport e soprattutto dall’ambiente dello sport per un paio di mesi, ho chiuso completamente ogni rapporto con federazione e i media (non per mia volontà). Allo stesso tempo ho allontanato dalla mia mente tutti i cattivi pensieri, tutto quello che mi aveva portato a stare male personalmente e ho cominciato a sentire la mancanza degli allenamenti. Gli allenamenti mi sono sempre piaciuti, il provare i propri limiti, fare fatica da solo per vedere fin dove si può arrivare. ho ricominciato a correre, ad andare in bici perché sentivo la necessità di allenarmi e quindi lentamente mi è venuta voglia di tornare a gareggiare. Non mi era mai capitato di staccare così a lungo dallo sport e dall’ambiente.

Un giovane Schwazer agli Assoluti di Ancona 2010.

Hai avuto qualcuno accanto a te tra colleghi e istituzioni del nostro sport?

Non sentivo più nessuno dalla marcia e dalla federazione, non mi cercavano più da un momento all’altro. Allora ho capito che nello sport professionistico sei un numero: se vai bene servi ma se vai male vieni dimenticato e prendono un altro. Non avendo più attorno i dirigenti e gli allenatori federali che mi cercavano ho riscoperto la bellezza di fare sport per piacere personale e ho ricominciato.

Insomma tu eri il nostro atleta più forte e rappresentativo, a Londra saresti stata l’unica speranza di vincere un oro e rimani ancora l’ultimo olimpionico azzurro. Sei stato famoso.

La notorietà l’ho avuta, ma non l’ho mai cercata, e infatti l’ho vissuta con grande disagio. Gli inviti nei programmi dove c’erano le veline non erano il mio mondo. Io ho fatto la marcia e quindi non ho mai messo in conto di diventare un personaggio, mi piace la tranquillità, la famiglia e lo sport fatto di fatica e allenamento. Dopo le Olimpiadi vinte ho provato il disagio per gli inviti e ho conosciuto tante persone false che ti cercano quando vinci e poi si negano quando sbagli. Siccome so quanta fatica costa raggiungere i risultati, odio quelli che ti si affiancano nelle foto e si prendono i meriti: no, il merito delle mie vittorie è del culo che mi sono fatto io.

Ad un certo punto ti hanno paragonato a Marco Pantani, per la vicenda e il carattere un po’ chiuso. A distanza di anni, e visto come ti sei rialzato, possiamo parlarne con serenità.

Nelle mie difficoltà, che ci sono state, ho avuto al mio fianco una bella famiglia e delle amicizie vere, quelle di sempre, al di fuori dello sport. Quando ti capita quello che è successo a me e anche a Pantani è fondamentale avere persone che ti vogliono bene attorno, una famiglia forte fa la differenza. Se tu hai solo il tuo ambiente sportivo a cui rivolgerti che, quando le cose non vanno bene, smette di cercarti e anzi ti evita, diventa facile lasciarsi andare. Io non l’ho fatto né nel 2012 e ancora meno lo faccio adesso. Ho una figlia bellissima e una compagna stupenda, sento una certa responsabilità nei loro confronti e quindi resto in piedi e vado avanti con una vita diversa, e molto bella.

Sacrifici e pressioni insostenibili/anno 2012.

A proposito di Pantani, lui diceva che andava forte in salita per accorciare l’agonia. Mi pare che tu invece apprezzi la fatica.

Sì, nella mia specialità si fanno 5-6 gare in un anno quando va bene e poi ci sono gli altri 360 giorni in cui devi fare fatica senza l’adrenalina della gara e se non lo ami ti ritrovi ad avere un problema. Per tanti anni la parola vacanza ha significato per me una settimana, dieci giorni in cui fare allenamento due-tre volte. Comunque per come sono, fare vacanza voleva dire tornare a Calice e concedermi qualche gita in montagna con gli amici. Capirai dopo anni passati in giro tra Saluzzo, Milano e l’ultimo anno e mezzo a Roma, tornare a casa era una gioia.

Quindi è difficile immaginare Alex Schwazer alle Maldive.

Guarda in realtà alle Maldive ci siamo stati con Kathrin lo scorso anno perché volevamo fare una vacanza lontano da tutto. Anche perché l’abbiamo prenotata quando pensavo di fare le Olimpiadi e credevo di fare bene, molto bene. Quindi immaginavo che ci sarebbe stato il solito casino dei festeggiamenti di quelli che saltano sul carro del vincitore e credevo sarebbe stato bello essere a grandissima distanza. Poi è andata in maniera un po’ diversa.

Quando hai iniziato ad allenarti con Donati a Roma per andare a Rio, mi è parso si capire che l’obiettivo Olimpiadi fosse un punto finale, per poi ritirarti definitivamente. Mi sbagliavo?

Ho sempre pensato che bisogna fare progetti a breve e medio termine, soprattutto quando si fa uno sport dispendioso come il mio, con molta pressione esterna ma anche personale. Il mio grande sbaglio è stato non staccare un anno dopo Pechino. Se lo avessi fatto non sarebbe successo tutto quello che è seguito. Non si possono fare progetti a cinque-sette anni. Io prima volevo tornare alle Olimpiadi, poi ho pensato che potevo fare bene, successivamente che potevo vincere. Ma non ho ma pensato a dopo.

Quindi Tokyo 2020 non è un tuo obiettivo, come ho sentito dire a Donati.

Non abbiamo mai parlato di questo, magari lui ci spera. Ma io sono abbastanza nauseato da tutto e ormai non mi fido nemmeno più. Ho fatto tutto il possibile per dimostrare di essere pulito e non è bastato. Non me la sento proprio di ricominciare, le gare non mi interessano più. La mia priorità è far arrivare questa benedetta provetta in Italia e farla analizzare dai Ris. Io voglio dimostrare che le cose non sono come qualcuno le vuol fare apparire. E poi voglio giustizia, perché mi hanno tolto le Olimpiadi, non la gara di paese.

Tutti gli sforzi inutili per competere a Rio.

Immagino tu voglia anche riconquistare una certa credibilità perché ci sono anche quelli che non ti credono e ti credono un dopato impunito.

Io credo che chi mi vede come un dopato lo crederà per sempre, e anche se fossi potuto andare a Rio avrebbe avuto dubbi su di me. Penso che bisogna guardare cosa ho fatto senza pregiudizi. Io mi sono affidato a Sandro Donati dicendogli di fare tutto quello che pensava giusto. Ho fatto i controlli delle urine in un ospedale pubblico, che ovviamente non ha quegli strumenti che solo un laboratorio antidoping ha, ma ho fatto anche i test del sangue e degli ormoni. Ho fatto il controllo del plasma, chi mi offende sui social network deve sapere anche questo.

Alcuni contestano le interviste che rilasci perché non c’è mai un contraddittorio, parola usata più a sproposito dell’ultimo lustro.

In questa vicenda di contraddittorio c’è solo la positività, non servono tante chiacchiere. Io rispondo a tutte le domande che mi vengono poste senza mai mettere paletti. Anzi, aspetto che mi si inviti a una trasmissione con il contraddittorio. Aspetto che mi si chieda di approfondire anche scientificamente la questione. Quelli che mi contestano sui social network, sempre gli stessi, probabilmente non sarebbero in grado di sostenere una discussione tecnica sul doping, ma magari c’è chi ne vorrebbe parlare con serietà. Purtroppo ad oggi un invito di questo genere non mi è stato ancora fatto. Forse non interessa davvero capire, ma solo rinfocolare ogni tanto la polemica.

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