Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
La vita di MJ
25 giu 2015
Un'anticipazione del libro di Roland Lazenby, "Michael Jordan, la vita", edito da 66thand2nd e in uscita oggi, che racconta la storia del "Dio del basket".
(articolo)
35 min
Dark mode
(ON)

Holly Shelter

Il «Dio del basket», come lo avrebbero chiamato i tifosi in giro per il mondo, è nato perdendo sangue dal naso – a Brooklyn, fra tutti i posti possibili – in una fredda domenica di febbraio del 1963, con il vapore che filtrava tra le grate lungo i marciapiedi che correvano davanti ai dieci piani del Cumberland Hospital. Il guru del basket Howard Garfinkel si sarebbe in seguito divertito a osservare che anche i fratelli Albert e Bernard King erano nati nello stesso ospedale, una sorta di luogo magico per gli abitanti di una città che idolatra i suoi campioni sportivi.

Ma nonostante l’aura di Brooklyn abbia accolto i suoi primi vagiti, è stato altrove, molto tempo prima, che la straordinaria vita di Jordan ha conosciuto l’impulso originario, alla vigilia del Ventesimo secolo, quando nella Pianura costiera del North Carolina venne alla luce suo bisnonno.

A quei tempi la morte sembrava essere ovunque, laggiù. Col suo fiuto proverbiale, ogni mattina risaliva strisciando la corrente dei fiumi per coagularsi nell’aria salmastra. I gabbiani gridavano come spiriti del malaugurio in quelle piccole baraccopoli dove neppure la mera sopravvivenza era data per scontata. Ecco dove è iniziata la vita di Michael Jordan, in una baracca sulle rive di un fiume dalle acque limacciose che serpeggiava attraverso pinete e paludi, lì dove il whisky clandestino stillava lentamente e il mistero aleggiava sinistro come i ciuffi di muschio che pendevano dagli alberi.

Era l’estate del 1891, ventisei anni dopo la violenza e la confusione provocate dalla Guerra Civile. Il posto era un piccolo villaggio fluviale chiamato Holly Shelter – «il rifugio degli agrifogli» – , nella contea di Pender, circa cinquanta chilometri a nordest della città di Wilmington, che diventavano più di sessanta navigando su una zattera per il corso sinuoso del fiume Northeast Cape Fear, come capitava spesso agli antenati di Jordan. Il nome si deve ai soldati della Guerra di Indipendenza che sotto gli agrifogli trovarono riparo nelle fredde notti invernali. La savana era costeggiata da acquitrini che offrivano protezione anche ai tempi della schiavitù, ma a un’altra categoria di persone, i fuggiaschi. È probabile che una delle più vaste piantagioni della zona appartenesse a un predicatore bianco della Georgia di nome Jordan. Con l’emancipazione, molti schiavi liberati cominciarono a gravitare intorno a Holly Shelter. «Si stabilirono nelle paludi,» racconta Walter Bannerman, un lontano parente di Jordan «e Holly Shelter allora non era altro che una palude».

Molto presto, però, la miseria di quegli anni svuotò il nome di significato, perché era difficile trovare rifugio in un luogo del genere.

E questa è la prima cosa che imparò il nascituro.

Venne al mondo in un classico giorno di afa alla fine di giugno del 1891, subito dopo l’ennesima sfuriata di quelle tempeste costiere che minacciavano gli abitanti della zona fluviale. Tra le baracche i medici legali registravano un numero altissimo di bambini nati morti o di decessi infantili: così tanti che le famiglie aspettavano giorni, a volte settimane, prima di battezzare i neonati. Quel bimbo sembrava invece piuttosto vivace, come dimostravano le urla che svegliavano di soprassalto la madre – nello stesso modo in cui, molti anni dopo, la sua intensa voce da basso profondo avrebbe fatto scattare sull’attenti e rigare dritto un altrettanto vivace bisnipote di sei anni di nome Michael.

Era l’alba dell’èra Jim Crow e la politica della supremazia bianca si propagava in North Carolina con una veemenza tale da essere avvertita per decenni, anche quando le leggi Jim Crow erano ormai un ricordo del passato. E in quel mondo di ordinaria crudeltà, il bisnonno di Michael Jordan si trovò a vivere una vita di povertà opprimente, aggravata da un razzismo implacabile. Ma il compito più improbo era sfuggire alle grinfie della morte, che gli portò via i suoi cari, gli amici, i cugini, neonati, bambine e giovanotti robusti, senza distinzione, perché spesso tra le comunità costiere chi cadeva era nel fiore degli anni.

Ma di questo avrebbe fatto esperienza più avanti. Il giorno della sua nascita, invece, nel giugno del 1891, era la mamma, la ventunenne Charlotte Hand, a trovarsi in una situazione difficile, visto che non era sposata con il padre del bimbo, un certo Dick Jordan. Lo stesso concetto di matrimonio, in realtà, era estraneo al mondo delle baracche, perché il North Carolina aveva proibito a lungo il matrimonio tra schiavi – uno dei tanti diritti a loro negati. Le leggi dello Stato una volta erano particolarmente brutali al riguardo, arrivando per esempio a consentire ai proprietari di punire con la castrazione un giovane schiavo insubordinato.

In quell’ultimo, incerto decennio dell’Ottocento, la sola cosa su cui il giovane Dawson Hand poteva contare era l’amore di sua madre: figlio unico, per anni avrebbe provato per lei un affetto profondo, ricambiato dalla donna. Dopo la nascita del bambino, Charlotte aveva trovato ospitalità presso il proprio nucleo d’origine e crebbe suo figlio tra gli Hand, prima con la famiglia di un fratello e poi con quella di un altro. Fino ai vent’anni, il bambino figurò spesso nei documenti ufficiali con il nome di Dawson Hand. Ma nonostante madre e figlio fossero ben accetti dai parenti di Charlotte, non passò molto tempo prima che il ragazzo si rendesse conto di un evidente contrasto.

