Non possiamo riassumere il decennio solo mettendo in fila le sue cose migliori. Non descriveremmo una realtà in cui l’1% della popolazione possiede il 99% delle risorse, dove la poesia è morta, il teatro quasi e si è vicini allo scoppio della terza guerra mondiale. Questi dieci anni sono stati ricchi di delusioni perché così è la vita. Se lo sport è la dimensione su cui proiettiamo le nostre speranze, i nostri sogni, cercando una consolazione dalla durezza quotidiana, d’altra parte lo sport può finire per deluderci e amplificare la nostra frustrazione come poche altre cose.
La delusione sembra anzi connaturata alla passione sportiva, almeno se teniamo conto della definizione di ‘delusione’ di Treccani, secondo cui è un sentimento d’amarezza di fronte a una realtà che non risponde alle nostre aspettative. Come ci spiegava Leopardi, la nostra tensione verso il desiderio infinito è una strada di carboni ardenti verso l’infelicità. Che potrebbe essere calcisticamente tradotta in “Le speranze estive sono boccioli di infelicità che sbocceranno in inverno come i ciclamini”.
In questa classifica metteremo il pessimismo cosmico strato dopo strato per costruire la nostra archeologia delle delusioni calcistiche dell’ultimo decennio.
L’Italia che non si qualifica ai Mondiali
L’Italia non mancava la qualificazione ai Mondiali dal 1958. Questo dato basterebbe per restituire le proporzioni di una catastrofe che ci ha costretto a ripensare le radici della nostra identità calcistica. È da quelle ceneri che abbiamo ricostruito l’ottimo ciclo di Mancini, quindi con un nuovo ct, nuovi giocatori, nuovo sistema di gioco, nuove idee. Non tutte le delusioni vengono per nuocere quindi. In quel momento però l’amarezza e la frustrazione ha allagato tutti i piani del palazzo.
Ci sono tanti frammenti malinconici di quell’eliminazione consumata nella cornice di San Siro. Cartoline drammatiche che ancora oggi occupano un angolo oscuro della nostra memoria emotiva.
- I fischi all’inno svedese, con De Rossi che dopo la partita andò sul pullman degli avversari per scusarsi.
- Gli N cross di Antonio Candreva invariabilmente inutili.
- Florenzi che bacia il pallone all’ultimo calcio d’angolo, appena prima di batterlo in modo sciatto. Florenzi che prima della partita si era dichiarato «disposto a morire sul campo pur di giocare il Mondiale».
- De Rossi che, invitato a scaldarsi, sbotta «Che cazzo entro io non dobbiamo pareggiare!».
- Buffon in lacrime a fine partita che chiede scusa ai bambini delusi. Chiellini che, come uscito da un bagno di Sartre, dice «Questo è il punto più basso da quando sono nato» (!). Mancava dicesse «Il problema è stato nascere».
Ripensare a quei momenti è ancora doloroso, nonostante sia difficile dargli una consistenza reale. Solo a posteriori mi sono reso conto di quanto poco credessi alla possibilità di non qualificarci. Quella sera sono tornato a casa e mi sono cucinato una pasta svogliata. Scolandola mi sono rovesciato l’acqua bollente sulla mano ed è solo quando sono tornato a casa dal pronto soccorso, seduto sul letto con la mano bendata, che ho realizzato che non avremmo giocato i Mondiali.
Era una configurazione mentale comune visto che Tavecchio, allora presidente della FIGC, dichiarò che «L’ipotesi della non qualificazione al Mondiale la riterrei un’apocalisse. Ma ci andremo. Se dovesse verificarsi il contrario faremo tutti gli atti a tutela degli interessi federali». Come in una distorsione percettiva su ampia scala, la catastrofe era di fronte a noi e non ce ne accorgevamo.
Eppure una volta successo ci è sembrato perfettamente naturale, ed è per questo che potevano uscire articoli intitolati “Cronaca di un disastro annunciato”. Per questo abbiamo usato poi l’eliminazione per costruire interpretazioni più grandi, e abbiamo visto l’immagine di Tavecchio e Ventura come la metafora della senilità del nostro calcio.
Il Mondiale lo abbiamo visto da spettatori, scontando la malinconia di non poter aspettare il proprio turno, il momento religioso della partita dell’Italia. È stato il nostro rehab. Oggi Tavecchio non è più al suo posto, Ventura nemmeno. A volte le crisi sono davvero delle possibilità.
