Quel gol
Se guardate una volta di più il gol di Weah contro il Verona dentro ci trovate un bel pezzo di questa storia, quasi che i 14 secondi che intercorrono tra il momento in cui il pallone atterra sul collo del piede destro e quello in cui lo stesso pallone supera la linea di porta dalla parte opposta del campo raccontassero per metonimia tutta l’essenza e la narrativa della straordinaria carriera di George Manneh Oppong Weah.
Partiamo dalle circostanze: l’8 settembre 1996 Weah sta per compiere trent’anni, è il Pallone d’oro in carica e Milan-Verona è la prima giornata di campionato di quella che a conti fatti si rivelerà la sua penultima stagione ai massimi livelli. Mancano 5 minuti alla fine e Weah recupera palla nella sua area di rigore sul corner battuto male da Manetti del Verona. Si potrebbe parlare di spirito di sacrificio se non ci fosse da dubitare che per lui, a quel punto della carriera, esista il concetto stesso di sacrificio in rapporto alle prestazioni atletiche.
Parte prima, la tecnica: Weah addormenta il pallone con il collo del piede, e con lo stesso movimento lo spinge avanti a sé rovesciando l’azione. I primi 40 metri, fino a poco oltre la linea di centrocampo, li fa senza essere contrastato e senza che i giocatori del Verona riescano a riposizionarsi. Il motivo è che lui con la palla incollata ai piedi riesce ad essere molto più veloce degli avversari in corsa libera. Persino quando una zolla del prato di San Siro fa imbizzarrire lievemente un rimbalzo, Weah non altera la velocità della corsa, e si vede che esercita un controllo assoluto.
Parte seconda, la resilienza: Weah supera la linea di centrocampo e impatta letteralmente contro la penultima linea di difesa di un Verona lungo e sorpreso. Sono comunque due gli avversari che si gettano più o meno contemporaneamente sul pallone, mentre un terzo gli chiude la via di fuga a destra. Il riflesso di Weah sull’impatto del contrasto combinato di Fattori e Colucci è quello che ci si aspetterebbe da un uomo di gomma, o da un eccezionale sciatore acrobatico che si trova di fronte un ostacolo imprevisto: gira su sé stesso e fa scivolare il piede fuori dall’intreccio di gambe dei due avversari, rimbalza e tiene un equilibrio prodigioso spingendo ancora il pallone avanti. Questo è il momento in cui tutti capiscono che Weah non può essere fermato, e che qualcosa di straordinario sta per succedere. È il momento in cui ci si alza e si trattiene il fiato, ma ancora si rimane in silenzio.
Parte terza, la leggerezza: l’ultimo ostacolo tra Weah e l’area di rigore è Corini, che arriva da sinistra e sembra in anticipo sul pallone. Corini è grosso modo la metà di Weah, quindi dopo l’esibizione di potenza di pochi metri prima ci si potrebbe aspettare un’azione di sfondamento, una spallata, ma invece Weah tocca il pallone con la punta del piede destro quel tanto da spingerlo oltre Corini, mentre lui gli sfila sul lato opposto, senza sfiorarlo. È quello che in Brasile chiamano drible de vaca. Lo stacco mozartiano dalla potenza pura a una leggerezza celeste è una prerogativa del gioco di George Weah ed è uno dei motivi che rendono questo gol non solo bellissimo ma addirittura emozionante.
Parte quarta, l’attaccante: dal momento che si resta comprensibilmente storditi di fronte a una cavalcata del genere, quello che rischia di passare inosservato è che a questo punto buttarla dentro è tutt’altro che semplice. L’angolo a disposizione di Weah è stretto e il portiere del Verona, Gregori, esce abbastanza bene da chiudere buona parte dello specchio. Weah carica il tiro come dovesse colpire forte, di collo pieno, e invece stringe di interno destro sul secondo palo, un topspin fuori dalla portata del portiere che Weah segue con lo sguardo mentre frena a lunghe falcate. 85 metri, 30 passi e 14 tocchi di palla, precisamente uno al secondo.
Parte quinta, George Weah: quando la palla si insacca, Weah si lancia in una corsa sfrenata verso bordo campo, dove abbraccia un tizio che a fine partita racconterà essere un perfetto sconosciuto. Si prende un’ammonizione per eccesso di esultanza e a fine partita racconta il gol con semplicità disarmante: «Ho preso il pallone nella mia area, ho visto che ero lontano dalla porta avversaria, ma ho pensato da attaccante, mi son detto, adesso vado a fare gol. Forse è stato un gol matto, ma va bene così». Poi dice un’altra cosa tipicamente da Weah, cioè da bravo ragazzo che anche dopo aver vinto il Pallone d’oro non si è montato la testa, fa l’ambasciatore dell’Unicef e dopo qualche anno, finita la carriera, entrerà in politica riuscendo a risultare credibile e a non assomigliare più di tanto a un ex famoso imbolsito con aspirazioni cesaristiche: «Devo ringraziare il mister (Tabárez, nda), perché fino a quel punto non avevo giocato molto bene, ha capito che la forma la trovo giocando e mi ha lasciato in campo, dedico il gol ai tifosi e anche a lui».