Gli Hand avevano la carnagione chiara, così chiara che molti potevano «passare» per bianchi o per indiani, mentre quella dei Jordan era nera come il cioccolato. Di un’intera generazione di fratelli e cugini Hand, solo uno aveva la pelle scura, come avrebbero ricordato anni dopo i suoi familiari. Gli Hand bianchi, nella contea di Pender, erano una famiglia importante: possedevano schiavi, e i loro discendenti neri citavano spesso il giorno in cui un bianco degli Hand aveva finalmente riconosciuto la verità sempre taciuta, che uno degli Hand di colore era suo fratello. Questo forse spiega perché a un certo punto, durante l’adolescenza, quel ragazzo avesse deciso di prendere il cognome del padre, diventando così anche sui documenti ufficiali Dawson Jordan.

Il giovane Dawson Jordan a prima vista aveva ben poco in comune con quello che sarebbe stato il suo statuario bisnipote: era basso – appena 1,65, secondo le testimonianze – e tozzo. Ed era anche zoppo, condannato a trascinarsi dietro una gamba malata per tutta la sua lunga vita.

In comune con il bisnipote aveva però una forza fisica tremenda e una resistenza straordinaria. Si dimostrò anche altrettanto coraggioso, compiendo alcune imprese che sarebbero state tramandate nel folklore della comunità. Ma soprattutto, pur dovendo affrontare nemici e avversità che le generazioni successive avrebbero stentato perfino a immaginare, Dawson Jordan non si piegò mai, né fu mai sconfitto.

Davanti a una esistenza così eccezionale, è facile lasciarsi sfuggire l’elemento che più di ogni altro avrebbe influenzato il carattere di Michael Jordan: il futuro re del basket trascorse gli anni della crescita in compagnia di quattro diverse generazioni di uomini Jordan – un dato notevole, considerati i fattori sociali e ambientali che minacciavano la sopravvivenza dei maschi afroamericani.

Il bisnonno «Dasson», come era spesso chiamato, incombeva come un’autorità sul giovane Michael Jordan. Tutta la famiglia visse insieme per una decina d’anni nella comunità rurale di Teachey, in North Carolina. Nell’epoca delle automobili e delle autostrade a quattro corsie, Dawson Jordan continuava a ripetere che il suo mezzo di trasporto preferito era il mulo, e lo agganciava con orgoglio al proprio carro. Anche in vecchiaia, continuava a fasciare di stracci le zampe del mulo e a mantenere l’asse del carro ben lubrificato, come se dovesse muoversi silenziosamente nel cuore della notte e contrabbandare liquore. Durante il giorno, i suoi bisnipoti amavano saltare su quel carro per andare a fare un giro in città, o si divertivano a scherzare con i maiali che il vecchio allevò fino alla sua morte, nel 1977, pochi giorni dopo il quattordicesimo compleanno di Michael.

I ragazzi della famiglia Jordan non capivano che il mulo e i maiali – che di fatto costituivano tutti i ricordi del loro bisnonno – rappresentavano i trofei di una vita vissuta bene perché, come avrebbe spiegato Michael in seguito, Dawson Jordan non era uno che parlava del passato o dell’importanza degli animali. Eppure anche un accenno casuale al bisnonno, molto tempo dopo, sarebbe stato in grado di velare di lacrime lo sguardo del suo famoso bisnipote.

«Era forte» diceva Jordan del vecchio. «Sì, lo era. Eccome».

IL FIUME

Ci si può fare un’idea per quanto vaga del mondo di Dawson Jordan fermandosi a respirare l’aria del mattino lungo il fiume Northeast Cape Fear, a Holly Shelter. Oggi il posto è più che altro una riserva naturale, ma la luce laggiù è rimasta la stessa, violenta e accecante per la maggior parte dei giorni, danzante quando si riflette sull’acqua, attenuata solo dai banchi di nebbia mattutina. Per provare sollievo bisogna spingersi all’interno, verso le foreste alluvionali e i ruscelli, fino alla solitudine che regna tra le ombre proiettate un tempo dai boschi maestosi e incontaminati di pini palustri.

È lì che Dawson Jordan passò la giovinezza, lavorando tra le pozze di catrame che si aprivano nella foresta, abbattendo quei magnifici alberi e legando i tronchi fra loro per formare enormi zattere da trasportare lungo il Northeast Cape Fear verso i cantieri navali di Wilmington.

Non era un lavoro per codardi.

Dawson Jordan raggiunse l’età adulta all’inizio del Ventesimo secolo, quando la vecchia vita sul fiume iniziava a scomparire, insieme agli ultimi pini di palude, e il trasporto merci si spostava sulle strade. L’antico corso d’acqua, le foreste fidate e i boschi sono gli elementi centrali della gioventù di Dawson: andava a caccia, sapeva pulire la selvaggina e prepararla a dovere. Anni dopo, diventato vecchio, l’associazione venatoria locale lo avrebbe chiamato a cucinare la sua gustosa cacciagione per i membri del circolo.

Dawson cominciò a lavorare a nove anni, quando convinse gli impiegati del censimento che ne aveva undici e quindi era grande abbastanza per dare una mano nei campi. Sapeva già leggere e scrivere, perché aveva studiato nell’unico stanzone della «scuola comune per gente di colore», dove l’anno scolastico durava quattro mesi e si interrompeva per permettere ai bambini di andare a lavorare nei campi o nelle vicine segherie. «I miei genitori mi raccontavano sempre quanto fosse duro tagliare i tronchi per ricavarne tegole, in segheria» ricorda Maurice Eugene Jordan, un lontano parente che faceva il fattore nella contea di Pender. All’interno della piccola scuola, gli studenti tagliavano la legna da ardere ed erano responsabili della propria stufa – un’usanza normale anche negli istituti meglio attrezzati riservati ai bambini bianchi.