Trovare degli eredi di Ronaldo e Messi
Quando lo scorso decennio si chiuse con le vittorie di Lionel Messi e Cristiano Ronaldo al Pallone d’Oro, non avremmo scommesso che la decade successiva non avrebbe visto vincitori diversi da loro, all’infuori di Luka Modric. Unica eccezione all’egemonia di un duopolio che oggi ci sembra eterno, inscalfibile.
In questo decennio Messi e Ronaldo hanno fissato nuovi standard di eccellenza. Lo hanno fatto soprattutto attraverso i numeri dei loro gol. L’argentino ha chiuso il 2019 con almeno 50 reti nell’anno solare per l’ottava volta nella decade. Il portoghese ha raggiunto cifre astronomiche in Champions League, e al sito della UEFA per elencare i suoi record quasi non basta una pagina. L’altissima professionalizzazione dello sport contemporaneo del resto sta prolungando le carriere dei migliori atleti creando dei piccoli paradossi temporali.
E se il Pallone d’Oro è il premio al miglior calciatore del mondo, è un’occorrenza storica unica che per più di un decennio siano stati solo in due a dividerselo.
Di fronte a questa dominio abbiamo aspettato giocatori che potessero raggiungere il loro valore: la loro incidenza sulle partite, la loro capacità sovrannaturale di generare momenti iconici. Stretti nel dilemma se sia meglio essere testimoni di una grandezza senza precedenti o il piacere della freschezza e della novità. I club stessi hanno cercato di individuare i talenti su cui proiettare i propri sogni di grandezza, sperando fossero i “nuovi Messi” e i “nuovi Ronaldo”. Sono stati tra gli acquisti più cari della decade: Gareth Bale, Neymar, Kylian Mbappé, Paul Pogba, Eden Hazard,
La rotondità dei 100 milioni pagati dal Real Madrid al Tottenham per Gareth Bale sembravano in particolare avere un valore simbolico. La squadra che aveva comprato Cristiano Ronaldo voleva la sua versione aggiornata. Gareth Bale incarnava l’idea di un’atleta che sembrava venuto dal futuro. Ma questa è stata anche la decade in cui la nostra cultura ha espulso il futuro, e che quando lo ha rappresentato lo ha fatto solo attraverso il timbro della distopia e del tecnopessimismo (Black Mirror). Era ovvio che Bale fallisse allora, che il suo corpo si disfacesse come consumato dalla sua potenza, dalla sua velocità. Bale ha lasciato segni profondi nel nostro decennio - quanti calciatori possono dire di aver segnato due gol in due finali di Champions diverse, di cui uno in rovesciata? - ma è bruciato in fretta. Lui, come tutti del resto, non è stato capace di mantenere la costanza irreale di Messi e Ronaldo.
Neymar invece è tuttora l’acquisto più caro della storia, e il suo arrivo al PSG doveva trascinare i parigini alla vittoria della Champions League. Due anni più tardi il PSG non ha fatto neanche una finale e Neymar è più lontano che mai dai discorsi sul migliore calciatore al mondo. La sconfinatezza del suo talento ci ha dimostrato che non basta quello per raggiungere il livello di competitività di Messi e Ronaldo.
Pogba si è appassito in una squadra - il Manchester United - che possiamo probabilmente definire la più decadente del decennio. Hazard si è dimostrato invece non all’altezza, al punto che a metà decennio ha dovuto ammetterlo lui stesso per scrollarsi le pressioni di dosso: «Mi chiedo spesso cosa potrei fare per cercare di avvicinarmi ai numeri fenomenali di Messi e Ronaldo, che segnano 50 0 60 reti in una stagione. Il mio è soprattutto un problema mentale. Sul 2-0, ad esempio, penso che non sia il caso di continuare ad attaccare alla ricerca del terzo gol. Non sarò mai come loro».
In alcuni momenti ciascuno di loro si è avvicinato alla grandezza di Ronaldo e Messi, ma tutti hanno fallito, tutti si sono bruciati per aver volato troppo vicini al sole.
Mario Balotelli
Forse oggi stentiamo a crederlo, ma meno di otto anni fa anche Mario Balotelli veniva messo nello stesso discorso di Messi e Ronaldo. Qualcuno poteva citarlo tra i possibili eredi senza essere considerato pazzo. Lo fece per esempio Roberto Mancini ai tempi del Manchester City: “Mario può essere come Messi e Cristiano Ronaldo”. L’importante per Mancini era che Mario capisse che il calcio, il suo lavoro, occupava una parte importante della sua vita. Poche settimane dopo Balotelli sconfisse da solo la Germania con una doppietta in trenta minuti.
