Avevo pensato: scriverò di Nelson Dida, il più grande portiere, il più deriso, il meno appariscente, il meno raccontato, quello capace di staccarsi dal suolo in lanci orizzontali che farebbero presupporre l'esistenza di un motore a propulsione in lui, che pure era longilineo come capita spesso ai brasiliani, senza l'esplosività muscolare di molti colleghi, quello capace di prendere un pallone in mano, al sicuro, e farselo però cadere distratto sul ginocchio, e rotolare sui piedi dell'avversario, e lasciare il compagno, il tifoso, lo spettatore incredulo, quello capace di essere colpito con una torcia lanciata da venti metri e cadere e rialzarsi per continuare a giocare, quello capace di simulare un pugno quando un divertito tifoso ubriaco gli dà una carezza sulla nuca.
Ho scoperto poi, dopo ore di ricerca, che il mio bisogno di, e il mio entusiasmo nel, raccontare la storia di Nelson Dida, era mio e basta. Che per il resto – pare – del mondo quello che io ho visto (e ancora vedo) come Nelson Dida, l'outsider da epopea letteraria sudamericana, è stato Nelson Dida, il portiere, banale come molti prima e dopo di lui, ordinario. Oltre alla pagina Wikipedia dedicata (e tutto sommato scarsa), nessuno al mondo s'è preso la briga di scrivere nulla a proposito di Nelson Dida. È subentrato, in me, un senso sottile di angoscia, come leggendo Il senso di una fine, il libro di Julian Barnes in cui un uomo pensa al suo passato amore e si scopre incapace di distinguere tra ricordo e realtà, e ci si chiede quanto il ricordo cambi la realtà, e come si deve chiamare allora quella realtà ineluttabilmente corrotta dalla memoria. È un libro che parla di amore, che è una di quelle cose che con il calcio si sovrappone spesso, metaforicamente.
L'angoscia mi diceva: forse quella parata che ti ricordi, a Verona, contro il Chievo, uno stadio vuoto e brutto e sporco anche soltanto a vederlo dalla televisione, forse quella parata non era mai esistita, forse avevi bevuto troppo caffè ed era stata soltanto una semplice deviazione oltre la traversa, forse anzi la palla è uscita da sola, e lui nemmeno si è mosso. Forse anche quello che tu chiami miracolo, e che era avvenuto a Milano, a San Siro contro l'Ajax, e tu non eri andato allo stadio ma la stavi guardando in televisione (e ti sentivi in colpa per questo), forse era un buon salvataggio, di quelli che se ne fanno quattro o cinque a partita, e tu non ti eri alzato dal divano, inginocchiato alla televisione, con lo scatto isterico della disperazione e subito dopo l'immobilità dell'incredulità per quella parata impossibile.
Poi mi sono detto: Manchester la ricordo, è esistita. Ho controllato: era così, in ogni dettaglio, e soprattutto in quel momento in cui Dida, per l'unica volta nella sua carriera pubblica, si lascia andare a una corsa entusiastica, un sorriso smoderato, guarda Shevchenko, e lo abbraccia come ci si abbraccia quando si è troppo felici per mantenere un contegno. Allora ho scavato un po' più sotto e ho conosciuto due o tre cose in più.