Nei primi decenni del Ventesimo secolo l’elettricità ancora non era arrivata, l’acqua corrente e le fogne erano una rarità e di strade asfaltate ce n’erano ben poche. Non era quindi strano che mancasse un ceto medio: qualsiasi maschio, nero o bianco, passava i suoi giorni nel disperato tentativo di sopravvivere, lavorando in una fattoria come mezzadro, fittavolo o bracciante, al servizio dei pochi latifondisti.

Uno studio approfondito del 1922, condotto su un migliaio di famiglie da parte della Commissione per l’agricoltura del North Carolina, rilevò che i mezzadri dello Stato guadagnavano meno di trenta centesimi al giorno, a volte anche solo dieci centesimi, nonostante i lunghi orari di lavoro. La relazione della Commissione aggiungeva che la maggior parte dei mezzadri non riusciva a conservare per sé una parte del raccolto e quindi era spesso costretta a chiedere denaro in prestito per mangiare e saldare i conti. Circa quarantacinquemila famiglie senza terra vivevano in baracche sovraffollate di una o due stanze, senza tubature, e nient’altro che fogli di giornale per coprire le crepe e i buchi nei muri o sul soffitto. Solo un terzo delle case dei mezzadri aveva un gabinetto esterno.

Il documento sostiene che le scarse condizioni igieniche spiegano in gran parte l’alta percentuale di malattie e decessi infantili tra le famiglie contadine – va da sé che il tasso di mortalità dei neri era il doppio di quello dei bianchi.

Charlotte e Dawson riuscirono in qualche modo a cavarsela in queste difficili circostanze grazie all’aiuto degli Hand, che si guadagnavano da vivere con il trasporto del legname e probabilmente insegnarono al ragazzo come guidare una zattera. Le leggende di famiglia, come quelle dell’intera comunità, dicono che era diventato esperto fin da giovanissimo: non era facile costruire quelle lunghe, enormi zattere e poi condurle lungo quel fiume pieno di insidie, tra serpenti, tempeste improvvise e l’andirivieni delle maree. Ci voleva una forza fisica eccezionale per manovrare una catena di tre zattere attraverso le curve e le anse. Ma, nonostante i rischi, Dawson adorava il fiume, che a quei tempi era la via di commercio più battuta.

Il giovane Dawson lavorava insieme a suo cugino Galloway Jordan, anche lui zoppo. Maurice Eugene Jordan ricorda di aver sentito suo padre, Delmar Jordan, raccontare alcune storie sul vecchio Dawson: «Pare che fosse davvero bravo a far viaggiare quei tronchi. Anche Galloway aveva una gamba messa male, proprio come Dawson, ed erano molto amici».

Il Northeast Cape Fear cambiava con le maree, che costituivano una sfida ulteriore: «Bisognava stare attenti alle maree» spiega ancora Maurice. «Andavano su e giù, su e giù, seguendo i cicli della luna. Se l’acqua era abbastanza alta, partivano. Ma quando la marea calava, dovevano assicurare la zattera a un albero e aspettare che montasse di nuovo». E l’attesa poteva durare ore: «Avevano con loro pentole e cibo, così con la bassa marea legavano la zattera, si arrampicavano in cima a una collina e si cucinavano qualcosa da mangiare».

Era un lavoro pericoloso, da compiere al freddo, non a caso appannaggio fin dall’epoca coloniale di schiavi liberati, zatterieri e scapestrati disposti ad accettare la sfida. Chi lavorava sul fiume apparteneva al gradino più basso della scala sociale: erano pagati pochissimo, spesso appena qualche centesimo al giorno, più o meno quanto il più misero dei mezzadri. Eppure, Dawson Jordan sembrava gradire l’indipendenza che quel mestiere gli offriva. Nei censimenti del tempo figura come «lavoratore autonomo», piuttosto che impiegato presso qualcun altro. Inoltre, trasportare legname gli permetteva di spingersi fino allo scalo cittadino di Wilmington, con il suo porto brulicante di marinai provenienti da tutto il mondo, pieno di navi, bar e bordelli.

Possiamo immaginarci Dawson Jordan seduto sulla sua zattera in un punto calmo del fiume, durante una fredda notte di un secolo fa, mentre osserva il brillare delle stelle sopra di lui. C’è da scommettere che quelle notti all’addiaccio, sotto il firmamento, abbiano regalato al giovane Dawson gli unici istanti di fuga da un mondo altrimenti insopportabile. Forse era quello il massimo a cui il bisnonno di Michael Jordan potesse anelare.

Qualche decennio più tardi, il bisnipote avrebbe affermato che il campo da basket rappresentava per lui l’unico rifugio, il solo momento di pace della sua vita, una personale salvezza da una realtà più angosciante e frustrante di quanto chiunque tra i suoi milioni di tifosi e ammiratori avrebbe mai potuto immaginare. In modi molto diversi, le vite dei due Jordan avevano parecchie cose in comune, pur a un secolo di distanza l’una dall’altra – benché il posto che occupano nel mondo sia radicalmente diverso. In quei giorni brutali e incerti, Dawson Jordan avrebbe senz’altro gradito anche un piccolo assaggio della dolce vita dal suo bisnipote.