La sua esultanza sembrava il monumento al suo futuro, a quello della nazionale italiana, persino a quello dell’Italia in generale. Era facile assumere Mario Balotelli come il simbolo dell’Italia delle seconde generazioni, nonostante la sua storia personale fosse diversa. In quel momento, quei gol, suonavano come la dimostrazione che certi processi sono troppo grandi per non imporsi da sé, nonostante i cori volgari delle curve e le vignette su King Kong. Oggi invece quell’esultanza è il monumento del nostro fallimento.
Balotelli non è diventato come Messi e Cristiano Ronaldo. Ha fallito dove aveva più pressioni e ha invece brillato in squadre meno competitive. Doveva quanto meno essere il punto fermo di una Nazionale povera di talento, ma è dal 2014 che non gioca un torneo internazionale con gli Azzurri e oggi la sua convocazione ai prossimi Europei pare quasi impossibile. A 29 anni è tornato a Brescia, nell’ennesima tappa di una carriera che da qualche anno sembra quella di un reduce che si tiene lontano dai traumi. Balotelli parla come uno che ha vissuto troppo per essere ancora triste o felice, per desiderare qualcosa di diverso dalla serenità: «Avevo bisogno di un anno più tranquillo, ora sono a casa mia. Io ho intenzione di rimanere, vedremo».
La sua stagione è in chiaroscuro mentre il razzismo nei suoi confronti non si è placato, e nemmeno le accuse di essere lui stesso causa del razzismo che lo circonda. Il sentimento di odio che gli italiani gli hanno riservato è probabilmente una delle ragioni del suo fallimento, che nonostante quello che ci raccontiamo è anche il nostro fallimento. Non c’è forse delusione più amara di Mario Balotelli.
Altri talenti che hanno fatto meno di quanto ci aspettassimo
Il fallimento di Balotelli è denso di significati e messaggi che travalicano il campo da calcio, ma se ci limitassimo al piano puramente sportivo sarebbero tanti i talenti che ci hanno deluso in questo decennio. Conosco il filone retorico e letterario dei “talenti sprecati” e ne apprezzo la poetica. C’è qualcosa di sacrilego nella dispersione del talento, ed è romantica la rinuncia più o meno consapevole alla competizione dello sport contemporaneo. Al contempo le promesse non mantenute sono tra le forme più pure di delusione.
Bisogna partire dalla generazione francese dell’87, che nello scorso decennio compiva 22 anni ed entrava nell’età delle responsabilità. Qualche anno prima, nel 2004, Samir Nasri, Hatem Ben Arfa, Jeremy Menez e Karim Benzema avevano distrutto il Mondiale U-17, mostrando una tecnica e una creatività da calcio di strada proprio nel momento in cui il calcio stava andando dritto verso la standardizzazione.
Oggi hanno tutti 32 anni e l’unico dei quattro che non ha fallito è Karim Benzema, rimasto comunque escluso dalla vittoria del Mondiale della Francia proprio nel suo momento di massimo splendore nel Real Madrid. Come se la Francia abbia dovuto abbandonare ogni speranza su quella generazione maledetta per poter vincere qualcosa. Gli altri hanno tutti avuto momenti in cui il loro talento ha toccato una dimensione trascendentale, per poi però colare a picco in storie di fallimento a tinte diverse, ma tutte pregne di una malinconia a tratti persino squallida. Il profilo instagram di Samir Nasri registrato all’interno di una specie di fredda astronave dell’infelicità; Ben Arfa che festeggia da solo, con una torta da compleanno davanti, gli anniversari di assenza dal campo; Jeremy Menez che si è di fatto ritirato a meno di 30 anni, giocando in modalità esibizione in squadre marginali.
Oltre loro la Francia ha bruciato un altro grande talento tecnico, ovvero Johann Gourcuff, che alla fine dello scorso decennio indossava, bellissimo, la maglia del Milan promettendo di essere il nuovo Kakà. Oggi ha 32 anni ed è senza squadra.
Chiunque invece ricordi la stagione 2010/11 di Javier Pastore non potrà considerare riuscita una carriera che lo ha visto vincere tutto a livello nazionale col PSG. La sua incapacità di tornare a esprimersi sui livelli della giovinezza è legato a una struttura fisica congeniale più all’arte che allo sport.