Quello che so di Nelson Dida è questo: è nato a Irará, un piccolo paese di ventimila abitanti nello stato di Bahia, famoso per nulla se non per aver dato i natali a Nelson Dida, un paese molto brasiliano, con case basse, un cielo molto alto e una grossa chiesa bianca. La speranza per un calciatore di Irará è trasferirsi a Salvador, e Dida ci va a diciannove anni, dopo essere passato, nel 1990 a diciassette, all'Asa di Arapiraca, stato di Alagoas, e agli allievi del Cruzeiro. Alla sua prima stagione in prima squadra, con i colori già rossoneri del Vitoria di Salvador de Bahia, prima città marittima toccata dopo un vagare nell'entroterra, perde la finale del campionato Brasileiro contro un Palmeiras con Roberto Carlos, Edmundo ed Evair, allenato da un Vanderlei Luxemburgo giovanissimo e hollywoodiano in camicia bianca, pantaloni neri e mocassini sempre neri e con le nappe. L'anno dopo, il 1994, ventunenne, fa ancora un salto di carriera e va a Belo Horizonte al Cruzeiro, ci rimane quattro stagioni e vince la Copa Libertadores nel 1997, in finale (doppia) contro il Cristal, uno dei più forti club peruviani, senza subire gol in nessuna delle due gare decisive, finite, in totale, 1-0 per i brasiliani. Su una punizione di Solano, nel secondo tempo della gara di ritorno, a Belo Horizonte, si vede già (aveva ventiquattro anni) la reattività che distinguerà Dida nei momenti più alti della sua carriera: il tiro è rasoterra, la respinta corta, la palla rimane in area piccola e quando ci arriva per calciare, al volo e incrociando, da destra a sinistra, il giocatore del Cristal Juninho, Nelson Dida è già in piedi e respinge con il piede, in spaccata, di nuovo a terra. Succede tutto in due secondi. La telecronaca brasiliana urla «Didaaa» come urlano i telecronisti sudamericani, con tono baritonale e l'ultima vocale troppo allungata, forzata; quella peruviana urla uno stupito «Dida! Fenomenal!» Il Cruzeiro segnerà poi l'uno a zero e Nelson, uomo fondamentale della partita, vola a Milano ignorato dai milanesi e dagli italiani ma già nella storia del Cruzeiro, dove lo chiamano “muralha azul”. E non è nemmeno così giovane.
Dida arriva in Italia nel 1999, a 26 anni, in un Milan con troppi portieri: Abbiati rileva il posto da titolare di Sebastiano Rossi e si rivela protagonista della miglior stagione della sua carriera, Lehmann lascia definitivamente l'Italia dopo sei mesi disastrosi accusando Maldini e Costacurta di nonnismo e atteggiamenti mafiosi, e il brasiliano passa nella malinconica Lugano quando iniziano i suoi problemi. Il nodo è il suo trasferimento al Milan, per il quale il Cruzeiro inizialmente chiede 4,5 milioni, salvo poi abbassare la richiesta, in tribunale, a 3. Nel frattempo il contratto di Dida con il club mineiro scade e lui si trasferisce in Italia, parcheggiato in Svizzera in attesa di svolte giudiziarie positive.
Dida torna in Brasile per una prima udienza, un giudice insinua che il portiere non è in possesso delle piene facoltà mentali, lui dice che non guadagna un soldo da quando ha lasciato il Brasile ma che gli manca la famiglia e nel frattempo il Lugano non gli regala nemmeno un minuto in campo, rischia la fine di decine di sudamericani e africani che ogni anno volano in Europa soltanto per fallire (il Milan in quel particolare frangente della sua storia si rende protagonista di moltissimi acquisti al limite del grottesco, successivi prestiti, comproprietà, cessioni, contribuendo in maniera sensibile, forse, a molte carriere stroncate sul nascere), e se poco prima per la torcida del Cruzeiro Nelson era la “muraglia azzurra”, adesso il capo della Máfia Azul, l'ultrà dal nome bolañesco Éder Toscanini, dice che Dida è soltanto un mercenario, e sta raccogliendo quello che ha seminato.
Torna in Brasile in prestito pochi mesi dopo, è ancora il 1999, va al Corinthians di San Paolo, con Kléber e Vampeta e Marcos Senna e Freddy Rincón, vince il campionato Paulista e quello Brasileiro. In semifinale, contro il San Paolo, deve affrontare per due volte un calcio di rigore contro di lui, e lui para tutti e due i rigori alla leggenda Raí e contribuisce, decisivo, al punteggio finale di 2-3 per il Corinthians. Gli undici metri sono già la sua specialità, in Brasile lo sanno e il commentatore, al primo penalty parato, urla a suo modo «Dida! O rei dos pênaltis!» Lui si rialza e torna in porta, con il mento appoggiato sullo sterno e la testa bassa, con quel modo di non esultare mai, ma di ciondolarsi con le braccia lunghe sui fianchi che non abbandonerà nemmeno poi.
Il Mondiale per Club, distinto dalla Coppa Intercontinentale, edizione unica e sorta di pilota per l'attuale Coppa del Mondo per Club arriva nel gennaio del 2000. In semifinale contro il Real Madrid (prima aveva eliminato il Raja Casablanca) il Corinthians fa 2 a 2 nei tempi regolamentari, Dida con un miracolo su Savio difende il 2-1 brasiliano, ma poco dopo si fa sedere nell'uno contro uno di un giovanissimo e velocissimo Anelka che lo salta e pareggia. Prima del fischio finale, ancora Savio guadagna un rigore che va a battere Anelka. Ormai è scontato: Dida para, la partita va ai rigori, il Corinthians vince e va a Rio de Janeiro, al Maracanã, a sfidare il Vasco da Gama. Dopo novanta minuti, ancora un pareggio: zero a zero e si va ai rigori, Dida ne para uno, Edmundo ne sbaglia un altro, il Corinthians vince la prima e unica edizione del Mondiale per Club, le telecamere stringono sul portiere, che si alza dopo il tuffo e si allontana dalla porta senza esultare, ancora una volta con quella faccia seria di ogni inquadratura della sua vita, tranne una.
Nel settembre 2000, tornato a Milano, gioca una sola partita in campionato, è il primo novembre, prende due gol contro il Parma di Mboma, si dimostra incerto, fantasma del Dida che sembrava il più forte portiere brasiliano in attività agli occhi dei suoi compatrioti. In Champions League scende in campo sei volte, prima contro il Beşiktaş a San Siro, quando il Milan vince 4 a 1, poi contro il Leeds, in Inghilterra, in cui compie uno dei suoi errori più famosi, al penultimo minuto di una partita piena di pioggia, quando un tiro lento e morbido di Bowyer gli sfugge dalle mani, gli carambola sul ginocchio ed entra in porta. Il Milan passa al secondo girone ma viene eliminato, Dida non gioca più.
A causa di un pignolo agente di frontiera polacco in una trasferta dell'Udinese scoppia in Italia lo scandalo passaporti, dal Friuli si allarga all'Inter e al Milan, il portiere brasiliano possiede un documento portoghese che si rivela falso, lo accusano di aver millantato l'esistenza di un presunto nonno portoghese mai esistito. Viene squalificato e condannato a sette mesi, che passa girando spot per la Lega Calcio contro il razzismo da trasmettere a San Siro prima delle partite, e io lo guardavo dal maxischermo e pensavo indifferente che non lo avrei, probabilmente, più rivisto in campo, e tutto sommato mi andava bene così.
Nel 2001-2002 al Milan arriva Fatih Terim, arrivano anche Inzaghi e Rui Costa e Pirlo, ma pure Donati e Ümit Davala e Kutuzov e Javi Moreno, indice dell'ennesima campagna acquisti confusa. Dida dopo la squalifica è ancora in lizza con Rossi, Abbiati e Fiori e torna al Corinthians, dove gioca però soltanto otto partite. Esonerato Terim, il Milan sceglie in panchina Ancelotti, ma arriva soltanto quarto. Al mondiale di Corea-Giappone Scolari lo sceglie come riserva di Marcos e Dida diventa campione del mondo senza scendere in campo.
Nel 2002-2003 torna per la terza volta a Milano, non è mai stato titolare e di colpo ha trent'anni. Nelson Dida “la muraglia azzurra” è un ricordo, e il portiere silenzioso e con i capelli tagliati fini fini tranne che per due “rasoiate” a zero, linee verticali come graffi, sopra la tempia sinistra è un anonimo brasiliano molto alto che gira per Milano e Milanello. Mi sono chiesto cosa pensa un giocatore, forse un uomo, quando deve realizzare che il suo sogno di trofei e gloria e fama è al capolinea (trent'anni!) e destinato a perdersi a migliaia di chilometri da casa, tra la nebbia di Lugano e quella di Varese, che è la stessa triste nebbia da pianura e da lago.
Dida è la riserva di Abbiati, sceglie ancora il numero 12 e al turno preliminare di Champions League contro lo Slovan Liberec, prima partita ufficiale, entra nel secondo tempo per l'infortunio dell'italiano. C'è alla prima di campionato contro l'Udinese (1-0 di Rivaldo) e ci sarà fino al 28 maggio all'Old Trafford. Il Milan vende molto e compra poco e bene: Seedorf e Nesta. Dida salta in Champions League quattro partite e di queste il Milan ne perde tre (nei gironi, con il Deportivo La Coruña, Real Madrid e Borussia Dortmund), poi deve saltare anche la semifinale di ritorno del derby europeo: finisce 1 a 1, Abbiati prende gol da Martins ma salva su Kallon prima e su Cordoba poi nei minuti finali. Dida è infortunato, ma nei quindici giorni tra la semifinale e la finale riesce a recuperare. Anche Buffon era all'epoca infortunato, e Juventus e Milan arrivano a Manchester con i portieri titolari al rientro e, dicono i giornali, fuori forma. Se la finale si fosse giocata tre giorni prima, dicono ancora, in campo sarebbero andati Abbiati per il Milan e Chimenti per la Juventus, e chissà cosa sarebbe successo in quella partita e nella storia del Milan e del calcio, e anche nella mia.
A Manchester, 28 maggio 2003, si fa la storia del calcio italiano, ma non succede niente per centoventi minuti (anzi, il miracolo lo compie Buffon su Inzaghi) e si va ai rigori. Il primo deve tirarlo Trezeguet, Dida sta immobile come sempre, Trezeguet tira basso sulla sua destra, Dida para, si rialza, ancora immobile e senza espressioni come era stato per le parate decisive al Corinthians, e va a dare la mano a Trezeguet. Per il Milan segna Serginho. Tocca a Birindelli e l'Old Trafford canta «Nelson Nelson Dida», lui è dentro la porta e sta guardando la curva alle sue spalle, che non è quella che canta perché è il settore dei tifosi della Juventus. Birindelli tira bene e segna. Per il Milan sbaglia Seedorf, Buffon para e salta, urla, esulta e si esalta senza preoccuparsi troppo di controllarsi. Quando Zalayeta mette la palla sul dischetto Dida è ancora dentro la porta, come prima, a guardare la curva. Appena prima che l'attaccante impatti il pallone, Dida fa un salto, piccolo, senza direzione, serve forse a dare l'impressione di essersi già buttato, Zalayeta tira centrale ma Dida da quel salto non si era mosso, e para, e ancora non esulta ma si allontana dalla porta con la faccia di marmo e la testa bassa, fa solo un cenno con la mano per ringraziare o salutare qualcuno. Per il Milan sbaglia Kaladze, che colpisce centrale i piedi di Buffon che si era tuffato, e si gira, lui può esultare con la sua curva, e salta, ancora. L'ultima parata di Dida, la terza su quattro rigori, è su Montero. Questa volta fa due passi in avanti e Montero calcia male, ancora centrale, dove Dida c'è ancora. Per la terza volta non esulta, non si lascia andare a nessun trasporto. Per il Milan segna Nesta, per la Juventus segna Del Piero. Per il Milan va Shevchenko, che guarda quattro volte l'arbitro e poi dice “sì” con la testa, e quando spiazza Buffon va a cercare Dida e gli si butta al collo, si lascia andare e si fa coprire dai due metri del portiere che adesso ride e urla. Io, da casa, urlavo e ridevo e mi innamoravo di Nelson Dida, che era appena esploso ma aveva già 30 anni e la faccia impassibile.
In una delle poche, rare interviste rilasciate, a Milan Channel, dice «acho que» invece di “credo che”, per tre volte, quando gli chiedono come ci si sente dopo aver vinto la Champions League.
Un mese dopo è titolare nel Brasile in Confederations Cup. Prima del suo arrivo in Nazionale, l'ultimo portiere di colore del Brasile era stato Moacir Barbosa, protagonista negativo della finale di Coppa del Mondo del 1950, quando un suo (lieve) errore regalò la vittoria all'Uruguay. Barbosa fu completamente messo ai margini dalla vita pubblica del paese, che nei giorni successivi alla sconfitta vide la più alta ondata di suicidi della sua storia. Venne indicato e dipinto come vergogna della patria, lui cadde in depressione, dichiarò che «la sentenza più pesante in Brasile è trent'anni, ma la mia prigionia è durata cinquanta», venne allontanato nel 1993 dal campo di allenamento della Seleção perché secondo Parreira e il suo secondo Zagallo portava cattiva sorte. Nel 1970, per strada, una donna lo indicò al suo bambino, gli disse «quello è l'uomo che ha fatto piangere il Brasile», e Barbosa lo ha definito il momento più brutto della sua vita. Nel 1963 il Maracanã sostituì i pali di legno con dei nuovi pali metallici, regalò a Barbosa quelli che non era riuscito a difendere nel 1950, lui organizzò una festa nel giardino di casa sua e li bruciò, davanti a tutti, come una purificazione da quell'errore. Morì nel 2000, in povertà.
Nelson Dida invece l'anno successivo (2003-2004) vince lo Scudetto e il titolo di Miglior Portiere della Serie A, prima e unica volta per un giocatore non italiano, e continua a parare: lo fa contro il Celtic a Glasgow, in controtempo su un tiro deviato di Hartson, lo fa nel pareggio contro la Juventus del 2 novembre, lo fa spesso e non dice una parola. Parla Galliani per lui, che dice di non avere più le parole, Kakà dice che Nelson è il più forte del mondo, Ancelotti ricorda quando il preparatore dei portieri, Vecchi, lo convinse a dargli fiducia, dicendo sempre, vedrai, vedrai. Il suo soprannome diventa Bagheera la pantera, perché Nelson Dida, se non perfetto nei fondamentali di uscita e nel trattenere la palla, è miracoloso nei tiri più difficili. Viene anche fuori che ha molti più decimi oculistici delle persone normali, arrivando a diciotto. Subisce venti gol in trentadue partite di campionato e vince anche la Supercoppa Europea. A dicembre arriva tredicesimo nella classifica per il Pallone d'Oro.
Il Milan nel 2004-2005 torna in finale di Champions League dopo un'altra vittoria in un derby europeo contro l'Inter, quando viene colpito da una torcia arrivata dal secondo anello della Curva Nord occupata dagli ultrà dell'Inter e si accascia per terra ma si rialza subito dopo. Le immagini della tv lo mostrano con una specie di sorriso, che significa che è soltanto una botta e una piccola bruciatura. Non importa, è la fine di Nelson Dida come era stato prima, il portiere perfetto, e l'inizio della parte di carriera più altalenante forse della storia dei numeri uno. Il Liverpool, a Istanbul, vince con dei gol che forse il Dida di prima avrebbe parato, ma un rigore, poi, lo para davvero, anche se è Dudek che si prende la parte da protagonista durante il rito degli undici metri, ballando sulla linea di porta come un ossesso giullare e parando i rigori di Pirlo e Shevchenko. Dell'episodio si parla ancora come frattura della sua carriera: c'è un Dida prima del “fumogeno”, c'è un Dida dopo, e non sono la stessa cosa. Forse, mi dico adesso, è con il “fumogeno” che mi sono innamorato di Nelson Dida, per quella reazione romantica agli eroi incompiuti con una storia troppo macchiata di errori per essere i testimonial del successo senza se e senza ma. Di quell'episodio ricordo poco, se non la delusione per dover lasciare lo stadio senza una vittoria concreta, i canti «scemi, scemi» e lo striscione della Curva Nord esposto a inizio partita, diceva «Obiettivo: distruggere le armate rossonere e conquistare l'Europa», e c'era un grosso telo che raffigurava una mappa di Risiko, e la risposta della curva del Milan che diceva, a partita definitivamente sospesa e assegnata a tavolino ai rossoneri, «conquistate sto cazzo».
Tra i gesti storici di Dida, qualche mese prima, c'è una parata contro l'Ajax, in Champions League, al novantatreesimo minuto sull'uno a zero per il Milan: Ibrahimovic tira in area piccola, Dida si tuffa sulla sua destra ma la palla è respinta dalla difesa, arriva a van der Vaart, da due passi tira sulla sinistra di Dida che riesce ad alzarsi e a deviarla in calcio d'angolo, come e meglio di quella volta, nel 1997, in Cruzeiro-Cristal.
La carriera di Nelson Dida continua fino al 2010 al Milan, quando arriva a 302 partite, e tra quella cesura chiamata “fumogeno” e il suo ritiro passano tanti errori e tanti gesti che non riesco, fuor di retorica, a non chiamare “miracoli”. Quello che ha fatto Dida anche dopo il "fumogeno” (valgano due episodi a titolo di esempio: contro il Chievo, il 29/11/2004; contro il Palermo, il 14/6/2007) rientra nel campo dell'irrazionale, un irrazionale “buono” che ti lascia incapace di capire come può elevarsi un uomo, come un gesto atletico possa essere eseguito con tanta naturalezza, senza che nessuno lo celebri con un poema (ma non è più tempo, per i poemi dell'atletismo) e d'altro canto irrazionale è la sceneggiata contro il Celtic il 3 ottobre 2007 a Glasgow, quando subisce due gol in maniera goffa, e un tifoso del Celtic entra in campo e corre verso di lui e gli dà una specie di buffetto o carezza sulla nuca. Dida d'istinto lo rincorre, poi l'istinto si spezza, arriva un fulmine di razionalità o di follia, sicuramente di quella paura e indecisione che si era vista nei tanti errori precedenti, e si lascia cadere per terra, come colpito solo in quel momento, mimando come il peggior Alemao un dolore che non c'è, troppo finto anche per un tifoso, per un irriducibile innamorato. Sprofondato nel divano, io provavo la sensazione più brutta che un amante del calcio possa provare: la vergogna per il proprio idolo. Dida viene squalificato dalla Uefa per comportamento antisportivo.
Ancora, irrazionali sono gli errori clamorosi, e irrazionali, ancora di più, sono i suoi silenzi perenni, quando veniva applaudito come il miglior portiere di sempre e quando veniva scherzato come giullare, incapace. Silenzioso è stato il suo addio, durante un Milan – Juventus vinta 3 a 0, nella staffetta con Abbiati, solo un applauso, caloroso ma pur sempre solo un applauso, e una lettera ai tifosi noiosa e banale. Alla fine ha cambiato idea e non si è ritirato, Nelson Dida, ma ha continuato a giocare in Brasile, al Portuguesa (2012) e al Grêmio (2013), ma non se ne sono accorti in molti. Come al solito, d'altronde. E forse non è importante nemmeno per lui, che continuerà a parare, a subire gol, a mantenere il suo contegno molto portoghese più che brasiliano, a guardare in basso e a dribblare le interviste. Però non smette di giocare, nemmeno a quaranta anni. Vuol dire che qualcosa che lo diverte c'è, in fondo.