CLEMENTINE

Al contrario di Michael, conteso dalle donne più sofisticate e attraenti del pianeta, il basso e sciancato Dawson viveva da solo con la madre in una piccola comunità isolata, e rischiava la pelle passando giornate interminabili nei boschi o sul fiume. Iniziò a farsi un’idea di cosa fosse una relazione quando sua madre trovò finalmente l’amore con un mezzadro attempato, a Holly. Isac Keilon aveva vent’anni più di Charlotte ed era ben oltre i sessanta quando la sposò, nel maggio del 1913; la felicità della coppia deve aver portato Dawson a riflettere sul proprio futuro.

Poco dopo, nonostante le probabilità avverse, Dawson incontrò i favori di una ragazza di nome Clementine Burns. È probabile che la canzone Oh my darling, Clementine, diventata popolarissima nel 1884, avesse contribuito alla scelta del nome. Clementine era un anno più grande di Dawson e abitava con i genitori e i sette fratelli minori a Holly Shelter. Per certi aspetti, quindi, le sue prospettive dovevano essere limitate come quelle di Dawson. Il corteggiamento cominciò come tutti gli altri, a quel tempo: discorsi timidi che si facevano a mano a mano più disinvolti. Dawson si innamorò presto, un avvenimento mai superficiale per gli emotivi membri della stirpe dei Jordan.

Si sposarono alla fine di gennaio del 1914 e andarono a vivere insieme. Circa otto mesi dopo, Clemmer, come tutti chiamavano la ragazza, disse a Dawson di essere incinta, e nell’aprile del 1915, nella loro piccola baracca, diede alla luce un bimbo forte e sano che battezzarono William Edward Jordan. Ed è quasi certo che l’evento abbia procurato un’immensa gioia al novello padre.

Se solo la felicità fosse durata.

I primi segnali d’allarme arrivarono subito dopo il parto: sudori notturni e disfunzioni urinarie. Poi Clemmer cominciò a tossire sangue, ma i sintomi più evidenti furono i tubercoli stessi, le piccole masse rotonde, o noduli, che si attaccavano alle ossa e ai tendini.

«La tubercolosi era la malattia dei neri,» ricorda Maurice Eugene Jordan «e allora c’era poco da fare per combatterla».

La tubercolosi era molto contagiosa e si trasmetteva per via aerea e, sebbene il North Carolina fosse uno dei primi Stati del Sud ad aver aperto un sanatorio per neri nel 1899 grazie a finanziamenti privati, a disposizione c’erano solo una decina di letti dal costo esorbitante. L’unica alternativa per le famiglie era quella di montare nel cortile di casa una tenda bianca – o un’analoga struttura temporanea – che permettesse agli ammalati di passare gli ultimi giorni vicino ai propri cari, con la speranza che non diffondessero il morbo. L’agonia però poteva durare mesi o addirittura anni. Clemmer Jordan fu visitata da un dottore durante le prime fasi della malattia, ma morì lo stesso una mattina di aprile del 1916, poco dopo il primo compleanno di suo figlio.

A quei tempi non era insolito che un giovane vedovo abbandonasse la prole. Sarebbe stato facile per Dawson lasciare che la famiglia di Clemmer crescesse il bambino. Di sicuro Dawson aveva altre opzioni. Il porto di Wilmington offriva tante opportunità, per esempio quella di firmare come cuoco per una delle navi che attraccavano e salpavano. Ma la semplice verità che si desume dalle scelte che compì è il profondo attaccamento a sua madre – almeno pari all’amore per il figlioletto che muoveva allora i primi passi. È questo che raccontano le sue azioni. E la sua determinazione a formare una famiglia rappresentò il primo punto di forza nella futura storia di Michael Jordan.

Qualche mese dopo, Dawson ricevette un altro duro colpo, quando apprese che sua madre, vicina ai cinquanta, aveva i giorni contati a causa di una malattia renale. La morte bussava spesso alla porta sulla Pianura costiera, non di rado in anticipo, ma nella contea di Pender tra il 1917 e il 1918 la mortalità giunse addirittura a raddoppiare, a triplicare e a quadruplicare a causa della famigerata influenza spagnola. Dawson vide i membri della famiglia Hand, oltre ai suoi colleghi e ai loro cari, morire a un ritmo da record: in soli novanta giorni, tra il settembre e il novembre del 1917, l’epidemia uccise più di tredicimila abitanti del North Carolina.

Il peggioramento delle condizioni di Charlotte rese necessario il trasferimento dalla casa di Isac Keilon a quella di Dawson. Mentre sua madre si spegneva, e non poteva più occuparsi del nipotino, Dawson prese una ragazza a pensione, una giovane di nome Ethel Lane, che aveva una figlioletta e poteva badare sia ai bambini sia a Charlotte. Nel frattempo, Isac Keilon era morto all’improvviso. E solo tre mesi dopo il funerale, i problemi renali si portarono via anche la madre di Dawson.

Dawson seppellì Charlotte Hand Keilon vicino al fiume, su Bannerman’s Bridge Road, a Holly. Il ragazzo che aveva sempre desiderato una famiglia era rimasto solo – eccetto per quel bimbo indaffarato che giocava ai suoi piedi. Padre e figlio avrebbero trascorso il resto della vita insieme, abitando e lavorando in una angusta baracca dopo l’altra, nelle stesse piccole comunità costiere, unendo le loro risorse per superare la miseria.

Le notizie a disposizione dicono che nessuno dei due ottenne grandi risultati nel corso della propria esistenza, ma il tempo avrebbe rivelato che in realtà riuscirono a trasmettere un bene molto prezioso alla generazione successiva. Nonostante un’altra eredità si aggirasse tra le nebbie di Cape Fear – qualcosa di insidioso, perfino di surreale.