Ma probabilmente la più grande delusione del decennio, nella categoria dei talenti sprecati, è Alexandre Pato. E se volete un ripasso di che cosa fosse Pato appena arrivato in Italia vi allego il video del suo esordio contro il Napoli, in cui sembra semplicemente un fenomeno paranormale, un essere di pura luce.
Pato, un bambino nato per giocare a calcio, splendeva di una vitalità religiosa vicino a Seedorf e Ronaldo fermi e alla fine delle proprie vite calcistiche.
Le leggende sull’implosione di Pato hanno a che fare con la sua muscolatura, il Milan Lab e una puntata di Black Mirror in cui i calciatori vengono pompati fisicamente per raggiungere degli standard che i loro corpi non supportano. La stessa storia che circonda il fallimento di El Shaarawy, che sarebbe forse ingiusto definire “fallimento”. Sarebbe più giusto dire “normalizzazione”. Diciamo che El Shaarawy è passato dal fare 14 gol in 19 partite in un singolo girone d’andata a diventare un’ala dal rendimento medio assicurato, ma pur sempre medio. El Shaarawy era la nostra proposta di ala futuristica con tanti gol nei piedi, ma non ha mai avuto un ruolo importante con la maglia della Nazionale.
Le prestazioni europee del calcio italiano
Il decennio del calcio italiano si era aperto con la vittoria dell’Inter in Champions League: il coronamento dell’epoca di massicci investimenti di Moratti, e anche il capolavoro di Josè Mourinho, che come Herrera sembrava nato per farsi profeta nella nostra cultura calcistica. Sia per l’identità tattica così cinica, che per una sensibilità manipolatoria che abbiamo ammirato e rispettato.
Sarebbe stato difficile prevedere che era il canto del cigno del nostro movimento calcistico, incapace di produrre risultati di livello in Europa al di fuori della squadra che ha cannibalizzato anche il contesto nazionale, ovvero la Juventus. I bianconeri non sono riusciti ad alzare la coppa perché in entrambe le finali si sono trovati davanti squadre che non avevano niente di terreno. Di fatto però quelle finali sono l’unica cosa che il calcio italiano può vantare, a parte forse un’emozionante quanto episodica semifinale della Roma contro il Liverpool di Klopp.
L’Europa League, che ogni anno sembra una coppa alla portata, che tutte vogliono vincere, e che invece si rivela una chimera inarrivabile, non vede un’italiana in finale da ormai 20 anni.
Quest’aridità di risultati più di ogni altra cosa - persino più della mancata qualificazione dell’Italia ai Mondiali - racconta una crisi che tocca tutti gli aspetti strutturali del nostro calcio. La mancanza di progettualità economico-finanziaria, e di conseguenza di investimenti. Le infrastrutture arretrate. L’incapacità di rinnovarsi tatticamente. Fino a un racconto che inventando false dicotomie - la turpe contrapposizione tra “risultatisti” e “giochisti” inventata dai giornali - degrada il discorso sul calcio.
La riforma che ci ha regalato quattro posti fissi in Champions League ci ha dato un grande sollievo, garantendo con più continuità e a più squadre gli introiti delle competizioni europee. Forse è anche per questo che il decennio si è chiuso suggerendo qualche flebile segnale di rinascita.
Le milanesi
E se le squadre italiane hanno ottenuto risultati modesti in Europa è anche perché sono mancate due club che sono storicamente alle fondamenta della nostra tradizione, cioè l’Inter e il Milan.
Entrambe hanno scontato il tramonto di presidenze ventennali che hanno portato trofei ma anche nessuna capacità di guardare al futuro. Sia Inter che Milan si sono trovate a metà decennio a doversi ristrutturare come club dall’impronta più manageriale. Nel frattempo hanno bruciato una buona fetta del vantaggio competitivo accumulato negli anni.
È solo alla fine del decennio che l’Inter sta vivendo un rinascimento competitivo grazie alle capacità imprenditoriali della nuova proprietà; dall’altra parte il Milan sembra inabissato in un’eterna fase di transizione, dove si susseguono gestioni così ricche di errori da sembrare puri e semplici sabotaggi.
Per le future generazioni, e ai fini della nostra archeologia delle delusioni, vogliamo ricordare la peggiore stagione di entrambe.
Per il Milan forse sarebbe questa, ma vale la pena citare l’origine della catastrofe, ovvero la prima della gestione Fassone-Mirabelli. Una campagna acquisti non solo sbagliata tecnicamente, ma anche piena di vicende tragicomiche come quella di Leonardo Bonucci e i suoi equilibri da spostare.
Per l’Inter il peggior piazzamento in campionato è il nono posto 2012/13, un’annata che però ha vissuto anche un momento di entusiasmo con le dieci vittorie consecutive di Stramaccioni e la presa dello Juventus Stadium. Preferisco quindi la stagione 2014/15, l’ultima dell’epoca Moratti. Il calciomercato estivo che aveva anticipato quell’anno aveva portato una cornucopia di giocatori sbandati, finiti o mai iniziati: Nemanja Vidic, Dodò, M’Vila, Osvaldo. In panchina a Walter Mazzarri si era succeduto Roberto Mancini, non riuscendo comunque a raddrizzare una stagione chiusa all’ottavo posto. Eccovi una line-up.
Le neopromosse (QUASI tutte)
Il decennio si è concluso senza che in nessuna stagione tutte e tre le neopromosse riuscissero a salvarsi. Nei due decenni precedenti era invece successo quattro volte, due per decennio. Nelle ultime tre stagioni sono però state ogni volta addirittura due le neopromosse retrocesse in ciascun anno. Quasi tutte queste retrocessioni sono state disastrose.
Ci sono delle ragioni strutturali ovviamente. Da una parte l’allargamento della Serie A a 20 squadre avviato nel 2004 che in questo decennio ha scontato però l’arretratezza economica del nostro calcio. Dall’altra il cosiddetto paracadute, che offre alle squadre retrocesse un minimo di 10 milioni di euro (ma che è quasi sempre una cifra più alta) alle squadra che finiscono in Serie B. Una misura di buon senso, utile per riassorbire l’impatto economico della discesa di categoria, ma che finisce forse (siamo nel reame delle speculazioni, me ne rendo conto) per disincentivare le proprietà a investire sulle squadre per la permanenza in Serie A.
Al di là dei risultati, è stato spesso l’approccio remissivo, confuso e senza idee delle neopromosse a risultare una delusione. Possiamo citare un paio di eccezioni: l’Empoli di Andreazzoli, che ha venduto cara la pelle e che è riuscito comunque a valorizzare diversi giocatori poi molto ambiti sul mercato (Traoré, Bennacer, Krunic, Caputo, Di Lorenzo, Zajc). E ovviamente l’utopia del Benevento di De Zerbi, bellissimo e retrocesso alla fine di un tentativo disperato di salvarsi attraverso il gioco di posizione. Un finale di campionato fatto di gol del portiere, un calciomercato allucinato e una serie di giocatori di culto come Brignola, Diabaté (media gol più alta del decennio accumulata in quel ristrettissimo finale di stagione), Djuricic, Sandro.
Quasi tutte le squadre rimaste in Serie A da neopromosse in questo decennio avevano alle spalle un mercato e delle potenzialità economiche fuori scala per le categorie inferiori, come Sassuolo e Parma, squadra che in questo decennio è stata protagonista di una vertiginosa discesa agli inferi e risalita, con un fallimento nel mezzo.
Vanno citate anche neopromosse protagoniste di salvezze spettacolari, come il Crotone 2017 allenato da Davide Nicola, trascinato dai gol di Simy e Nalini, il Jamie Vardy italiano. Un’epica sgangherata e romantica che in fondo è tutto ciò che chiediamo a una neopromossa.
José Mourinho
La vittoria in Champions League che ha aperto il decennio ha mostrato l’apice dell’idea di calcio di José Mourinho. Ma era una vittoria che conteneva venature e caratteri che la fanno assomigliare più al decennio precedente che a quello che si è appena concluso.
La sera stessa della finale Mourinho baciò Materazzi in lacrime e salì sull’auto di Florentino Perez. Il miglior tecnico al mondo nella squadra più blasonata al mondo: cosa poteva andare storto? In realtà il contesto aristocratico e conservatore del Real Madrid si è rivelato stonato per un allenatore “disruptive” come Mourinho. Quel periodo rimarrà nell’immaginario più che per la sua squadra ultraoffensiva (121 gol in una stagione) per la sua estenuante battaglia mediatica con Guardiola. Mourinho ha assunto la parte del villan con una ferocia che forse ha finito per prendergli la mano. Da quel momento non è stato più lo stesso.
Al Chelsea e al Manchester United Mourinho è sembrato avere come unico scopo la distruzione del paradigma del gioco di posizione. Ma a pensarci bene è stato più di così: Mourinho voleva dimostrare a tutti di poter vincere attraverso un gioco ormai svuotato di qualsiasi ideale, attraverso un approccio puramente cinico e mentale. Gli è riuscito in alcune occasioni - Chelsea del primo anno, l’Europa League con lo United - ma progressivamente sempre meno. Oggi, sulla panchina del Tottenham, Mourinho sembra aver già smontato uno dei sistemi più efficienti e sofisticati negli ultimi anni. La sua forma narrativa, nella mappa del calcio contemporaneo, è ormai quella dell’anti-cristo.
I risultati di Guardiola in Champions
Il decennio del grande rivale di Mourinho è meno semplice da interpretare. Perché è vero, come ha scritto Daniele Morrone, che Guardiola ha vinto la guerra, influenzando più di ogni altro il calcio degli anni ’10. Al contempo, però, i suoi detrattori potranno pur sempre dire che Guardiola ha smesso di vincere la Champions League, cioè il trofeo che più di ogni altro definisce il prestigio e la storicità del passaggio di una squadra e di un allenatore.
Hanno ragione: Guardiola non solo non vince una Champions dal 2011, ma negli anni successivi - pur disponendo di squadre prodigiose - non ci è andato nemmeno vicino, non ha mai più giocato una finale. È paradossale per un tecnico che ha vinto 2 delle prime 3 Champions a cui ha partecipato da allenatore. Guardiola si è fermato quattro volte in semifinale; due volte ai quarti e una agli ottavi. Quasi sempre è stato eliminato pur partendo da favorito, con a disposizione una squadra con tanti investimenti alle spalle, rodata tatticamente e dall’efficacia comprovata dai risultati domestici. Alle difficoltà in Champions, nel decennio di Guardiola, fanno infatti da contrappeso i campionati nazionali vinti: tutti tranne il primo col City e l’ultimo col Barcellona.
È difficile trovare un motivo chiaro alla base dei scarsi risultati di Guardiola in Champions. Intanto mettiamo da parte la sfortuna, che ha avuto un peso in diverse occasioni, in particolare nell’eliminazione per mano del Tottenham lo scorso anno. Probabilmente Guardiola si è dimostrato troppo rigido nell’approccio ad alcune situazioni tattiche. Ha costruito squadre che hanno introiettato i suoi principi come una seconda pelle, formidabili nello sbriciolare gli avversari nella continuità del campionato. Al contempo però erano squadre incapaci di dominare i momenti degli scontri a eliminazione diretta. Un aspetto fondamentale di una competizione dagli equilibri sottili come la Champions League, in cui per esempio è spiccato Zinedine Zidane, vincitore di tre coppe in questo decennio.
Superclasico di Libertadores
Cosa c’è di più deludente di una partita etichettata come “La finale delle finali” che finisce per dover essere spostata in un altro continente per motivi di ordine pubblico?
Era la prima volta che Boca Juniors e River Plate si affrontavano in finale di Copa Libertadores: due squadre che si dividono Buenos Aires per storia, tradizione e persino antropologia. Prometteva di essere quindi una delle poche storie romantiche di un decennio per il resto estremamente realista. Il decennio del 7-1 della Germania al Brasile e in cui il calcio è diventato sempre più europeo e piramidale. È finita come peggio non poteva, con le fotografie degli spalti vuoti e lo spostamento al Santiago Bernabeu. Il calcio sudamericano non era in grado di organizzare la sua festa più grande.
Cito un passaggio di un pezzo di Fabrizio Gabrielli che vi consiglio di recuperare se volete il racconto di quel fallimento:
«Come molti altri appassionati di calcio sudamericano non riuscivo a venire a patti con il senso di vuoto, di privazione, di ingiustizia nei confronti degli istinti più nobili dello sport, e della sua narrazione. Più leggevo, più cresceva in me la confusione, e il terrore dell’ovvietà: comprendere davvero cosa fosse successo (o meglio, cosa fosse iniziato a succedere) la sera in cui la Copa Libertadores avrebbe dovuto avere un vincitore, ed è invece rimasta senza un proprietario, sospesa in un limbo giuridico, era un’ambizione sterile, inconcludente e pericolosa come l’idea di salire su un battello nelle Andemane e andare a evangelizzare l’isoletta di North Sentinel».