Il più terrificante spettacolo del mondo
di Dario Vismara (@Canigggia)
Per sostenere la candidatura di Russell Westbrook a MVP della stagione, potrei citare una lunga serie di dati. Potrei far notare, ad esempio, che a febbraio e marzo ha viaggiato oltre i 30 punti e oltre i 10 assist a partita in mesi consecutivi, numeri che nella storia della NBA non si vedevano da oltre quarant’anni. Prima di lui c’era probabilmente riuscito Oscar Robertson, l’unico giocatore della storia NBA a far registrare una tripla doppia di media in una stagione. Ebbene, quelli di ESPN hanno parametrato i dati di questo Westbrook all’era di Big O (1962), nella quale le star giocavano molti più possessi e minuti. Il risultato? 46.9 punti, 14.6 assist e 12.2 rimbalzi. Robertson x Chamberlain.
D’altronde inserendo nel database di basketball-reference.com i suoi numeri su 100 possessi—40.7 punti, 12.8 assist, 10.6 rimbalzi e 3.2 recuperi—esce un solo risultato nella storia della NBA: lui. Si potrebbe anche sottolineare che le sue 10 triple doppie stagionali (di cui 7 in 12 partite) eguagliano quelle raggiunte dal secondo, il terzo e il quarto in classifica messi assieme (e solo Jason Kidd negli ultimi 15 anni ha fatto meglio, con 12). O che in carriera schiaccia 6 volte più di un giocatore della sua altezza (1.91 ufficiali, più vicini all’1.85 dal vivo) e in carriera è a pari con Roy Hibbert, che è alto 30 centimetri più di lui. Altrimenti potrei passare alle critiche che si fanno del suo gioco, che nonostante l’evidenza del campo any given night rimangono ancora ben presenti sul web.
Dite che tira troppo? Eppure la sua percentuale reale è del 53.6%, sopra la media NBA, e va in lunetta come nessun altro nel suo ruolo. Perde troppi palloni? James Harden e LeBron James ne perdono di più (con Steph Curry sostanzialmente pari). Non mette in ritmo i compagni? Eppure nessuno dà più assist di lui in percentuale, e l’attacco con lui viaggia a 109.2 punti su 100 possessi nonostante manchi il miglior realizzatore del mondo (nonché MVP in carica). Non è una point guard pura? «Definire un giocatore ‘una point guard pura’ è un modo gentile per dire che non sa segnare» – Tom Haberstroh. Potremmo andare avanti per ore, ma ne abbiamo già parlato a lungo tempo fa.
Piuttosto, potremmo fermarci un attimo e cercare di capire come diavolo riesca a trasformare una innocua rimessa dal fondo in una schiacciata a difesa schierata nello spazio di una gif.
(Dire che era contro i Sixers non vale, dato che hanno quasi una difesa top-10).
La verità è che osservare Westbrook in campo quest’anno è stata un’esperienza selvaggia e liberatoria, almeno per me. Quando guardo una partita e vedo una giocata assurda, tendo a reagire dicendo parolacce (sono l’unico? Spero di no, ma lo temo): mai dette così tante come davanti a Westbrook in questa stagione. Sono giunto alla conclusione che non esista un atleta tanto terrificante quanto lui, qualsiasi sport esso sia. È quanto di più simile a un drago si possa trovare sulla faccia della Terra, e non solo per le narici allargate che ricordano Smaug. O Godzilla, se preferite. O «un alieno», come dice un anonimo dirigente NBA nel sondaggio di ESPN che lo ha appena eletto miglior point guard della NBA, aggiungendo di «non aver mai visto niente di simile».
Questo è Russell Westbrook: un giocatore che non è mai esistito prima, e chissà quando ne arriverà un altro. Embrace the power o andate contro di lui—a vostro rischio e pericolo.
God-Given Davis
di Timothy Small (@yestimsmall)
Anthony Davis dovrebbe essere l'MVP per tre ragioni.