Le violenze di Wilmington

Il sentiero che riporta al passato Michael Jordan lo ha percorso molto spesso, inoltrandosi per le stradine di campagna e tra i semplici ricordi della costa di Cape Fear. Guidando in direzione Est lungo la Interstate 40, fuori da Chapel Hill, l’altopiano del Piedmont cede il passo alla zona della Pianura costiera, con i suoi vasti campi fertili orlati da una monotona alternanza di pinete e fienili di tabacco marcescenti. Ben presto ci si imbatte nelle indicazioni per Teachey, poi per Wallace, Burgaw e Holly, le comunità agricole dove il brand Jordan iniziò a mettere radici molti anni fa.

Oggi il sistema delle autostrade interstatali nasconde gran parte dell’inquietante eredità di Cape Fear, con chilometri di pavimentazione liscia, stazioni di rifornimento e catene di ristoranti che conservano non più di un pallido legame con il passato culturale della Carolina, ovvero una sporadica e isolata griglia per il barbecue. Sembra che da nessuna parte, oggi, sia possibile trovare una traccia del movimento per la supremazia bianca del Partito democratico, che era invece ovunque durante la giovinezza di Dawson Jordan – e le antiche ferite che aveva prodotto, legate a eventi remoti della vecchia Wilmington, sarebbero riemerse in modo strano e beffardo nella vita di Michael Jordan.

Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, subito dopo la Ricostruzione, i democratici del Sud avevano ristabilito il controllo politico bianco su gran parte del North Carolina, ma Wilmington e la Pianura costiera facevano storia a sé, soprattutto grazie agli oltre centoventimila maschi neri registrati nelle liste elettorali. La città era vicina a trasformarsi in una realtà simile a Atlanta, con un’alta società nera emergente, due giornali neri, un sindaco di colore, un corpo di polizia integrato e un’ampia gamma di imprese gestite da neri. A Wilmington la risposta dei democratici fu di fomentare la ribellione con l’insurrezione razziale dell’11 novembre 1898, nella quale i bianchi – sobillati dalla retorica politica del partito – diedero alle fiamme la sede di un giornale nero che aveva osato sfidare i democratici.

Poche ore dopo, alcuni gruppi di bianchi armati – chiamati «Red Shirts», camicie rosse – invasero le strade e cominciarono a sparare. L’obitorio locale avrebbe registrato quattordici cadaveri, di cui tredici neri. Ma molti sostengono che il bilancio fu di almeno novanta vittime: mentre la violenza deflagrava, le famiglie di colore erano fuggite terrorizzate verso le vicine paludi, dove pare siano state raggiunte e giustiziate dalle Red Shirts, anche se i cadaveri non furono mai ritrovati.

La seconda fase di questa rivolta studiata a tavolino si aprì il giorno successivo, quando i bianchi scortarono influenti personalità di colore – preti, uomini d’affari, politici – alla locale stazione ferroviaria e li bandirono per sempre dalla città.

Il clamoroso successo dell’operazione avrebbe salvaguardato per decenni la dottrina della supremazia bianca. Charles Aycock, eletto governatore nel 1900, stabilì un programma legislativo che completava il violento messaggio dell’insurrezione: «Non ci sarà progresso nel Sud per nessuna delle due razze finché i negri non saranno eliminati permanentemente da ogni processo politico» dichiarò Aycock. La spina dorsale del piano consisteva nel limitare la registrazione al voto introducendo un test di alfabetizzazione: in questo modo il numero di elettori maschi neri nel North Carolina precipitò da centoventimila a meno di seimila unità.

Ingiustizie e violenze simili potevano contare sul tacito supporto delle forze dell’ordine locali e statali, e sulle gravi intimidazioni compiute da altre organizzazioni. Ancora negli anni Quaranta e Cinquanta in tutta la contea di Duplin, dove viveva la famiglia Jordan, figuravano solo due votanti neri registrati, secondo la testimonianza di Raphael Carlton, uno dei due neri in questione.

Figlio di un mezzadro, da giovane Carlton lavorava come garzone nella contea di Duplin – quando c’erano anche i Jordan –, ma suo padre insisteva perché trovasse il tempo per studiare. Negli anni Quaranta Carlton frequentò e si laureò nella vicina Shaw University, per poi tornare a casa come uno dei tanti insegnanti neri animati da buoni propositi della sua generazione. Carlton ricorda una riunione di professori neri durante uno dei momenti peggiori della segregazione. Il sovraintendente bianco del sistema scolastico locale si alzò e disse agli insegnanti di colore: «Voi negri fareste meglio a organizzarvi».

«La gente oggi non capisce quanto eravamo impauriti a quei tempi,» racconta Carlton «ma l’intimidazione era totale. Nessuno osava sfidarli».

CAMBIARE MENTALITÀ

Nel 1937 John McLendon fu assunto come allenatore di basket al North Carolina College for Negroes (che sarebbe poi diventato la North Carolina Central University) e rimase molto sorpreso dall’atteggiamento rinunciatario dei suoi giocatori. «La mia più grande sfida come allenatore» raccontava McLendon «era riuscire a convincerli di non essere atleti inferiori. Nemmeno la popolazione nera ci credeva, non lo sapevano. Gli avevano fatto il lavaggio del cervello».

La presenza di McLendon in North Carolina fornisce l’anello di congiunzione con un altro elemento fondamentale nella vita di Michael Jordan, palesatosi ancora una volta nel 1891. Appena cinque mesi dopo la nascita del bisnonno di Jordan, James Naismith inchiodò un cestino da pesche in un ginnasio di Springfield, Massachusetts, inaugurando così l’èra del basket. Alcuni anni dopo, Naismith si trasferì alla University of Kansas per insegnare educazione fisica e si trovò a gestire la squadra dell’università, prima di passare l’incarico a Phog Allen, l’uomo che sarebbe stato considerato il «padre» di tutti gli allenatori di basket.

