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Le 10 migliori canzoni pop italiane sul calcio
12 ago 2019
La musica italiana ha un lungo e profondo rapporto con il calcio.
(articolo)
15 min
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Lo scorso maggio sono uscite Maradona y Pelé dei TheGiornalisti e La vita splendida del capitano di Daniele Silvestri, due canzoni che hanno riallacciato i fili della storia d’amore ultra-decennale tra il calcio e il pop italiano. Non stiamo quindi parlando di rap (che rappresenta un mondo con i propri codici e un uso dell’immaginario sportivo tutto suo), e neanche di pop inteso come genere - o perlomeno: non solo di quello. Parliamo, piuttosto, della musica popolare tout-court: brani che - senza limiti di sonorità - si riferiscono a un pubblico generalista, ai quali associamo la nostra “memoria collettiva” di italiani. Quei pezzi che riempiono i palasport, passano su Radio Italia e sbancano i karaoke: ci sono dentro anche cantautori come Francesco De Gregori e la “vita da mediano” pop-rock di Ligabue.

Come si spiega un legame tanto stretto? In realtà è semplice come appare: in Italia il calcio è un pass par tout, lo sport pop per eccellenza, e se si vuole parlare a un pubblico ampio, fornirgli immagini a lui familiari, la Serie A è un forziere da cui pescare a piene mani.

Se cercate su Google, troverete centinaia di playlist che cercano di mettere insieme le migliori canzoni italiane sul calcio, calderoni musicali in cui i Gemelli DiVersi seguono Vecchioni a riprova della varietà della materia. E in questo macro-canzoniere coesistono canzoni sul calcio (in cui quindi il pallone è protagonista) e canzoni che riducono lo sport a un semplice richiamo, che lo utilizzano come sfondo, citando magari il nome di una squadra in un contesto narrativo ampio.

Proprio Maradona y Pelé dei TheGiornalisti è un esempio abbastanza emblematico che sintetizza lo spirito citazionistico usa e getta dell'itpop (il pop 2.0). Le figure di Maradona e Pelé evocano immagini (il diavolo e l'acqua santa, ha sintetizzato Tommaso Paradiso) che comunque poco c'entrano col calcio giocato, vissuto o tifato che sia. Del resto, è chiaro, non siamo di fronte a un pezzo a dedicato ai due più forti giocatori della storia, ma a un inno all'edonismo volutamente un po' pacchiano, che li usa come simboli neanche essenziali nell'economia della canzone.

Diverso è il caso di canzoni come La vita splendida del capitano, di Daniele Silvestri, un pezzo sincero e sentito, dedicato a Totti e al romanismo, e che di Totti e del romanismo fa delle metafore esistenziali.

Sono canzoni di questo tipo quelle di cui andremo alla ricerca in questo pezzo, con l’ambizione di restituire una passione per il calcio più sincera e meno subdola. Brani in cui si possono trovare diverse chiavi di lettura cantautorali, poetiche, da "letteratura sportiva", con esempi che non sono inferiori - per valore artistico - alle poesie sul calcio di Umberto Saba, per dire. Per cui, dieci belle canzoni pop italiane sul calcio:

Calcutta - Hubner

In linea di massima, dicevamo, l'itpop fa un uso dell'immaginario calcio come di un album delle figure: pesca a caso piccoli scorci, fa riferimenti che sono sì pass par tout per il grande pubblico, ma solo per raccontare aperitivi, selfie e spunte blu attraverso espliciti riferimenti a marche, simboli e situazioni del nostro quotidiano. Sono così, per dire, le facce di Maradona e Pelé nel pezzo dei TheGiornalisti, come il Frosinone nel brano omonimo di Calcutta, quello della squadra di Stirpe "in Serie A" datato 2015.