Weah, l’africano in pantofole
George Manneh Oppong Ousmane Weah nasce in uno slum di Monrovia il 1° ottobre del 1966. L’infanzia poverissima ma dignitosa, per merito di una madre che riuscì a prendersi cura di lui e dei suoi tredici fratelli e che ancora oggi è il suo modello. È il prologo perfetto di questo plot rags to riches, le cui prime scene mostrano Weah che impara a giocare con un pallone di fortuna sui campetti dissestati della capitale di uno dei paesi più sciagurati del continente africano e del mondo.
Le contraddizioni della Liberia hanno radici antiche quanto la sua fondazione come colonia di schiavi americani liberati, avvenuta a metà dell’Ottocento per iniziativa della American Colonization Society, un’ambigua organizzazione filantropica che riuniva abolizionisti e segregazionisti concordi nell’obiettivo di “rimpatriare” i neri d’America, sia pure per motivazioni decisamente opposte. Abbandonata in bancarotta dai finanziatori americani pochi anni dopo la fondazione, la Liberia precipitò in un’ininterrotta spirale di crisi economiche, guerre ed epidemie che in buona sostanza prosegue fino ai giorni nostri.
Weah gioca nel semiprofessionistico campionato liberiano fino alla relativamente tarda età di 21 anni, attraversando numerose sommosse e un colpo di stato militare: «In Liberia non c’era speranza, ma io ho voluto inventarmi un futuro per me e per le persone a me vicine. Il mio paese era in guerra, e nelle strade non c’erano più valori. Ma io ci credevo e lavoravo duro ogni giorno. Sono stato ispirato anche da le roi Pelé, dalla sua storia. Vedevo le sue cassette e volevo imitarlo». Con l’altro cognome “Oppong” ottiene una certa notorietà locale e nel 1986 esordisce in Nazionale, partecipando poco dopo a una tournée in Brasile che gli fa un’impressione fortissima. «Tornato in patria—racconterà—il mio rapporto col calcio è cambiato completamente. Ho iniziato ad allenarmi molto più duramente e sono diventato il capitano e uno dei giocatori più importanti del mio club».
Nel 1987 passa al Tonnerre Yaoundé, la squadra camerunese che dieci anni prima aveva lanciato Roger Milla, e alla prima stagione segna quasi un gol a partita. «Quando ho iniziato in Africa non mi pagavano ma me ne fregavo, mi divertivo. Dormivo con un pallone e mi nutrivo di pallone». Si mette in luce in un campionato che finalmente è nei radar degli osservatori europei, e i più svelti a portarselo a casa sono quelli dei campioni di Francia del Monaco, su segnalazione dell’allora allenatore del Camerun Claude Le Roy.
Weah arriva in Francia da perfetto sconosciuto in una squadra piena di certezze, costruita sui difensori della nazionale Battiston e Amoros, sulla presenza offensiva di Mark Hateley, e soprattutto sulla regia dell’altro inglese Glenn Hoddle. All’inizio a destare interesse sono soprattutto le straordinarie prestazioni atletiche del giovane attaccante liberiano. Lo cronometrano sui cento metri e fa 11'5'', come un discreto specialista. «Quando George Weah è arrivato a Monaco, aveva l’aspetto dell’africano in tunica e pantofole. Non si era europeizzato, eppure non sembrava per niente spaesato. Dolce, calmo, in seguito divenne inarrestabile sul campo. George respirava calcio. E si è adattato molto rapidamente» ricorda Emmanuel Petit, che in quella squadra era appena stato promosso dalle giovanili.
A inizio stagione in attacco gioca la coppia Fofana-Hateley, ma quando l’inglese si infortuna l’allenatore promuove Weah senza esitazioni: «Ho fiducia in te, e se ti impegni diventerai un grande giocatore, un riferimento mondiale». L’allenatore, nemmeno quarantenne, è Arsène Wenger, e anni dopo Weah dirà senza giri di parole di dovere a lui la sua carriera: «Mi ha insegnato a rispettare il gioco, ad avere sempre coraggio e a vivere come un uomo. Mi ha insegnato quello che sapeva dell’Europa senza dimenticare le mie radici africane, perché le rispettava. Mi ha lasciato giocare a modo mio».
Alla tredicesima di campionato contro lo Strasburgo Weah impiega 7 minuti a segnare il suo primo gol in Francia, e al 67’ completa la sua prima doppietta, con il terzo gol nel 4-1 finale. Va a segno anche nelle successive due partite contro Montpellier e Marsiglia, e nel frattempo si presenta nel migliore dei modi a tutta Europa: il 5 ottobre 1988 il Monaco riceve il Valur Reykjavik nei sedicesimi di Coppa dei Campioni, per ribaltare la sorprendente sconfitta per 1-0 dell’andata. Dopo un quarto d’ora un maldestro autogol islandese ristabilisce l’equilibrio. Minuto 38: dopo una serie di rilanci a campanile da una difesa all’altra il pallone arriva poco oltre la linea di centrocampo a un Weah magrissimo, con le gambe sottili e la maglia a maniche lunghe troppo grande che gli sventaglia sul petto. Lascia scendere il pallone e lo addomestica con il piatto del piede, spalle alla porta, tra due difensori islandesi. Aspetta un attimo, finge di tornare indietro, poi si gira di scatto e sfila in mezzo ai due avversari, all’altezza del cerchio di centrocampo. Divora una quindicina di metri di campo mentre gli islandesi arrancano, si aggiusta la palla sul destro e più o meno dalla trequarti calcia fortissimo, di collo esterno, un pallone che prima viaggia a mezz’aria e poi si alza e si piega verso destra, infilandosi all’incrocio dei pali alla sinistra del portiere islandese. È un gol da PlayStation prima che inventino la PlayStation, e infatti ai commentatori francesi mancano le categorie interpretative: «Superbe! Formidable!» grida uno, «Extraordinaire!» risponde l’altro, esaurendo i sinonimi immediati.