John McLendon arrivò in Kansas all’inizio degli anni Trenta, era uno dei primi studenti neri dell’università, ma Allen gli proibì di giocare con la squadra di basket e di nuotare nella piscina del campus. Avrebbe potuto andargli anche peggio, se lo stesso Naismith non lo avesse scelto per assegnargli l’incarico di allenare la squadra di una scuola superiore locale, pur continuando a studiare alla Kansas. Quando McLendon si laureò nel 1936, Naismith lo aiutò a ottenere una borsa di studio per un master alla University of Iowa. Completato il corso in un anno, McLendon fu assunto come coach nel piccolo North Carolina College, dove mise a punto il suo primo programma di educazione fisica che formò diverse generazioni di insegnanti e allenatori neri del North Carolina. È da lì che sarebbe uscito Clifton «Pop» Herring, il futuro coach di Jordan alle superiori.

Le prime squadre universitarie nere avevano a disposizione budget molto ridotti e si muovevano nel pericoloso clima della segregazione. Riportarono anche alcuni successi, nonostante il razzismo rendesse le trasferte quasi impossibili, perché non potevano utilizzare bagni pubblici, fontanelle, ristoranti o alberghi. «Organizzare un semplice viaggio da una scuola a un’altra era come pianificare l’attraversamento di un campo minato» diceva McLendon.

Negli anni successivi, McLendon riuscì a mettere insieme delle squadre così forti che un giorno lo staff della vicina Duke University invitò il giovane allenatore a sedersi sulla panchina dei Blue Devils durante una partita. Come unica condizione, pretesero che McLendon indossasse una giacca bianca, in modo che il pubblico pensasse che fosse un domestico o un cameriere.

McLendon, con cortesia, declinò l’invito.

Il coach aveva giurato che non avrebbe mai messo né la propria persona né i suoi giocatori nella posizione di poter essere umiliati o denigrati. «Per evitare» diceva «che la tua dignità fosse calpestata proprio davanti alla tua squadra». Esigere il rispetto per i suoi giocatori era necessario per convincerli che erano, in tutto e per tutto, all’altezza dei bianchi.

La svolta arrivò durante la Seconda guerra mondiale, quando le forze armate si servivano della facoltà di Medicina della Duke University per formare i medici militari, molti dei quali erano anche eccellenti giocatori di basket. I giornali di Durham strombazzavano senza ritegno le vittorie dei cestisti bianchi della scuola di medicina, mentre i ragazzi di McLendon, pur imbattuti, non ricevevano alcuna pubblicità. Scocciato da questa disparità di trattamento, Alex Rivera – il team manager di McLendon – organizzò un incontro tra le due formazioni. Con il Ku Klux Klan che vigilava per impedire la mescolanza tra le razze, il coach di Duke accettò di disputare una «partita segreta», la domenica mattina, senza tifosi né giornalisti presenti. A metà gara il pressing a tutto campo della squadra di McLendon aveva prodotto il doppio dei punti rispetto ai più illustri rivali. A quel punto i giocatori bianchi si avvicinarono alla panchina di McLendon e chiesero di mischiare le formazioni, schierando insieme bianchi e neri, prima di cominciare il secondo tempo.

Quella fu la prima grande vittoria ai danni del razzismo ottenuta da McLendon, che riuscì finalmente a fare aprire gli occhi ai suoi giocatori. Anche a distanza di tempo, l’influenza di McLendon continuava a essere percepibile in North Carolina, per l’importanza del basket tra le comunità nere dello Stato e, in modo ancora più marcato, nelle università. In virtù del suo approccio innovativo come coach, McLendon fu invitato dalla Converse a condurre dei seminari, e fu proprio durante una lezione con McLendon che un giovane assistente allenatore della Air Force Academy di nome Dean Smith vide il primo schema di quello che sarebbe diventato il suo famoso attacco «a quattro angoli», come ha confermato lo stesso Smith in un’intervista del 1991.

McLendon e il suo amico «Big House» Gaines della Winston-Salem State University erano considerati dei leoni nel mondo degli allenatori di basket, ma a quei tempi nessuno dei due avrebbe potuto neanche lontanamente immaginare che il loro sport avrebbe contribuito ad abbattere le barriere razziali dello Stato. Né che – nel breve volgere delle loro vite – avrebbero visto sia i neri sia i bianchi del North Carolina osannare un giocatore nero con l’entusiasmo riservato a Michael Jordan.

E nessuno dei due coach si sarebbe mai sognato di entrare, un giorno, nella Hall of Fame del basket americano intitolata a James Naismith.

IL GRANTURCO

In tutta la sua vita, Dawson Jordan non ebbe mai occasione di assaporare uno di quei bei momenti che avrebbero segnato l’esperienza del bisnipote. Quando compì ventotto anni, non solo aveva già sofferto lutti di ogni tipo, ma era stato obbligato a cambiare lavoro a causa dell’avvento del trasporto su gomma e della conseguente scomparsa della fluitazione del legname. Pur continuando a sfacchinare nelle segherie locali, Dawson Jordan, come la maggior parte della popolazione del Sud, si unì alla schiera dei mezzadri, che rappresentavano lo strato più basso nella scala sociale del tempo.

L’elemento cruciale per tirare avanti su una terra in affitto era il mulo. Proprio per questo, come ha spiegato il cugino William Henry Jordan, l’animale conferiva uno status: «Quando ero bambino un mulo costava più di una macchina, perché con un mulo ti guadagnavi da vivere».