La prima è che Anthony Davis, in termini di talento puro, è meglio di tutti gli altri giocatori di questa lista. E quando dico "talento" non intendo talento all’italiana, cioè quel talento che è anche stoffa. Di stoffa ne ha di più, a palate, James Harden, o LBJ, ma anche Westbrook. Non intendo nemmeno quel talento che è anche “genio”, perché anche lì, di geni del basket ce ne sono altri, CP3, oppure, ovviamente, Steph.
Intendo quel “talento” all’americana, quel God-given Talent, quel “gift”, quello che da noi si potrebbe tradurre come “predisposizione naturale”, o forse come “dote”. Nella lista composta da LeBron James, Russell Westbrook, James Harden, Chris Paul, Steph Curry e Anthony Davis c’è un giocatore che vi fa pensare alla “predisposizione naturale” più di Monociglio? Forse LBJ, ma LBJ ha trent’anni, e Davis ne ha 22. Quindi, quando parliamo di talento come ne parlano gli allenatori di Bo Jackson, quando dicono cose come "you couldn’t coach that", o come "that’s not something you get from practice", quel talento puro, limpido, quella naturalezza effortless, di chi stiamo parlando, oggi, nella corsa all’MVP della NBA? Secondo me parliamo di Anthony Davis.
Seconda ragione: è umile. Quanto sarebbe bello dare l’MVP a uno che, ritirandolo, parla di quanto se lo meritassero di più Curry e Harden? Quando gliel’hanno chiesto, l’altro ieri, ha risposto così: «Per me non ci sono dubbi quest’anno, James (Harden) sta giocando una stagione surreale, ha raggiunto il massimo in carriera per punti, rimbalzi ed assist, ed anche con Dwight Howard fuori per molte settimane è riuscito a tenere Houston in lotta per il secondo posto della Conference. Curry sta andando sicuramente alla grande, ma per me l’MVP è Harden».
Ed infine, ecco la terza ragione: 24,6 punti a partita. 3 stoppate a partita. 9,5 rimbalzi a partita. 1,5 assist e 1,3 palle rubate a partita sono una stat line che fa paura, e il fatto che i Pelicans non arriveranno ai Playoff non è una ragione logica per non dargli l’MVP.
L’MVP, secondo me, dovrebbe essere il giocatore di maggior valore nella NBA, non il giocatore di maggior valore in una squadra con un record straordinariamente positivo nella NBA. Non sto qui a dirvi perché, statisticamente, questa cosa non ha senso. Diciamo semplicemente che il basket moderno è talmente frutto di un gioco di squadra e di una combinazione di talenti diversi nel quintetto base (ma anche nella panchina) che non ha veramente alcun senso estrarre un solo giocatore da una rosa e dire, “è grazie a lui se hanno un record di 60-12”. Curry non sarebbe stato altro che l'ennesimo talentuoso giocatore che non vincerà mai un MVP, se non avesse avuto in rosa Bogut e Lee (jk) e Thompson e Green. E non è sicuramente una riflessione della mancanza di valore di Anthony Davis se la dirigenza dei Pelicans ha pensato di andare all-in su Eric Gordon e Jrue Holiday.
In altre parole: se i sei giocatori della short-list di cui sopra giocassero nelle sei migliori squadre della NBA, io non ho alcun dubbio che l’MVP, quest’anno, sarebbe andato a Davis. E, dato che mi sta più simpa Platone di Aristotele, voglio spezzare una lancia a favore del mondo ideale. Quindi, contatemi nel Team Davis. E se non ci siete anche voi, è perché odiate la giustizia.
Il migliore dei migliori
di Daniele V. Morrone (@DanVMor)
I Golden State Warriors sono ampiamente in corsa per una regular season storica dal punto di vista dei risultati (possono tranquillamente superare le 65 vittorie e hanno perso solo due partite in casa) e delle statistiche (al momento sono primi sia per rating offensivo con 109.6 che per rating difensivo con 97.5, il tutto con un +/- di 10.8 punti).
In parole povere: hanno ucciso la stagione regolare 2014/15 con un sistema tanto bello da vedere quanto efficace, il cui centro di gravità si trova nella stella della squadra, Steph Curry, leader dentro e fuori dal campo. Quando è in campo gli avversari sanno che può segnare contro chiunque e in qualunque modo essendo contemporaneamente sia il miglior tiratore (qui meriterebbe un pezzo a parte visto che stiamo assistendo anche in questo caso ad una stagione storica) che il miglior ball handler, cosa che facilita non poco la vita ai compagni viste le attenzioni che su di lui hanno le difese, il tutto senza essere un problema quando è nella sua metà campo (anzi, è anche migliorato lì).
Potrei iniziare a snocciolare statistiche dove Steph è tra l’elite della Lega (prendete numeri crudi, statistiche normali, statistiche avanzate e lo trovate sempre vicino se non direttamente in vetta) ma mai come nel caso di Curry l’occhio aiuta a capire il tipo di giocatore: quando si gasa è semplicemente onnipotente, ma mantiene sempre il controllo della situazione, esattamente quello che si chiede alla stella della miglior squadra della Lega. E se abbiamo assistito a pochi momenti in cui ha vinto la partita nel crunch time è soltanto perché i Warriors solitamente le partite le vincono quando lui si accende nel terzo quarto distruggendo gli avversari.
Non ci sono limiti per Curry: se non lo raddoppi semplicemente segna a ripetizione, e se lo raddoppi ha controllo di palla e visione di gioco per innescare i compagni. E, come i grandi geni, Steph non si ripete mai: ogni partita è una sfida a sé stesso per trovare sempre nuove soluzioni, dimostrando una creatività tale da avere pochi precedenti e rendendo praticamente impossibile il lavoro del difensore (oltre che entusiasmante l’esperienza per gli spettatori).
Sarebbe semplice dire che il miglior giocatore di una delle squadre storicamente più forti della stagione regolare meriti l’MVP, eppure sia i numeri che l’occhio ci dicono che i Warriors sono così forti proprio perché hanno Steph Curry a guidarli e a rendere visibilmente migliori i compagni. Esattamente quello che ci si aspetta da un MVP.
CP3 for MVP
di Fabrizio Gilardi (@Fazzettino)
Mentre tutto intorno volano coltelli, sull'isolotto chiamato "Point God" si sta sereni. Consapevoli di essere considerati la quarta miglior guardia della stagione (quarta! Questo CP3! Rabbrividiamo... BRRRRR) e di non avere alcuna possibilità di vincere il premio di MVP, non c'è nemmeno la necessità di evidenziare i punti deboli degli avversari. Perché tanto, appunto, dietro si parte e dietro si finirà. O, magari, perché potrebbero bastare i punti forti di Chris per far drizzare qualche antenna.
Molto schematicamente: guida il miglior attacco NBA (109.5 punti per 100 possessi, come gli Warriors) con il più alto Offensive Rating individuale (114.2 come il compagno Blake Griffin); quando si siede in panchina l'efficienza di quello stesso attacco crolla a livello Knicks (96.7). (Per esigenze di spazio non è possibile inserire battute su raccomandazioni, figli di allenatoriet similia. Anche perché pare che i tifosi Clippers non le trovino affatto divertenti).
Per passaggi, assist, opportunità offerte ai compagni e punti creati è il miglior playmaker della Lega insieme a John Wall, ma è anche uno scorer di rara efficacia: la sua shotchart è, come direbbero negli States, "a thing of beauty" ed il 53,4% di realizzazione nei tiri dalla media non ha eguali tra i giocatori con un numero di tentativi così elevato da quella distanza.
Pick and roll, crossover left to right, elbow jumper: MONEY.
(Shot chart by Michele Berra e Nicolò Ciuppani)
Delle sue qualità difensive s'è già parlato, ma per rafforzare il concetto nell'ultimo mese Paul ha deciso di abbattersi sulla concorrenza diretta in modo spietato e senza fare prigionieri, costringendo i principali pari ruolo alle seguenti prestazioni:
27 febbraio, Mike Conley: 2 punti (2/11 al tiro), 2 assist e 2 palle perse
4 marzo, Damian Lillard: 5 punti (1/13), 4 assist e 5 palle perse
8 marzo, Stephen Curry: 12 punti (3/9), 4 assist e 4 palle perse
11 marzo, Russell Westbrook: 24 punti (5/14), 7 assist e 10 palle perse
Ma soprattutto, giù la maschera: non sono sicuro di voler vivere in un mondo in cui un giocatore come Chris Paul non vince un titolo NBA. E dato che per raggiungere il titolo non basta essere dei fenomeni, ma serve l'aiuto dei compagni (o magari sarebbe sufficiente anche solo non essere sabotati dal proprio allenatore/GM, ma come detto è un'altra storia), che almeno gli si dia il premio più rilevante possibile. Tra i contendenti, è quello con la data di scadenza più imminente. Mettetevi una mano sulla coscienza. CP3 for MVP. Sentite come suona bene.
Most Valuable Beard
di Lorenzo Neri (@TheBro84)
Premessa: sono arrivato a un punto della stagione—parlo a livello personale, sicuro però di non essere l’unico—nel quale tendo ad assegnare il trofeo di MVP all’ultimo giocatore che vedo giocare, chiaro segnale che qualunque scelta verrà fatta mi troverà comunque d’accordo... a meno che non si chiami LeBron James, giusto perché lo trovo meno continuo degli altri pretendenti.
Dovessi fare una scelta seguendo i miei gusti personali non uscirei dal trio Curry-Westbrook-Davis, ovvero coloro che hanno la precedenza quando devo scegliere la partita da vedere sul League Pass, ma è impossibile rimanere passivi davanti alla stagione che sta facendo James Harden.
Da quando è atterrato a Houston la sua crescita è stata esponenziale: non solo ci ha messo molto poco a spazzare via i dubbi sul poter essere o meno la pietra angolare di franchigia, ma col tempo si è trasformato in un giocatore con caratteristiche uniche nel suo genere, diventando la miccia di quella bomba chiamata “Moreyball”, lo stile di gioco di puro stampo analitico dei Rockets—che impone una ricerca quasi maniacale di tutti i tiri con maggiore efficienza, ovvero tiri da 3 e conclusioni nei pressi del ferro—secondo i dettami del GM della squadra, Daryl Morey.
Harden quest’anno però è riuscito ad elevare ancora di più il suo gioco, portando la sua grande pericolosità offensiva a completo servizio della squadra, sfruttando le attenzioni delle difese per mettere in ritmo i suoi compagni. È diventato un Catalizzatore Offensivo Totale™, portando a un nuovo ed esaltante livello il concetto di shot-creator.
Con i 44.4 punti di media che porta alla squadra (27.2 personali e 17.2 creati per i compagni, dati NBA.com) è secondo solo a Russell Westbrook in questa speciale classifica, ma nessuno tra i candidati MVP ha un così forte impatto sull’attacco della propria squadra come dimostrano il putrido 93.1 di Rating Offensivo quando lui non è in campo, un numero che li metterebbe dietro solo a Philadelphia, mentre si sale fino a 107.0 quando è presente.
Harden è anche il giocatore con più possessi in isolamento della Lega (523, a 90 possessi di distanza dal secondo, LeBron, e a 239 da Tyreke Evans, terzo) convertiti con 1.05 punti di media, dimostrando di saper creare gioco e soluzioni laddove non esisterebbe in sua assenza, a causa anche di un allenatore, Kevin McHale, che più di una volta ha dimostrato di non saper gestire tatticamente i giocatori a sua disposizione.
Se quindi la parola “valuable” che sta in mezzo ad MVP ha ancora il suo senso proprio—ovverosia “prezioso”, “di valore”, “importante” in senso figurato—allora il premio deve andare al giocatore che “determina” il maggior impatto sui risultati della sua squadra, quello-senza-il-quale-crollerebbe-tutto. In questo caso stiamo parlando di uno che ha portato una squadra mediocre ad essere la seconda/terza potenza in un Ovest supercompetitivo, il tutto senza il suo compagno più forte. Se valuable vuol dire ancora qualcosa, allora The Beard Man è il vostro uomo.
Most Valuable Godfather
di Francesco Pacifico
Per quanto l’NBA e i suoi sponsor ci tengano a vendere l’arco narrativo di LeBron come una cosa da film, con meno di sei stagioni da dodici puntate di 50 minuti non mi riterrei soddisfatto.
L’arco da film in tre atti Cavs-poi Heat-poi Cavs non ha alcun senso, non rende giustizia alla fonte perenne di intrattenimento ed emozioni della sua carriera. Quando perse le Finali 0-4 contro gli Spurs otto anni fa, Duncan gli disse scherzando, da veterano: «Il futuro è tuo, ma grazie per avercene lasciato vincere un altro». Lui ha riperso con Duncan nientemeno che sette anni dopo. In bacheca ha quattro MVP della regular season, due delle Finals, eppure è uno che ha già perso tre finali in vita sua. Non si può parlare di arco narrativo o di struttura in tre atti con una storia così complessa. A volte ci sembra un perdente, eppure Kobe ha vinto un solo MVP e soffre per averne vinti solo due nelle finali.
Certo, sembrano solo tre atti perché James è tornato in Ohio da Miami per portare indietro quel che aveva imparato dal padrino Riley. Ma come abbiamo visto nella stagione del ritorno a casa, dietro ai grandi sentimenti della lettera a Sports Illustrated non c’è la semplicità emotiva del Ritorno: c’è un uomo più diabolico—o diciamo machiavellico—di quello che con stupore aveva scoperto che, nonostante la beneficienza, “The Decision” non era stata una buona idea. In quella lettera di auto-bentornato LeBron ha stabilito chi non sarebbe stato nella squadra (Wiggins). Poi nella stagione regolare lo abbiamo visto comportarsi con freddezza da padrino di fronte alle difficoltà terribili del suo allenatore e di Kevin Love. Non ha dato di matto, in qualche modo ha giocato sulle loro difficoltà. Qualche giorno fa Kevin Love in pieno acting out ha detto che James non è l’MVP e il nuovo padrino gliel’ha lasciato dire. Jalen Rose sostiene che oggi nell’NBA non puoi vincere senza uno dei grandi manovratori, che sia Pat Riley o Pop o Jackson. LeBron è diventato un player-Godfather come Kobe non è mai riuscito: Kobe ha fatto impazzire Howard (e non se ne pente), LeBron ha tenuto al suo posto Love. Me lo immagino nella settima puntata della quarta stagione della serie che dice: «Kevin, tu non sei un All-Star».
Una delle cose più belle di The Wire è che ci sono stagioni intere in cui un personaggio fondamentale finisce sullo sfondo. In questa stagione LeBron ha provato a defilarsi per vedere se l’NBA diventava più interessante: nel vuoto della sua personale ricostruzione (e dell'infortunio di KD), Steph, il Barba e Russ si sono messi in mostra. Lui ha saltato qualche partita, probabilmente per prendere ulteriori lezioni di management; ha gestito le infelicità dei vari giocatori; ha dato 1.300 padrinesche pacche sulla testa di Kyrie; è tornato con cinque anni di vita in meno e ora sembra assurdo, ma tutti pensano che i Cavs andranno in finale. A fine febbraio ha battuto Golden State con 42 punti, 15/25 FG, 11 rimbalzi e 5 assist. Most Valuable Godfather.