Ma proprio per questo Hubner, sempre firmata da Calcutta e inserita nel suo secondo album Evergreen (2018), rappresenta una granitica eccezione. In una sorta di fanfara fulminata, il brano segue uno schema cantautoriale, collaudato: prendere un calciatore e farne un modello di valori universali. Facile a dirsi, meno a farsi. Se non altro perché Dario Hubner è diventano uno stereotipo, l'emblema del bomber di provincia "ignorante", repulsivo al jet-set, di cui sono rimaste più le sigarette fumate negli spogliatoi che i gol. Ma è qui che Calcutta si smarca dalla solita nostalgia: la figura Tatanka, infatti, si rinnova come emblema di un legame forte con i propri affetti e le proprie radici. Un legame da preferire a tutto, persino alla carriera. È quasi una visione epicurea: "Io certe volte dovrei fare come Dario Hubner", che rifiutò sontuosi trasferimenti lontano da casa per rimanere vicino alla moglie e agli amici di sempre.




Ligabue - Una vita da mediano

Se cercassimo lo scrigno oggi sepolto dai pirati dell'usa e getta dell'itpop, con dentro le vere canzoni a tema calcistico, scaveremmo negli anni Novanta, in una sorta di età dell'oro del genere. Su tutti, uno dei pezzi più citati, abusati e celebri è Unavita da mediano di Luciano Ligabue. Pubblicata nel 1999, quando la sindrome di fine millennio aveva portato il Liga a buttarsi sull'acustico (con risultati, va detto, meno scontati che nel resto della discografia), Unavita da mediano è una ballata dedicata a Gabriele Oriali e alla sua carriera nell'Inter e nella Nazionale fatta di gioco duro e sacrifici poco appariscenti.

Il pezzo (un pop-rock abbastanza vellutato e acustico) vorrebbe tracciare un'allegoria che prenda a modello l'ex interista e unisca il suo passato da metodista pluridecorato a quello di chi trascorre la vita da underdog per poi togliersi le sue soddisfazioni. Insomma: la classe operaia in paradiso, il mestierante con zero tecnica e tanto fiato, che non ha avuto "mai lo spunto della punta né del dieci" ma che comunque ha vissuto oltre i propri mezzi, grazie ai sacrifici. Nonostante la canzone sembra riferirsi genericamente all’uomo medio, rimane il tributo sincero e forse un po' naïf a Lele Oriali, forse il regalo più onesto che un interista come il cantautore di Correggio potesse offrirgli. E va bene anche così.


Lucio Dalla - Baggio... Baggio

Che i nostri cantautori abbiano una passione per il calcio non è un mistero. Francesco De Gregori simpatizza per la Roma, mentre Fabrizio De André aveva nel cuore il Genoa e Lucio Dalla, lo sappiamo, era abbonato del Bologna - e lo è ancora, in un certo senso. Per anni, insomma, ogni domenica che i rossoblu giocavano in casa la voce di Com'è profondo il mare si sedeva al proprio posto al Dall'Ara - e, ogni tanto, si divertiva anche commentare la sua squadra. E deve essere stato durante la stagione 1997-1998 che in lui è scattata la scintilla per Roberto Baggio: fu in quell'annata che il Codino giocò la sua unica stagione sotto le due torri, stabilendo tra l'altro il proprio record di segnature in campionato (22) e sacralizzandosi in un feticcio per i tifosi del Bologna (si ricordi anche l'ahdaquandoBaggionongiocapiù di Cesare Cremonini, altro rossoblu doc).

Così, per amore e nostalgia di Roby, nel 2001 Dalla scrisse Baggio... Baggio, un brano di un cantautorato abbottonato ma ancora accattivante ed eccentrico, in cui non si cercano metafore esistenziali: si vuole parlare dell'annata di Baggio in rossoblu come di un'espressione cristallina del calcio, quasi fosse un'esperienza ultraterrena, astratta. E basta.

Nei piedi del Codino, così, finisce per scorrere la poesia che Dalla vede nelle domeniche allo stadio: i dettagli più difficili da cogliere, i movimenti impercettibili, gli attimi di tensione pura. "Sei mai stato il piede del calciatore che sta per tirare un rigore e il mignolo destro di quel portiere che è lì, è lì per parare?".