Ora non mettetevi a sottilizzare sui difensori islandesi...
Dopo alcune partite a rendimento altalenante, Weah diventa semplicemente incontenibile e segna 9 gol nelle ultime 8 partite di campionato, compresa una splendida doppietta nello scontro diretto con il Marsiglia, che vincerà poi il campionato. Il Monaco chiude terzo, alle spalle anche del PSG, e perde la finale di Coppa di Francia con il solito inarrestabile Marsiglia di Papin, Cantona, Abedi Pelé e Sauzée. A fine anno Weah, appena uscito dall’anonimato, vince il Pallone d’oro africano sopravanzando il portiere del Camerun Bell e Kalusha Bwalya del PSV. «Fu una vera sorpresa—ricorda Wenger—mi sentii come un bambino che il giorno di Pasqua esce in cortile e trova un coniglio di cioccolato. Non ho mai visto un giocatore esplodere come fece lui».
L’anno dopo però il ragazzo subisce il contraccolpo di un’esplosione così repentina, o forse il problema sono i tanti infortuni, fatto sta che con sole 17 presenze e 5 gol il 1989/90 è la stagione probabilmente più difficile della fase ascendente della sua carriera. In campionato il Monaco finisce terzo, e la stagione dopo (1990/91) con l’arrivo di Rui Barros e Youri Djorkaeff sale di un gradino e arriva secondo, sempre alle spalle della corazzata Marsiglia. Weah torna ai suoi livelli e si conferma goleador europeo, stavolta in Coppa Uefa, dove in 5 partite segna 3 gol di cui uno pazzesco contro il Roda grazie a un altro dei suoi fondamentali più abbaglianti: il colpo di testa da distanze da cui nessun altro riuscirebbe a imprimere al pallone abbastanza forza (in questo caso colpisce in pratica dal limite dell’area, in torsione). Le soddisfazioni maggiori però arrivano dalla Coppa di Francia, dove Weah segna ai quarti contro il Cannes e apre la festa del 5-0 in semifinale con il Gueugnon con una doppietta, portando la squadra in finale per l’ennesimo rendez-vous con il Marsiglia. È una partita tiratissima e lo 0-0 regge fino al novantesimo, quando entrambe le squadre sono sulle gambe e i due cambi di Wenger, Passi e Ramón Díaz, riescono a inventarsi uno scambio che il francese scarica in rete con rabbia. Per il Monaco è il primo trofeo strappato agli invincibili di Bernard Tapie, e per Weah il primo titolo di squadra e un ticket per la Coppa delle Coppe 1991/92, che scandirà i passaggi chiave della miglior stagione della carriera di Weah fino a quel momento, l’ultima al Monaco.
Il primo incrocio di Weah con un’italiana, la Samp di Mantovani in Coppa delle Coppe 1989/90. George è il migliore in campo e segna di testa, poi nel secondo tempo Vialli, con una meravigliosa simulazione, molto anni ’90, raddrizza le cose per la Samp.
Con 18 gol in 34 partite di campionato (resterà il suo record personale) Weah guida il Monaco all’ennesimo secondo posto dietro il Marsiglia ed esplode definitivamente come uno degli attaccanti più interessanti del panorama europeo. Ormai è incredibilmente completo e riesce a combinare come quasi nessun altro gioco di profondità e presenza in area di rigore. Salta l’uomo quasi sempre e ha un’incredibile facilità a passarsi il pallone dall’esterno all’interno del piede e dal destro al sinistro. Di testa è quasi impossibile da contrastare, sia per elevazione che per tecnica. Difetto principale: non è un cecchino, e non lo diventerà mai. I gol sono 18, ma per la mostruosa quantità di occasioni che ha saputo crearsi sarebbero potuti essere molti di più, magari 27 come quelli dell’inavvicinabile capocannoniere e prossimo Pallone d’oro Jean-Pierre Papin. Difetto secondario: è fin troppo generoso e non riesce a stare a lungo lontano dal gioco. Se la palla non gli arriva va a prendersela in posizione da difensore o da mediano, lasciando il reparto offensivo senza punti di riferimento. È comunque il capocannoniere della squadra anche in Coppa delle Coppe, dove i monegaschi fanno fuori ai quarti la Roma di Ottavio Bianchi e in semifinale il Feyenoord per poi perdere da favoriti la finale contro un modesto Werder Brema.
Weah, l’occidentale
Risale a questo periodo un bel servizio di TF1—che purtroppo potete vedere solo con un IP francese—con un'intervista a Weah nel suo appartamento e poi in giro per il Principato. È molto cambiato rispetto all’ “africano in tunica e pantofole” descritto da Petit tre anni prima, nonostante le telecamere indulgano in soggiorno sugli spauriti membri della famiglia in abiti tradizionali. Indossa tute larghe secondo la moda hip hop e racconta all’intervistatore del suo legame con gli Stati Uniti e dei suoi due appartamenti a New York. Anzi, tiene a precisare, lui «lavora a Monaco, ma vive a New York». È molto serio ma mai affettato mentre ripercorre la propria carriera parlando di impegno e di fortuna, di sacrificio e di modelli. Si è appena convertito all’Islam perché—dice—«ho iniziato a capire cosa voglio davvero», e sta studiando l’arabo.
Lo vediamo in giro per Montecarlo in decappottabile con suo cugino James Debbah, arrivato quell’anno al Monaco dalla B francese dietro suggerimento di Weah, o forse in un tentativo della dirigenza di compiacerlo. Con loro a Monaco c’è una piccola colonia di parenti e amici fuggiti dalla guerra civile liberiana, e quando gli chiedono della situazione del suo paese Weah dà una risposta di una durezza irrituale, soprattutto per uno sportivo: «Abbiamo bisogno di aiuto. Abbiamo davvero bisogno di aiuto, ma nessuno fa niente. Quando i vostri paesi sono in difficoltà, invece, ci si precipita a soccorrerli. Il mondo non è giusto. C’è della ferocia in questo mondo. Lascio queste persone alle proprie coscienze».
Alla fine lo portano a Mentone e con il casotto della dogana e la bandiera italiana che sventola sullo sfondo gli chiedono se giocare in Italia è il suo sogno. «Non è un sogno» risponde lui, in un modo che potrebbe essere neutro o potrebbe sottintendere che la sua dimensione è ormai molto al di là dei sogni «ma se un giorno avessi l’opportunità di giocare in Italia mi piacerebbe».
A fine stagione—si dice per la delusione della finale persa—Weah decide di lasciare il Monaco. Viene dato per quasi fatto il suo trasferimento per 4 miliardi al Cagliari del neopresidente Cellino, ma Carlo Mazzone mette un veto dell’ultimo momento sull’operazione, ritenendo Weah poco adatto al calcio italiano e preferendogli il belga Oliveira. Weah invece resta in Francia e va al Paris St. Germain al posto di Stoichkov, che aveva firmato un precontratto prima di cambiare idea e decidere di restare a Barcellona.
Il Paris appena acquistato da CanalPlus è una squadra ambiziosa, che si sta attrezzando per spezzare il dominio dell’OM. Ci sono Le Guen, Roche, Guerin, Valdo, il portiere Lama e soprattutto David Ginola, che ricorda Glenn Hoddle per ruolo e portamento e con Weah comporrà una coppia destinata a diventare proverbiale nel calcio francese. L’allenatore è il portoghese Artur Jorge, personaggio affascinantissimo, laureato in filologia germanica mentre ancora giocava nel Benfica, umanista, poeta, di idee marxiste.
Weah segna i primi gol, due, contro lo Strasburgo, esattamente come quattro anni prima col Monaco, inaugurando una grande stagione che vede i parigini giocarsi il titolo testa a testa con l’OM. Il classique di andata si gioca a Parigi ed è ricordato a tutt’oggi come una memorabile boucherie (macelleria). Su internet si trovano un sacco di video che non raccolgono le occasioni da gol ma le entrate più assassine della partita. La risolve uno dei nuovi acquisti del Marsiglia, Alen Boksic, e con quella vittoria l’OM scava un solco che non sarà più colmato fino a fine campionato. Il PSG arriverà secondo a 51 punti e anche quando il titolo verrà revocato al Marsiglia per l’affaire VA-OM la federazione deciderà di non riassegnarlo.
Intermezzo
Andata dei trentaduesimi di finale di Coppa Uefa al Parco dei Principi, l’avversario è il PAOK, non sono ancora passati 5 minuti e Weah scende a recuperare palla fino alla trequarti del PSG. Un palleggio col sinistro, poi uno col destro con cui si gira e supera il primo avversario, si fa cinquanta metri di campo con mezza squadra avversaria che lo insegue, salta un difensore in tunnel appena fuori area e poi calcia d’esterno sul primo palo, sul fondo. È stata una specie di prova generale del famoso gol al Verona, e Weah torna in posizione con l’aria assorta, come se stesse ripassando mentalmente l’azione appena conclusa. Non sembra avere il fiatone. Pochi minuti dopo su un calcio d’angolo da destra si posiziona sul secondo palo, lo marcano in due perché sanno quanto sia pericoloso di testa. Parte il corner e Weah salta insieme ai due marcatori, resta in aria mentre loro ricadono a terra e gira il pallone sotto la traversa. Ha la stessa misteriosa capacità di Michael Air Jordan di rimanere sospeso in aria più a lungo degli altri, quasi fosse soggetto a una diversa gravità. Passano altri 10 minuti e c’è un altro corner dallo stesso lato, battuto di nuovo per Weah. È ancora gol, stavolta segnato quasi senza saltare, rovesciando il pallone di testa in porta mentre arretra verso il limite dell’area.
La versione beta del gol al Verona e due gol, in meno di mezz’ora.
La più bella partita degli anni Novanta
La campagna europea prosegue contro il Napoli di Ranieri, con Zola, Fonseca e Careca in attacco. Al San Paolo “l’africano Uéa”—come lo chiama con buona approssimazione geografica e accento sdrucciolo il commentatore RAI—ne fa altri due in 35 minuti rendendo nuovamente superflui gli ultimi tre tempi della sfida di andata e ritorno (e costando la panchina a Ranieri). Superato anche l’Anderlecht agli ottavi, il sorteggio dei quarti mette per la prima volta nella storia il PSG di fronte ai blancos del Real Madrid. L’andata si gioca al Bernabéu e un Real stellare con Butragueño, Zamorano, Luis Enrique, Martín Vázquez, Prosinecki e Hierro conferma i pronostici mettendo sotto il Paris per novanta minuti e segnando tre gol. Una deviazione di testa di Ginola su un corner tiene vive le speranze PSG, con il risultato finale di 3-1.
La partita di ritorno, giocata con 55.000 spettatori in un Parco dei Principi pieno in ogni ordine di posti, è senza tema di smentita, una delle partite più belle degli anni Novanta. Davanti insieme a Weah e Ginola gioca Valdo, brasiliano di una discontinuità menomante che però quella sera è in vena, ed è imprendibile. Minuto 33, corner di Valdo, Weah segna l’ennesimo gol di testa in quel suo modo che anni dopo Boban descriverà con «tutto lo stadio sente il rumore dell’impatto». Il PSG attacca, serve un gol, ma il Madrid si difende bene. A un quarto d’ora dalla fine Bravo di testa colpisce la parte interna della traversa, ma la palla rimbalza al di qua della linea e viene spazzata. Dieci alla fine, Valdo tenta l’infilata e appoggia per Weah che è al limite dell’area, spalle alla porta, con due difensori in maglia bianca che lo pressano da dietro. Si alza il pallone col destro, e col secondo tocco d’esterno scucchiaia in area dove Bravo salta altissimo e riesce a colpire di testa all’indietro. La palla rimbalza poco fuori dal limite dell’area e David Ginola, bello come Gesù, arriva da dietro e calcia di controbalzo all’incrocio dei pali, tirando giù il Parco dei Principi. È il gol del 2-0 che vuol dire qualificazione.
Il Real allora si riversa in attacco, ma perde un pallone, rilanciato dalla difesa per Weah, largo sulla destra. Giravolta e tocco di prima verso il centro, dove Ginola si fa una quarantina di metri in contropiede, uno contro uno con l’ultimo uomo del Real, anzi due contro uno, perché nella bolgia del Parco dei Principi è arrivato Valdo in sovrapposizione sulla sinistra, tipo Del Piero al Mondiale 2006 con la Germania. Ginola appoggia per lui, che rinuncia alla conclusione a botta sicura—è pur sempre Valdo—aggiunge un dribbling inutile e fa quasi rinvenire la difesa del Real, ma poi fa gol. È 3-0, un trionfo, sicuramente la più bella vittoria della storia del PSG. E invece al 94' Zamorano la mette, di testa, con la sua elevazione rabbiosa da riscatto sociale, per il 3-1 che manderebbe le squadre ai supplementari. Il PSG batte, si aspetta solo il fischio dell’arbitro, però arriva un ultimo calcio di punizione, accanto al vertice destro dell’area. Sul pallone va Valdo e sul secondo palo va Weah, portandosi dietro metà della terrorizzata difesa del Real. Sul suo taglio la palla però non arriva, è più corta, e il centrale Kombouaré salta prendendo tutti d’anticipo e la mette sul secondo palo, dove Paco Buyo non può arrivare. Minuto 96, 4-1, è finita davvero, a Parigi la festa dura tutta la notte.
L’Italia-Germania 4-3 dei tifosi del PSG.
In semifinale il PSG riesce a prendersi la soddisfazione di prendere a pallonate per un tempo la Juve di Trapattoni al Delle Alpi (gol di Weah su perfetto taglio in profondità) prima di arrendersi allo show in due puntate di Roberto Baggio, che ne fa due all’andata e uno al ritorno e vincerà la coppa quasi da solo, segnandone altri due nella finale di andata a Dortmund.
In ogni caso, il PSG per la prima volta nella sua storia entra nel club delle grandi d’Europa mentre Weah e Ginola sono sulla bocca di tutti come una delle coppie d’attacco più forti e affascinanti del continente, ma la dirigenza del “Milan di Francia” (analogia di moda all’epoca, derivante dal fatto che entrambe le squadre appartengono a un impero televisivo) vuole crescere ancora.
L’estate successiva il PSG prende il numero 10 del Brasile Raí, stella del San Paolo e fratello minore di Socrates, alzando ancora l’asticella tecnica della squadra. I risultati si vedono: il PSG prende la testa della classifica a ottobre e non la lascia più, vincendo il campionato con 7 punti di vantaggio sul Marsiglia. Weah segna 11 gol e finisce la stagione imbattuto, perché squalificato in occasione delle 3 sconfitte stagionali. Il suo record di 35 partite consecutive senza sconfitte con la maglia del PSG è stato battuto solo 10 giorni fa da Marquinhos. Siamo ormai alla completa maturazione tecnica, e il primo gol nel 4-0 all’Auxerre descrive bene il livello di coordinazione ed eleganza calistenica a cui Weah è arrivato nel muoversi nello spazio e tra gli avversari.
Quella stagione in Coppa delle Coppe le aspirazioni del PSG si infrangono di nuovo in semifinale, e di nuovo contro la squadra che alla fine vincerà il trofeo, solo che stavolta nella sfida di ritorno contro l’Arsenal succede qualcosa di imprevedibile: Weah non gioca, è seduto in panchina e ci resta fino alla fine, per scelta tecnica di Artur Jorge. Da tempo girano rumors a proposito di contrasti tra i due. Il portoghese è un maestro di Sacchi, uno per cui i singoli vengono dopo i meccanismi della squadra. Pare che consideri Weah indisciplinato e che George consideri lui rigido. Per scelta propria o per scelta della società, a fine stagione è il tecnico campione di Francia a fare le valigie.
Il gol di Weah al Bernabéu nella Coppa delle Coppe 1993/94, che dà anche l’idea del perché in Spagna Ginola fosse “el Magnifico”.
L’anno di Weah
L’anno di Weah non è una stagione calcistica, ma proprio un anno solare: il 1995. Lo gioca per metà al Paris Saint-Germain e per metà al Milan, e in 12 mesi fa vedere al mondo cose che nessuno aveva mai fatto vedere, arrivando al vertice del calcio mondiale e diventando il primo calciatore non europeo a vincere il Pallone d’oro.
Avevamo lasciato il PSG di Artur Jorge, ritroviamo quello di Luis Fernández, campione di Francia e concentrato soprattutto sulla Champions League. Il girone con Bayern Monaco, Dinamo Kiev e Spartak Mosca è stato letteralmente divorato con 6 vittorie su 6, miglior attacco e miglior differenza reti di tutta la competizione. Weah ha fatto 6 gol, tra cui 2 o 3 dei più belli della sua carriera: c’è il primo gol contro lo Spartak, a incrociare di prima da fuori area, e ancor di più il secondo, con palla contesa su lancio lungo a un povero difensore russo che ruzzola per terra, si rialza e viene di nuovo messo mani a terra con un elastico al vertice dell’area. Poi esterno-interno col destro per saltarne un altro, e gol.
Soprattutto però c’è il gol del 23 novembre a Monaco di Baviera, che se quello al Verona non ci fosse mai stato sarebbe sicuramente l’epitome più nota del gioco grandioso, potente, fantasioso e adesso anche integrato nel collettivo di George Weah:
Da notare anche la conclusione, e dopo l’espressione di un Kahn più turbato del solito.
A rivedere gli highlights del PSG in quella Champions, se ne ricava un’immagine molto semplice: George Weah che prende a pallonate gli avversari da solo. Quello che colpisce—ancor di più all’epoca, in un calcio pre-supercalciatori alla Cristiano Ronaldo—è l’impressione di onnipotenza che Weah riesce a dare, come se gli avversari non fossero semplicemente inferiori a lui, ma proprio di un’altra categoria. Per leggerezza e varietà di gioco, per i cambi di direzione e di ritmo, per l’immediatezza con cui fa cose difficilissime, Weah sembra un giocatore senza limiti, nel senso che fa tutto quello che gli va di fare nel momento in cui gli viene in mente, e ci riesce sempre. A tratti sembra davvero scherzare con gli avversari o giocare ai giardinetti, in senso spensierato e niente affatto ombelicale.
Il PSG incontra in semifinale il Milan di Capello, Boban, Savicevic, Baresi e Maldini. A Parigi il PSG perde 0-1 e la prestazione di Weah è sconcertante, è il peggiore in campo. Secondo i media e i tifosi francesi il motivo è fin troppo chiaro: Weah è in trattativa col Milan, una trattativa anche molto avanzata, lo sanno tutti. Fernández ci mette del suo e per motivarlo in vista del ritorno dichiara: «Abbiamo bisogno di un grande Weah. Deve capire che portare il PSG in finale sarebbe il più prestigioso biglietto da visita per il suo futuro al Milan». Otterrà una prestazione poco migliore di quella dell’andata, nel 2-0 che costa al PSG l’eliminazione. Di fronte alle insinuazioni Weah sbotta: «Non sono un traditore, la verità è che il Milan è fortissimo. Ha approfittato dei nostri errori, perché è una grande squadra. All'aeroporto mi urlavano "in galera", come se avessi ammazzato qualcuno, ma a San Siro non mi è arrivato un solo pallone giocabile. Eppure la gente dovrebbe sapere che il PSG ha raggiunto la semifinale per merito mio. Io non ho mai venduto una partita, gioco sempre con il cuore, Dio lo sa». Poi chiede pubblicamente di essere ceduto al Milan, altrimenti se ne andrà l’anno dopo in scadenza di contratto. Verrà esaudito, purtroppo non prima che la sua esperienza parigina abbia una coda ignobile: in occasione della sua ultima partita al Parco dei Principi in curva appare un grande striscione con scritto: “Weah, on a pas besoin de toi” (“Weah, non abbiamo bisogno di te”) in cui le “O” sono sostituite da croci celtiche. Lama rifiuta di giocare, Ginola dichiara «Sono disgustato. Io qui non ci resto» (andrà al Newcastle), il presidente Denisot si chiede pubblicamente se abbia senso continuare ad investire. Weah nell’intervallo chiede a Fernández di non farlo rientrare nel secondo tempo, tanto assordanti sono i fischi del pubblico ogni volta che tocca palla.
Quando nel 2011, ormai da ex calciatore e uomo politico, torna a giocare in quello stadio per una partita di vecchie glorie organizzata da Lama, Weah parla con quell’intransigenza che gli viene fuori solo una volta ogni tanto, sulle cose che lo hanno segnato veramente: «La verità è che del Parco dei Principi non conservo niente, non ne ho un buon ricordo. È un posto dove ho lavorato, tutto qui, e poi sono passato ad altro».
Inarrestabile
Arriva a Milano a luglio, dopo una telenovela sullo status di comunitario talmente intricata che una volta risolto il tesseramento Weah avverte la necessità di precisare: «Io sono cittadino francese, ma ho la nazionalità liberiana. Sono in Italia per rappresentare il mio paese e l’Africa e per aiutare altri calciatori africani a venire a giocare qui». Viene accolto da un grande entusiasmo e aspettative ancora maggiori, ma anche da qualche malumore, ad esempio quello di Boban, che a un certo punto è l’indiziato numero uno a liberare il posto a Weah qualora restasse extracomunitario e sibila: «Lui è bravo, però in Italia si può anche fallire».
Alla presentazione gli chiedono se si sente pronto a sostituire van Basten, fermo per infortunio da due anni, e lui diplomaticamente risponde che spera ancora di giocarci insieme. Invece si ritrova a fare coppia in campo e in stanza con un varesotto alto un metro e settanta, Marco Simone, che magari non sarà van Basten ma con Weah ha fin da subito una sintonia quasi telepatica. Simone è una seconda punta molto rapida, con un’eccellente tecnica individuale, esattamente il tipo di giocatore con cui Weah—pur non essendo un centravanti classico—si è sempre trovato a meraviglia. I due si specializzeranno in scambi amanuensi sullo stretto e finiranno per scambiarsi continuamente i ruoli, tanto che spesso Weah diventerà il suggeritore.
Weah esordisce a Padova e dopo 6 minuti segna un gol che secondo me è all’altezza dei suoi più belli, perché salta altissimo spalle alla porta, resta in aria e inarca la schiena per riuscire a colpire il pallone con la nuca, e, chissà come, ma riesce ad essere precisissimo, e a metterla proprio nell’angolino dove il portiere non può arrivare. Poi nella ripresa ferma un pallone tra le linee e serve l’inserimento di Franco Baresi, che controlla col petto, col ginocchio e poi segna il suo ultimo, splendido gol con la maglia del Milan.
Il primo vero Weah-show con la maglia del Milan arriva alla terza di campionato, all’Olimpico contro la Roma. Con Savicevic e Simone disegna geometrie impazzite ma perfette, da solo tira fuori numeri che non hanno neanche un nome, tipo una specie di sombrero spalle alla porta con cui si gira e salta in palleggio due difensori della Roma. Segna due gol, il secondo bellissimo dopo uno scambio con Simone e saltando Aldair con uno di quei colpi di suola che ormai sono la sua firma.
Semplicemente inarrestabile.
L’indomani i giornali gli danno 8,5 o 9 in pagella. Repubblica scrive: «Uno spettacolo, una musica. Che gran giocatore è arrivato» e le attestazioni di stima di compagni e avversari si moltiplicano. «Credevo fosse solo potente, invece ha anche una tecnica superiore» dice Baggio. Finalmente tutto il mondo del calcio guarda a Weah e scopre un giocatore come in un certo senso non se ne erano mai visti. Weah è un grande anticipatore, un araldo sceso sulla terra a mostrarci come avrebbero giocato i campioni bionici di dieci o vent’anni dopo. È uno squarcio sul futuro, a cominciare dagli scarpini rossi con cui gioca—primo tra i campioni e tra i primi in assoluto a rompere la consuetudine del nero—che diventano l’emblema di una rivendicazione di individualità gioiosa, colorata, debordante. Se vogliamo Weah è una specie di prototipo grezzo di Ronaldo, con ancora più cavalli sotto ma un po’ meno grip. Del Fenomeno ha già la prepotente superiorità fisica e tecnica, ma non ancora l’efficienza, la cattiveria scientifica, la minimizzazione degli errori. Come dice Capello, «è capace di segnare gol impossibili, ma anche di sbagliarli». Weah è un’idea meravigliosa, Ronaldo è l’applicazione metodica di quell’idea per il massimo risultato. In questo senso, Weah sta a Ronaldo come Ten sta a OK Computer, è ancora un giocatore degli anni Novanta mentre Ronaldo è un giocatore del Duemila.
Weah nella cultura di massa: «Tutto bene?».
In Coppa UEFA fa cose lunari, con lo Strasburgo per poco non segna con una strana rovesciata di sbieco e poco dopo manda in gol di Simone con un memorabile colpo di tacco al volo, con lo Sparta Praga segna con una girata al volo un altro di quei gol che troverete in tutte le compilation.
In campionato contro la Juve campione d’Italia segna il gol più importante della stagione: triangolo con Simone, sinistro-sinistro-esterno destro sull’uscita del portiere. Il Milan batte la Juve 2-1 e vincerà lo scudetto.
Controllo e tiro sul gol sono da antologia.
Dopo che il traumatico addio al PSG aveva in qualche modo intorbidito le acque, l’inizio di stagione al Milan spazza via ogni residuo dubbio su chi sia il miglior calciatore del mondo, e l’annuncio di France Football del 27 dicembre finisce per essere preceduto da ben poca suspance: George Weah batte Klinsmann, Litmanen e Del Piero e diventa il primo giocatore non europeo a vincere il Pallone d’oro. Alla premiazione va con le valigie, perché sta partendo per la Coppa d’Africa, e dice: «Il mio successo dona fierezza alla nazione liberiana dilaniata dalla guerra. Dedico questa vittoria a tutti i popoli africani, sono davvero orgoglioso per me e per il mio continente», ma il riconoscimento più importante per lui arriverà qualche settimana dopo quando incontrerà pubblicamente Nelson Mandela, che lo abbraccerà e gli dirà: «Sei l’orgoglio d’Africa».
La proiezione dei propri successi sulla dimensione collettiva dell’Africa, della Liberia o in generale del proprio “popolo” è un tema talmente ricorrente nella self-narrative di Weah da non poter essere derubricata a un tic retorico, o a doveroso tributo alle proprie origini di un campione venuto da un’infanzia in cui «potevamo mangiare pollo solo una volta all’anno, a Natale». Basti pensare che quando a fine carriera si trasferirà negli Emirati Arabi per giocare una stagione nell’Al-Jazira, ai giornalisti dirà: «Sono qui per dimostrare che i giocatori europei non vengono solo per soldi, ma per impegnarsi seriamente». Insomma, dopo una vita da ambasciatore del calcio africano in Europa, finirà per investirsi della carica di ambasciatore del calcio europeo in Asia.
Ho idea che sentirsi un esempio, un simbolo, sia stata per Weah la miglior leva di automotivazione, l’argomento risolutivo nel suo dibattito interiore per spingersi a dare sempre il massimo e a porsi nuovi obiettivi. Arrivato da solo e molto giovane in un continente sconosciuto, lontano da casa e schiacciato dalla consapevolezza di una guerra civile che minacciava le persone a lui più care, Weah ha trovato un modo per portare in campo con sé la sua famiglia, i suoi amici, la sua gente. Ha trovato il modo di non sentirsi solo.
La Coppa d’Africa 1996 è la prima a cui la Liberia partecipa e va a finire malino per la squadra, malissimo per Weah. Nell’unico girone a tre squadre (la quarta squadra è la Nigeria, che si ritira poco prima dell’inizio) la Liberia finisce ultima per differenza reti dopo aver battuto 2-1 il Gabon e aver perso 2-0 con lo Zaire. Weah gioca trequartista perché tutti i giocatori della “generazione d’oro” liberiana sono attaccanti (Debbah, Wreh, Mass Sarr, Nagbe) e qualcuno si deve adattare.
Alla fine del torneo il compagno di squadra Sogbie rilascia un’intervista a un settimanale svizzero in cui dà a Weah la colpa dell’eliminazione («Sul campo non si è assolutamente visto che Weah era il miglior giocatore del pianeta ed il suo fallimento ha provocato il nostro») e lo accusa di comportarsi da despota, privilegiando i suoi amici ed escludendo dalla squadra gli altri (tra cui naturalmente lo stesso Sogbie, che guarda caso 10 anni dopo sfiderà Weah anche in politica). Non sappiamo quanto queste accuse fossero fondate, ma non è difficile immaginare che qualche anomalia di spogliatoio potesse derivare non soltanto dal valore e dalla fama di Weah, ma anche dal fatto che a fronte delle difficoltà della federazione liberiana Weah aveva finanziato in prima persona una buona parte dei costi della spedizione.
Torna a Milano e annuncia che non sarà più il capitano della sua Nazionale: «Non voglio più fare il capitano perché sono stufo di fare da parafulmine: tutti i problemi della squadra ricadono su di me e devo tenere i rapporti con tutti, dirigenti compresi. Mi fanno veramente diventare pazzo. Ma non ci sono problemi con i miei compagni, ci siamo lasciati da amici».
The lone star
I problemi in Africa subito dopo aver vinto il Pallone d’oro in Europa sono una buona metafora del rapporto incompiuto di Weah con il suo continente d’origine. Non mi riferisco tanto alla sua Nazionale, che non riesce a portare ai Mondiali pur andandoci vicinissimo in due occasioni (1990 e 2002, da vecchissimo), quanto al ruolo di Weah nel movimento calcistico africano, alla sua persistente aspirazione ad essere un modello e un esempio.
A metà degli anni Novanta il Pallone d’oro a Weah pare un segno dei tempi, il punto d’approdo della crescita del calcio africano che, con il Camerun ai Mondiali del ’90 e la Nigeria a quelli del ’94 pare inarrestabile. Lo stesso Weah pare l’incarnazione della diffusa profezia secondo la quale gli africani, essendo superiori dal punto di vista fisico, una volta imparate la tecnica e la tattica avrebbero dominato il calcio mondiale. Esattamente vent’anni dopo, non soltanto nessun africano ha mai più vinto il Pallone d’oro, ma addirittura nessuno è mai più salito sul podio. Il rendimento delle Nazionali ai Mondiali sembra essersi arenato al livello dei primi anni ’90, se non più in basso. Certo, il discorso è più complesso: i grandi campioni africani negli ultimi anni ci sono stati (e molti di loro, tra cui Eto’o e Drogba, citano Weah tra le loro fonti di ispirazione) il fatto che le istituzioni del calcio siano restie a premiarli è oggetto di polemica (chiedete a Yaya Touré) e ce ne sarebbero stati molti di più se tanti campioni originari dell’Africa non avessero scelto la nazionalità europea (Zidane su tutti). Eppure è innegabile che il percorso di crescita del calcio africano non sia quello che ci si aspettava vent’anni fa, e a Weah si può pensare anche come alla grande promessa non mantenuta di un intero movimento calcistico, la stella talmente luminosa che per un certo periodo è sufficiente a illuminare la notte ma alla lunga non riesce a innescare un cielo. Una stella solitaria come quella che differenzia la bandiera liberiana da quella USA, che ne ha 50: the Lone Star.