Mentre i contadini delle generazioni successive avrebbero acquistato gli attrezzi agricoli, i fittavoli e i mezzadri compravano e noleggiavano i muli dai commercianti locali. «Potevi avere un mulo dal [venditore di muli],» ricorda Maurice Eugene Jordan «ma se ti capitava un’annata cattiva, quello veniva a riprendersi l’animale. L’uomo che ti aveva fornito le sementi e il fertilizzante avrebbe fatto lo stesso. Se incappavi in una brutta stagione e finivi nei guai, ci volevano uno o due anni per venirne fuori».

«Non avevi scelta,» spiega William Henry Jordan «non avevi nient’altro».

Per uomini come Dawson Jordan e suo figlio non c’era via di fuga da questa condizione, anche se in un modo o nell’altro riuscirono sempre a cavarsela e a riempirsi lo stomaco. A volte lavoravano la mattina presto, mungendo le mucche in una fattoria dei paraggi e portandole poi al pascolo. Nei momenti più duri, capitava che un agricoltore retrocedesse da fittavolo – che gestiva in proprio la terra altrui – a mezzadro, come spiega William Henry Jordan: «In quel caso tu mettevi le braccia e i proprietari terrieri mettevano il mulo, le sementi e il fertilizzante. Alla fine della stagione, prendevi da un terzo alla metà di quello che rimaneva. Ma spesso non rimaneva niente».

Questa è la ragione per cui molti contadini cercavano fonti di guadagno alternative e il contrabbando inizò a giocare un ruolo decisivo. Gli agricoltori della Pianura costiera – sia neri sia bianchi – producevano il proprio distillato di granturco fin dall’epoca coloniale. Molti di loro non potevano permettersi di comprarlo, perciò se lo facevano in casa. «Da sempre, il whisky di granturco era tutto quello che avevano,» spiega Maurice Eugene Jordan «e quindi il contrabbando fioriva. C’erano distillerie ovunque, sul fiume, nei boschi, nelle paludi, ovunque ci fosse l’acqua buona».

Benché sia improbabile che Dawson Jordan abbia deciso di proposito di diventare un distillatore clandestino, finì ben presto per guadagnarsi una certa reputazione nell’àmbito dei traffici illegali della contea di Pender. Forse entrò nel giro quando trasportava i tronchi lungo il fiume: «Magari quelle zattere erano piene di whisky,» racconta Maurice Jordan con una risata allusiva «chi può sapere cosa nascondessero».

È possibile che il whisky di granturco riuscisse a rinfrancare in parte quella gente da una vita di stenti. Sicuramente rallegrava l’atmosfera durante le lunghe notti, spingendo anche i più cauti verso il gioco d’azzardo. Gli strenui lavoratori della contea di Pender giocavano ai dadi per pochi centesimi, niente al confronto delle somme enormi che Michael avrebbe guadagnato decenni dopo.

«Nessuno aveva niente da scommettere,» afferma Maurice Eugene Jordan «non è che puntassero davvero qualcosa, tiravano solo i dadi».

Ecco il carattere dei Jordan: lavorare sodo e trovare il modo per rilassarsi un po’. Anche da questo punto di vista, Dawson Jordan fu il capofila tra gli uomini della famiglia Jordan. Sapeva come farsi tentare dal diavolo, per provare l’ebbrezza del divertimento. Beveva e fumava con moderazione, e forse si concedeva anche un po’ di movimento nelle interminabili notti della Carolina.

UNA NUOVA GENERAZIONE

Negli anni Trenta, appena raggiunta l’età adulta, il figlio di Dawson, William Edward, fu soprannominato «Medward». Trovò lavoro come autista per un’impresa di giardinaggio. Pur continuando ad aiutare il padre nella fattoria, il suo modesto salario gli consentì di affrancarsi dalle alterne fortune della vita da mezzadro. Guidare il piccolo camion autoribaltabile, trasportando i materiali nella zona, elevò lo status di Medward e gli fornì l’opportunità di incontrare persone nuove, un cambiamento ragguardevole rispetto all’esistenza isolata di un agricoltore. Secondo i racconti della famiglia, Medward era anche un noto dongiovanni.

Poco prima dei vent’anni, si fidanzò con una graziosa ragazza di nome Rosabell Hand, lontana parente dal lato materno della famiglia. Rosabell diventò sua moglie nel 1935 e due estati più tardi gli diede un figlio – il padre di Michael. Lo chiamarono James Raymond Jordan.

La coppia visse per decenni insieme a Dawson Jordan, senza mai ribellarsi alla sua tirannica presenza, componendo un nucleo familiare affollato che avrebbe in seguito accolto anche il piccolo Michael e i suoi fratelli. Rosabell era tanto dolce e tranquilla quanto suo suocero era chiassoso. Avvicinandosi ai cinquanta, Dawson cominciò a camminare sempre più spesso col bastone, ma era sua la parola che dettava legge nella comunità familiare.

Come per la maggior parte degli agricoltori, le difficoltà finanziarie rimasero una costante nella vita dei Jordan, che tuttavia – come ricordano in molti – riuscirono sempre a evitare di farsi sopraffare dalle avversità. Forse perché Dawson aveva dovuto imparare presto che al mondo c’è di peggio che la mancanza di soldi necessari a saldare i conti. Quando i problemi economici diventarono troppo pressanti, Dawson si decise a compiere il passo che altri fittavoli e mezzadri avevano fatto prima di lui: preparò le valigie, legò il mulo al carro e traslocò.

Ma non è che dovesse andare molto lontano per ripartire da capo. Dawson, suo figlio, la nuora incinta e il loro bimbo si sistemarono nella comunità agricola di Teachey, a soli quaranta chilometri da Holly Shelter. Poco dopo il trasloco, Rosabell partorì il secondo figlio, Gene.