Francesca Michielin - La Serie B

Francesca Michielin è una che sta cercando di svecchiare il pop italiano senza rivoluzioni copernicane. Ha 24 anni e tifa Juventus e Vicenza, la squadra della provincia dove è nata e che da piccola andava a vedere allo stadio. Nel 2001 - ha spiegato - la retrocessione in Serie B dei biancorossi (quelli di Edy Reja con in panchina Luca Toni a fare a sportellate in avanti) la segnò al punto da ricordarla come la prima, vera delusione della sua vita. Da lì, da quel battesimo e dai ricordi stropicciati, è nata La Serie B: un pezzo in cui il dramma sportivo del Vicenza diventa l'emblema di seconde chance mai avute e di una società che, da allora, non è più tornata in massima serie. Appunto: un'occasione, questa, per raccontare le esistenze trascorse in "Serie B", tra lavori noiosi e giornate aride di soddisfazioni, senza avere la possibilità di venirne fuori.

Il brano è una ballatona pianoforte e voce, abbastanza sui generis negli arrangiamenti. Potrebbe benissimo gareggiare a Sanremo, e anzi è proprio per questo che merita di essere citata: immaginatevi, sul palco dell'Ariston, di sentire un pezzo formalmente tradizionalista, ma che poi nel testo parla di "crampi alle gambe", "minuti di recupero" e campetti di provincia. Bello, no?


883 - La dura legge del gol

Tornando all'epoca d'oro dei Novanta, accanto a Ligabue c'è La dura legge del gol degli 883, un altro pezzo super citato, abusato e - talvolta - frainteso. Ora: per quanto Max Pezzali abbia sposato un'immediatezza narrativa più radicale rispetto ai cantautori, sicuramente iper-generalista e vagamente generica, questo brano - pubblicato nel 1997, quando la sua Inter vinceva la Coppa UEFA - fa del calcio un'allegoria neanche banale.

Il rettangolo verde è emblema della vita (e come sbagliarsi), ma qui lo sport (rigorosamente di squadra) diventa soprattutto un modo per riflettere sull'amicizia e su come i rapporti si sfascino col tempo. Con quella malinconia operaia, è una panoramica sul periodo post-adolescenziale in cui a un ritornello epifanico ("Gli altri segneranno, però, che spettacolo quando giochiamo noi: non molliamo mai") risponde la tristezza senza riscatto di una vita monotona, passata nelle nebbie di un bar a masticare amaro, coi soliti amici, le fotografie che ricordano momenti duri, qualche ex da dimenticare e - magari - la Serie A in sottofondo. Delusioni, tradimenti, rimpianti e nostalgia: "Quanti in questi anni ci han deluso? Quanti col sorriso dopo l'uso ci hanno buttato?". È una sorta de Gli anni ambientata su un campo da calcio, o anche il modo più lucido per rendersi conto che dietro il sorriso bonario di Max Pezzali c'è altro. Ed è inutile dire, a questo punto, quale sia la parte più interessante.


Elio e le storie tese - Sunset Boulevard

Elio E Le Storie Tese sono nati, cresciuti e terminati come parodia della musica italiana. Nel corso della loro carriera hanno avuto una canzone-risposta per tutto, e solo una personalità strabordante ha impedito loro di non essere un semplice gruppo "demenziale".

Ovviamente, hanno parodiato anche diversi brani sul calcio, specie quando negli anni novanta componevano le sigle di Mai dire gol, il programma satirico della Gialappa's Band sul mondo del calcio. A riascoltarle oggi, fra Nessuno allo stadio (dedicata a Lorena Bobbit e ai Mondiali di Usa 94) e Amico uligano (per l'attitudine violenta degli hooligan) si trovano perle di ironia e scorrettezza mai eguagliate, che aprono squarci su una narrazione alternativa, feroce, goliardica e sinceramente divertente del calcio.

Più di tutte, va citata l'improbabile Sunset Boulevard: il "viale del tramonto", una canzone (e una sigla con i volti storici del "campionato più bello del mondo") che invita i calciatori a ritirarsi, prima di perdere la faccia. "Meglio oggi che sei un mito, da domani sarai un peto".

Il declino, le inevitabili figuracce: qualcuno ne aveva mai parlato in un brano? Qualcuno lo ha fatto dopo? No? Appunto.


Antonello Venditti - La coscienza di Zeman

In questa lista, Antonello Venditti gioca un torneo a parte. Per dire: se la Roma è la squadra con l'inno più bello della Serie A (quel Roma, Roma, Roma composto già nel 1975), e se Zeman è uno dei pochissimi allenatori al mondo ad avere una canzone a lui dedicata, il merito è del cantautore romano. Noi in rassegna mettiamo ex aequo proprio La coscienza di Zeman, che è un pezzo un po' rannicchiato nella sua discografia, e Grazie Roma, che invece forse ne é il brano più in vista - e questo dice molto.

La prima, scritta mentre il boemo sedeva sulla panchina della Roma, parafrasa il romanzo di Svevo nella dimensione del 4-3-3, un po' per l'ossessione per le sigarette e un po' per quella voglia di esplorare una mente cocciuta come quella dell'allenatore. Ne esce fuori un ritratto innamorato, puramente da romanista: Zeman è, per Venditti, una figura romantica, utopica, un idealista che combatte i mulini a vento dell'ansia risultato con lo spettacolo e il perfezionamento di una filosofia che sembra vedere solo lui.

Altra storia per Grazie Roma, diffusa dagli altoparlanti dell'Olimpico a ogni vittoria giallorossa: pubblicata in occasione dello scudetto giallorosso del 1983, in un'epoca di totale disimpegno nel canzoniere vendittiano, è un pezzo volutamente campanilistico, immolato all'AS Roma prima ancora che alla città. È un inno, eppure - nonostante questa sua natura - con le sue aperture melodiche e i cori rimane una delle sue canzoni più note: un primato pop, per un brano che sarebbe dovuto rimanere una roba "da tifosi".


Daniele Silvestri - La vita splendida del capitano

Anche il pezzo con cui abbiamo introdotto questa rassegna, La vita splendida del capitano di Daniele Silvestri, pone al centro la Roma. Nello specifico, è la dedica di un romanista (ancora) a Francesco Totti, ma è anche un trattato su romanismo, maturità e accettazione della sconfitta. "Cose che capitano", vengono definite le cadute: "capiterebbero anche a un marziano". Che importano le sconfitte quando le hai affrontate con la tua gente, a testa alta, sapendo di aver dato tutto? Questo è il sentimento dietro la canzone, e per Silvestri la vita di Totti è "splendida" proprio per la sconfitta: per quel modo di affrontarla a schiena dritta, con autoironia. Il resto, poi, è solo tempo che passa, malinconia che investe anche il più inossidabile degli idoli: "Cose che capitano, capitàno, come il bambino che ti dà la mano e poi dimentica". Ritorna ancora la sconfitta, e sembra quasi sia un assunto, un punto di partenza imprescindibile di ogni discorso: la questione, semmai, è come affrontarla.

Ecco: di questa rassegna, l'impressione è che La vita splendida del capitano sia il passaggio più sincero e orgogliosamente autoreferenziale: cantautorale, allegorico, profondo; ma anche visceralmente romanista, che se non tifi Roma ti sembra di non capirlo fino in fondo.


Roberto Vecchioni - Luci a San Siro

E di sconfitta parla anche Roberto Vecchioni - professione interista, professore di liceo e, appunto, cantautore - in Luci a San Siro, pietra fondante della nostra cultura pop tanto da finire in Tre uomini e una gamba di Aldo, Giovanni e Giacomo. Il calcio giocato e l'Inter, stavolta, fanno da sfondo a un amore da cronaca nera, al de profundis per una gioventù finita insieme alla squadra di Helenio Herrera, e a lei indissolubilmente legata. Vecchioni scardina tutto il lessico dei cantautori, con molteplici, possibili interpretazioni: lo spettro della maturità, la nostalgia per un amore perduto con l'innocenza, le difficoltà di adattarsi a un mercato discografico in cui è facile sentirsi vecchi, per lui, le nebbie di Milano, i rimorsi. E l'Inter di Herrera come punto di svolta generazionale, gioia da rimpiangere in un finale nerissimo: "Milano mia portami via, fa tanto freddo e schifo e non ne posso più, facciamo un cambio prenditi pure quel po' di soldi quel po' di celebrità ma dammi indietro la mia seicento, i miei vent'anni e una ragazza che tu sai. Milano scusa stavo scherzando, luci a San Siro non ne accenderanno più".

Se i pezzi che abbiamo incontrato finora associano il calcio a una visione comunque positiva degli eventi (il sacrificio, il gioco di squadra, persino la gioia nella sconfitta), Luci a San Siro, secondo qualsiasi chiave di lettura, fraternizza con un fallimento senza scampoli, con una concezione escatologica inesistente. Vecchioni ha perso, e parla di una sconfitta generazionale: non c'è poesia nel fallimento, non c'è niente a cui aggrapparsi per uscirne, ma solo una nostalgia lancinante. L'Inter è un pugnale conficcato nei ricordi: là intorno, dove per quei ragazzi milanesi c'erano solo spensieratezza e la sicurezza che il tempo non sarebbe mai mancato, ora vivono solo angoscia, e rimpianti.


Francesco De Gregori - La leva calcistica della classe 68

Di La leva calcistica della classe '68 di Francesco De Gregori è stato detto tutto. Forse è il pezzo più celebre di questa rassegna, sicuramente è il più interpretato, non sempre in maniera corretta. Del resto, il cantautore romano ha fatto delle molteplici chiavi di lettura uno dei marchi di fabbrica della sua discografia, e qui i riferimenti sparsi dentro al pezzo non aiutano ad avere una visione nitida d'insieme, anzi.

Proviamo. Pubblicata nel 1982 nell'album Titanic (un disco a cavallo fra il periodo giovanile e quello maturo di De Gregori), su un arrangiamento asciutto dovrebbe svilupparsi una dedica ad Agostino Di Bartolomei, all'epoca capitano della Roma.

Nino, il protagonista, è poco più che un bambino ("12 anni e un cuore pieno di paura") che si affaccia sul mondo del calcio, e da subito inizia a conoscere la sconfitta: quelli che non ce l'hanno fatta, che per un rigore hanno perso tutto, che si sono accontentati, "innamorati da dieci anni di una donna che non hanno amato mai". Sono intorno a lui, e se non starà attento diventerà uno di loro. Ma Nino non deve "aver paura": non è da un rigore sbagliato, dice De Gregori in una frase che ha fatto storia, che si giudica un giocatore, ma dall'etica che lo guida, dalla generosità, "dall'altruismo e dalla fantasia". Non c'è una visione collettiva, da sport di squadra: in La leva calcistica della classe '68 ogni calciatore è solo coi suoi fantasmi, ogni calciatore lotta per sé; alla vittoria di uno, corrisponde la sconfitta, a volte persino la rovina dell'altro. È un dramma, ma bisogna continuare a correre dritti sulla schiena, senza pensarci. E poi Nino promette bene, secondo l'allenatore: "Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette, quest'altro anno giocherà con la maglia numero sette". Basterà.

Negli anni in molti hanno ipotizzato le più diverse interpretazioni di fronte alla cripticità delle liriche del pezzo. Qualcuno proverà a decifrare le generalità di Nino, per capire se corrispondessero davvero a quelle di Di Bartolomei. Poi verrà Baggio e il rigore sbagliato a Pasadena, e no, "non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore". Qualcun altro ancora prenderà quel "classe '68" come un riferimento ai sessantottini, coi "palazzi in costruzione intorno", la speranza per un futuro migliore e le idee tradite. Scarpini al chiodo, fine della lotta: anni Ottanta, "Titanic".

Non importa se queste ultime interpretazioni, par'altro discusse, come del resto quelle di altri brani sul calcio, siano vere o infondate. Importa, semmai, rendersi conto di come una canzone sappia raccontare tutta la vita e la poesia che attraversa un tiro, una rimessa laterale, un rigore. Ciò che avviene dentro e intorno, sopra e sotto al rettangolo di gioco. Riflettere, aprire squarci sulla realtà, fare entrare un po' di luce. Notare dettagli piccolissimi, raccontare aspetti della vita dei calciatori che non vediamo mai. Finché, per l’appunto, non arriva De Gregori.




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