In tutto, Rosabell Hand Jordan diede a Medward quattro figli, i quali a loro volta misero al mondo una dozzina di nipotini, che popolavano in pianta stabile la loro modesta abitazione. Col tempo, grazie al lavoro di Medward, i Jordan riuscirono a risparmiare abbastanza per comprare una casetta a buon mercato a Calico Bay Road, appena fuori Teachey. Solo tre camere da letto e un gabinetto esterno, ma per Dawson e la sua famiglia rappresentava una sorta di castello. Per il piccolo Michael quello sarebbe stato il centro del mondo.

Di lì a poco, i Jordan acquistarono altri lotti lungo la stessa strada, dal momento che continuavano a prosperare grazie al lavoro di Medward e al contrabbando di Dawson, mentre l’intera area sbocciava trasformandosi in una piccola comunità residenziale. Si può apprezzare il valore affettivo di quella prima casa se si considera che anche decenni dopo, nonostante le ricchezze accumulate da Michael, i Jordan decisero di affittarla ma di rimanerne i proprietari.

Insieme alla prosperità, l’elemento nuovo nelle vite di Dawson e del figlio era la presenza di Rosabell Jordan, una ragazza molto religiosa che amava tutti i suoi figli e nipoti – e perfino i figli che il marito ebbe da relazioni extraconiugali con donne del vicinato. La «signora Bell», come era spesso chiamata, sembrava però orgogliosa in particolare del suo primo figlio. C’era proprio qualcosa di diverso in James Raymond Jordan. Aveva una luce e un’energia speciali. Per cominciare, era molto sveglio. All’età di dieci anni guidava già il trattore per aiutare suo padre nei campi, e gli mostrava come ripararlo quando si fermava. Diventato un giovanotto, impressionò l’intera comunità con le sue doti di meccanico. Pare che Medward fosse apertamente critico nei confronti di James, mentre il ragazzo idolatrava nonno Dawson. Una delle caratteristiche di James era l’intensa capacità di concentrazione, rivelata dalla lingua che spuntava dalla bocca quando era assorto in un compito preciso. Secondo alcuni membri della famiglia, tirare fuori la lingua era un gesto che James aveva ereditato da Dawson.

Mentre si avviava a diventare adolescente, lavorando a stretto contatto con il padre e il nonno, James imparò a muoversi con facilità sia a Holly, dove era nato, sia a Teachey, dove era cresciuto. «Era piuttosto tranquillo» ricorda Maurice Eugene Jordan, che frequentò la Charity High School di Rose Hill insieme a James. «Se non ti conosceva, rimaneva sulle sue». Al contrario, se James era in confidenza con qualcuno riusciva a essere molto affascinante, specialmente con le ragazze, proprio come suo padre Medward. Come molti coetanei James amava il baseball e i motori, ed era era bravo davvero su entrambi i fronti – il che significava disporre spesso di un mezzo di trasporto, che negli anni Cinquanta conferiva all’adolescente James Jordan uno status particolare. Aveva anche una certa propensione al divertimento, e sapeva dove trovarlo nelle notti in cui la luna piena splendeva sopra la Pianura costiera. In quelle zone, di solito, i neri si tenevano alla larga dai bianchi, ma questo non valeva per Dawson e per suo nipote James.

Gli anni Cinquanta erano ancora tempi difficili per gli afroamericani. In molti avevano servito il paese durante la Seconda guerra mondiale, e in cambio avevano visto migliorare l’atteggiamento dell’America nei loro confronti. Ma le vecchie abitudini dominavano ancora la società del North Carolina, come di lì a poco avrebbe dimostrato la lotta per i diritti civili. Dick Neher, un giovane marine bianco dell’Indiana, sposò una ragazza del posto e si stabilì a Wilmington nel 1954. Neher amava il baseball, come gli abitanti della vicina cittadina di Wallace, dove a volte Neher portava qualche conoscente di colore per una partitella. È probabile che a Wallace Neher abbia giocato anche contro James Jordan. In ogni caso non giocò a lungo: una sera tornando a casa trovò un pickup parcheggiato davanti all’entrata. Alcuni membri del Ku Klux Klan lo aspettavano per lamentarsi del fatto che girasse in macchina con gente di colore e organizzasse partite di baseball miste. All’inizio Neher ignorò la minaccia, finché i membri del Klan non tornarono a fargli visita. E gli dissero che quello sarebbe stato l’ultimo avvertimento. Così Neher smise di andare a Wallace a giocare a baseball. Rimase a Wilmington, però, e anni più tardi divenne l’allenatore di baseball di un ragazzino di nome Michael Jordan.

In un’atmosfera del genere, Dawson e i suoi figli erano troppo provati dalla vita di tutti i giorni per guardare con fiducia al futuro. Ciononostante, la famiglia e i vicini di casa vedevano in James Jordan il rappresentante di una nuova generazione, capace forse di lasciarsi alle spalle il vecchio mondo per raggiungere traguardi nuovi e più ambiziosi.

Ancora nessuno poteva sapere, all’inizio degli anni Cinquanta, in che modo le novità si sarebbero manifestate, né che speranze e dolori avrebbero finito stranamente per mescolarsi. È logico supporre che se i Jordan avessero potuto immaginare gli eventi imprevedibili che il futuro aveva in serbo per loro, vi sarebbero corsi incontro. Ma è anche possibile – come ha affermato in seguito qualcuno della famiglia – che sarebbero scappati a gambe levate.

----

Il libro Michael Jordan, la vita, è edito da 66th & 2nd e potete acquistarlo qui.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura