1. L’insostenibile tristezza dei Momenti-Aubameyang™
Tra i tanti (ma comunque pochi, rispetto a quelli che sarebbero potuti essere) Momenti-Aubameyang™ a questa Coppa d’Africa ho deciso di sceglierne uno giocoso e gioioso: quello dei festeggiamenti corali dopo la prima rete segnata contro il Burkina Faso. In questo momento il Gabon è lanciatissimo verso la vetta del girone, è una squadra giovane, bella e spregiudicata, con un mood a metà tra Svezia e Brasile, nel senso che oltre a condividere i colori della divisa può contare su un Aubameyang in versione Neymar/Zlatan: simile al brasiliano per il look, vicino a Ibrahimovic in quel suo essere stella, faro, punto di riferimento, dolcezza speranza e nostra salve di tutta una squadra, una nazione sportiva.
Elementi tribali + attitude + gesto del supremacy = Ibraumeyang, ma più esotico.
È desolante vedere Pierre-Emerick sempre consolato da qualcuno: dai compagni per aver sbagliato il rigore decisivo nei quarti di finale contro il Mali dell’edizione disputata in casa qualche anno fa, da Klopp per l’ennesima prestazione inconcludente in Bundesliga, dal resto della squadra dopo l’eliminazione patita al termine dell’ultimo suicidio contro la Guinea Equatoriale (e il gioco di parole che accompagna questa foto, impietoso, suona di sberleffo e non fa che amplificare la delusione cocente). Si può vivere con serenità l’insuccesso come costante?
Vorrei che mi capitassero sotto gli occhi solo immagini pastello di un Aubameyang felice, con il suo numero 9 trasformato in 6 se sta festeggiando un gol con una capriola, coi capelli sempre in ordine e le acconciaturesbarazzine; mi sarebbe piaciuto che il Gabon fosse andato un po’ più in là della fase a gironi, avrei tifato forte per loro, e invece ancora una volta è stato tempo per le lacrime, gli insulti dei tifosi ingenerosi, le scuse (necessarie?), insomma: gli ennesimi tristissimi Momenti-Aubameyang™.
2. Il contrappasso di Asamoah Gyan
Le parole Ghana e Gyan Asamoah fanno rima da così tanto tempo che neppure sembra che l’attaccante abbia solo 30 anni, e che ne avesse venticinque quando stava per portare le Black Stars tra le prime quattro Nazionali del Mondo, se soltanto non avesse calciato sulla traversa quel rigore all’ultimo minuto dei supplementari contro l'Uruguay. Per quanto mi riguarda mi sembra che Gyan giochi da un tempo inenarrabile, anche se quando arrivò al Modena forse non facevo neppure già più le medie.
È difficile capacitarsi di come un fallimento così compiuto, pieno di ripercussioni e per certi versi definitivo come quell’errore dal dischetto in Sudafrica possa rappresentare l’highest peak di un calciatore. Ma per Gyan non sembra esserci alternativa: dalla traversa a seguire è come se avesse deciso volontariamente di ritagliarsi una parentesi in limine al calcio che conta, per godersi lo scivolo della fase discendente della sua parabola tra i suoi demoni (o i petroldollari degli Emirati Arabi Uniti) e farsi trovare in grande spolvero solo per le Grandi e Irrinunciabili Occasioni tipo i Mondiali (in Brasile ha segnato anche il gol del momentaneo vantaggio contro la Germania) o la Coppa d’Africa (quante potrà giocarne ancora? Secondo me sarà ancora lì, con il suo numero 3, alla AFCON 2023).
A settembre dell’anno scorso lo hanno accusato di aver rapito e ucciso il suo amico e sodale rapper Castro, e la sua compagna; peggio, lo hanno accusato di aver usato i loro corpi per dei sacrifici umani. Bisognerebbe essere bravi a carpire i battiti del Cuore di Tenebra africano per comprendere almeno un po’ come si fa ad accusare il capitano di una Nazionale, che ha giocato in alcuni dei principali campionati d’Europa, di volersi aiutare con rituali di magia nera per accrescere la propria fama e i propri guadagni.
Sta di fatto che detrattori e destino devono avere affilato l’ascia se in questa Coppa d’Africa è stato costretto a saltare la prima gara contro il Senegal per l’acuirsi di un attacco di malaria, e se ha visto la semifinale dalla panchina per i postumi del brutto colpo allo stomaco rimediato in uno scontro violentissimo con il portiere della Guinea Conakry Naby Yattara (che, con inattaccabile lucidità di ragionamento, in un’intervista a caldo ha dichiarato «Non gli chiederò scusa, non era mia intenzione fargli male. Se fosse stata mia intenzione fargli male gli chiederei scusa, ma non volevo. Se chiedo scusa è come se ammettessi che volevo fargli del male»).
Il momento da tramandare ai posteri è quello in cui Gyan si è preso la sua piccola rivincita, una rivalsa su destino, haters e se stesso, segnando un gol contro l’Algeria - nella partita che sarebbe potuta significare quasi-eliminazione per il Ghana - a tempo scaduto, in quel lembo sfilacciato di tempo in cui già una volta aveva calciato un pallone destinato alla Storia contro la traversa.
3. La sorpresa nella sorpresa: Ibán Salvador Edu
Questo ragazzo con la faccia da guappo che si batte il petto con un braccio molto tatuato si chiama Ibán Edu, ma su Twitter lo trovate come Ibán Salvador, e sta vivendo il momento più importante della sua carriera. Attualmente gioca con la squadra B del Valencia, il Mestalla. Edu è il cognome del ramo equatoguineano della sua famiglia, quello materno.
Il padre della madre è il motivo per il quale, in buona sostanza, a 19 anni Ibán si è trovato per la prima a vedere l’aeroporto, e poi le strade, e poi le case e infine lo stadio di Malabo: prima dell’8 Gennaio questo ragazzo non aveva mai messo piede nella sua patria d’origine. La partita giocata dieci giorni più tardi, contro il Congo, per lui deve essere stato qualcosa di più di un semplice esordio con la maglia degli Nzalang. «Ci ho pensato per un po’, ho cincischiato, però alla fine... devo approfittare di un’opportunità del genere, di quello che può insegnarmi. Voglio vivere tutto questo, e soprattutto voglio rappresentare il mio paese». «Anche se pure la Spagna è il mio paese».
La Guinea Equatoriale può essere considerata il caso di questa Coppa d’Africa per vari motivi, e a uno sguardo approfondito ci si può stupire di quanto pochi siano, in realtà, quelli che hanno a che vedere con la paranoia piena di malizia che li vorrebbe favoriti solo perché padroni di casa (quarto di finale contro la Tunisia a parte). Parlare degli Nzalang significa dopotutto parlare di una squadra che non giocava una partita ufficiale dallo scorso giugno (qualificazioni per la Coppa d’Africa, vittoria contro la Mauritania - anche se ufficialmente si è trattato di una sconfitta a tavolino per aver schierato un giocatore inconvocabile con conseguente eliminazione, salvo poi rientrare dalla porta principale come paese ospitante), e che è comunque riuscita, sotto la guida di Estéban Becker, a presentarsi in maniera ordinata, compatta, con due battitori liberi al di sopra delle aspettative (Emilio N'sue e Javier Balboa, cannoniere principe del team) e uno - Ibán Edu - capace di rovesciare le gerarchie che lo volevano riserva di Raul Fabiani Bosio. Per premiare gli Nzalang il colosso dei supermercati equatoguineani Martínez y hermanos ha regalato qualcosa a ognuno di loro (il regalo di Ibán somiglia a un vhs porno, ma magari è solo un paio di mutande attillate).
Con i suoi movimenti tra le linee, un po’ ala un po’ enganche, Ibán Edu è stato un po’ la sorpresa nella sorpresa che a dar credito ai malpensanti non sarebbe dovuta essere una sorpresa, ma che, alla fine della fiera, un po’ sorpresa è stata.
Qua ha appena segnato il gol che elimina il Gabon, che fa toccare alla Guinea Equatoriale nuove insondabili vette e che sarebbe potuto essere il gesto più importante mai compiuto da un cittadino de l’Hospitalet de Llobregat, se solo l’Hospitalet non fosse anche la città di Victor Valdés e Jordi Alba.
4. Mors tua, vita mea
Quando l’arbitro fischia la fine del match, Seydou Keita gli lancia uno sguardo facondo che sembra chiedere: «Ok. E adesso?». Mali e Guinea hanno pareggiato per 1-1. Non si capisce chi di preciso dovrebbe passare il turno, è per questo che l’espressione sui volti dei giocatori è di dubbio, paura, disorientamento. C’è chi azzarda un calcolo in panchina, chi chiede all’arbitro, chi passeggia nervosamente. Punti, differenza reti, gol fatti e gol subiti, colori della bandiera: Mali e Guinea si equivalgono sotto ogni aspetto ponderabile.
L’articolo 74 del Regolamento della Orange Africa Cup of Nations dice che in casi di parità così conclamata l’unica maniera per decidere chi accede ai quarti di finale è estrarre a sorte: se vi sembra una dinamica barbara e medievale è bene che sappiate che anche il media director della CAF è convinto che il regolamento vada migliorato: «È davvero la peggior decisione da prendere, decidere chi passa il turno così, perché tutti vorrebbero fosse il campo a deciderlo». Mali e Guinea si sarebbero potuti giocare la posta in cento modi diversi e creativi: ai calci di rigore, agli shoot-out, con punizioni senza barriera, partitella a metà campo con porte piccole e portieri volanti, schiacciate o tiri da tre punti, continuando a giocare a oltranza. Invece, soluzione meno spettacolare e anzi decisamente grigia e burocratica: estrazione a sorte.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sarà Amara.
Amara Diabo è il ministro dello sport della Guinea. Nella sala conferenze dell’Hilton di Malabo, alle quattro del pomeriggio, di fronte ai membri dell’esecutivo federale affonda la mano nell’urna ed estrae uno dei due bozzoli all’interno del quale potrebbe annidarsi l’embrione di un futuro nella competizione, o un veleno che dà la morte istantanea: lo apre senza troppa difficoltà, srotola il foglietto, legge. Boubacar Diarra, il presidente della federcalcio maliana, è un uomo di una certa età e ha qualche difficoltà ad eviscerare il responso; abbandona pure il proposito quando vede Diabo farsi sorridente e mostrare il numero 2 (nelle urne c’erano i numeri relativi ai piazzamenti: 2 o 3). Se lo aspettava diverso, il giustiziere del Mali, diverso da un omaccione che in una sala asettica d’albergo, con un rapido movimento delle mani e un sorriso disteso, senza spocchia né strafottenza, con in dosso una maglia vistosa, dalle maniche colorate, esulta in maniera contenuta, molto elegante, quasi dispiaciuto. Mors tua vita mea, è vero: anche se a giocarsi i destini in campo c’è più gusto, va detto.
5. L’orrore. L’orrore.
Di fronte a certi arbitraggi africani lo spettatore europeo avverte un irrefrenabile afflato d’immedesimazione con Marlon Brando quando veste i panni del colonnello Kurtz: gli viene da incupire il tono, fissare lo sguardo sull’infinito, sussurrare «L’orrore. L’orrore».
Se voleste impartire ai ragazzi del corso per arbitri una lezione monografica sul tema “come non deve mai comportarsi un giudice di gara” credo possa essere una soluzione mostrargli Rajindraparsad Seechurn in azione nella gara dei quarti di finale tra Tunisia e Guinea Equatoriale.
Il fatto che Seechurn sia stato sospeso immantinente dalla Coppa d’Africa 2015, oltre a rimediare una squalifica per 6 mesi dalla federazione arbitrale africana (che gli ha pure tolto il privilegio d’essere inserito nella lista “A” degli Arbitri d’Èlite) potrebbe sembrare eloquente di quanta pochezza il mauriziano abbia saputo esprimere nella tenuta di gara, e nondimeno non è ancora abbastanza.
Tra Géricault e Michelangelo Merisi.
Il rigore (inesistente, ça va sans dire) assegnato alla Guinea Equatoriale a tempo ormai scaduto, grazie al quale Balboa ha permesso ai padroni di casa di raggiungere un insperato pareggio contro le Aquile di Cartagine (prima di concedere il bis, a metà del primo tempo supplementare, con una deliziosa punizione) è stata solo la scintilla che ha innescato un inseguirsi flamboyante di errori, tentennamenti col polso molle, decisioni incomprensibili: ci sono terzini capaci di andare completamente in bambola, ma converrete che se la fascinazione annichilisce la lucidità del direttore di gara gli esiti finiscono per essere davvero imprevedibili.
Guinea Equatoriale - Tunisia è forse stata sul serio, come l’ha definita Jonathan Wilson che l’ha seguita dal vivo, la partita più vergognosa, scandalosa, disgraziata, ilare, brillante e piena di thrilling di questa Coppa d’Africa: e se vi state chiedendo quanta percentuale di responsabilità per quanto è successo in campo e fuori durante e dopo la partita (giocatori tunisini inferociti che rincorrono la terna, scazzottate tra centrocampisti maghrebini e steward, lanci di bottiglie tra le punte e i tifosi sugli spalti) sia da imputare all’arbitro, credo che la risposta vada cercata nell’immagine quasi caravaggesca di Sechuurn che viene scortato dagli steward fuori dal campo, in un incastro perfetto di chiaroscuri, spaventato dai tunisini coi volti sformati in maniera vagamente bruegeliana eppure consapevole del suo destino, la gamba destra piantata a terra, lo stesso braccio sollevato in un gesto come d’implorazione, o forse di resa.
6. Quattro volte più veloce di Usain Bolt
«Caro Brazuca,
ti ringrazio per la mail premurosa e carica d’affetto. Voglio rassicurarti sulle mie condizioni: sto bene, grazie, spero lo stesso per te. Com’è la pensione? Ci si diverte? Stamattina mi sono svegliato solo con un forte mal di testa, credo sia normale. Sono fortunato ad avere Chuku Chuku al mio fianco: sembra così pieno di sé, scontroso, montato dal successo, mentre invece tutt’al contrario è sempre disponibile, oltre che divertente (a dirtela tutta ultimamente ho l’impressione che sia anche un po’ depresso).
A un certo punto, mentre leggevo con gli occhi gonfi per la commozione le tue parole, ero convinto mi stessi prendendo in giro, rovesciando su di me un rancore inaspettato e innecessario (dopotutto, pur essendo cugini, ci conosciamo così poco): il tono con cui ti rammaricavi di non essere rotolato tra gambe così possenti mi è parso talmente derisorio! Alla fine ho optato per il malintendimento, perciò ti rispondo dando per scontata la tua buona fede. Che vuoi che ti dica: mi dispiace e al contempo sono decisamente contento per te che non abbia avuto modo di imbatterti nella mia stessa disavventura.
È andata proprio come s’è vista in tv: quando Bony m’ha perso, e con la coda dell’occhio ho visto Gervinho venirmi incontro, mi son detto che bello, ora si balla un po’. Ma non avevo proprio fatto caso a Yaya Touré che arrivava come un treno: la botta è stata così tremenda, sai quella sensazione di qualcuno che ti sbatte un merluzzo contro il collo sotto la nuca, che non ho avuto neppure il tempo di godermi la traiettoria. Quando sono tornato in me rotolavo all’altezza del dischetto del rigore, ho fatto fatica a credere d’aver già toccato la rete. Certo che ho avuto paura d’aver frantumato il faccino di qualche piccoletto.
Quanti saranno stati, tra andata e ritorno? Trentacinque metri? Li ho fatti in quattro secondi appena, amico Brazuca.
Da che parte hai letto che ho raggiunto i 125 km orari? Mi mandi un link?
Sai che il picco massimo di velocità di Usain Bolt è stato di 38 km orari?
Pensaci: potrò raccontare di aver corso quattro volte più veloce di Usain Bolt.
Sono soddisfazioni.
Con affetto,
7. #Presobenismo
Alberghi senza acqua corrente né elettricità, oppure in overbooking, o ancora senza il numero sufficiente di stanze per ospitare una squadra per intero.
Campi d’allenamento sotto gli standard qualitativi: quello in cui si è allenato il Mali prima dell’ultima partita del girone era addirittura un cantiere aperto, con tanto di operai e ruspe al lavoro per completarlo.
Il Congo di Le Roy è rimasto bloccato per più di un’ora nel traffico di Malabo, in un autobus senza aria condizionata con più di 40 gradi.
Che la Guinea Equatoriale avrebbe avuto qualche problema logistico e organizzativo c’era da aspettarselo, dopotutto non si prepara un evento di questa portata in 50 giorni, come ha ammesso il segretario generale della CAF Hicham el-Amrani: «ci vogliono almeno 4 anni».
Per riallineare l’equilibrio cosmico e ripristinare la pace interiore mi sembra perciò opportuno farvi vedere come arrivano allo stadio i calciatori del Ghana. Un inno al presobenismo.
Il magnifico strumento a percussione che impugna il giocatore in primo piano è un axatse, (si pronuncia aòtse), anche detto shekere.
8. GTA (Grand Theft Africa)
A poco più di dieci minuti dal termine della semifinale tra Ghana e Guinea Equatoriale, d'emblée, dietro la porta difesa da Ovono Ovono (che non dovremmo mai smettere di ringraziare per il suo apporto chiarificatore in termini di geopolitica) si materializzano qualche centinaio di tifosi. Non sono equatoguineani intenzionati a invadere il campo (il Ghana sta conducendo per 3-0 e ha già messo un'ipoteca d'oro massiccio sulla finale, e la rassegnazione si sa assume spesso tinte fosche), ma ghanesi coinvolti in una specie di prova tecnica d'esodo.
Il Ghana è passato in vantaggio a tre minuti dalla fine del primo tempo, grazie a un calcio di rigore francamente incontestabile. Poco dopo ha raddoppiato. Veder sfumare l'appuntamento con la Storia così, nell'arco di qualche giro di lancetta, ha un impatto destabilizzante sul pubblico di Malabo: le Black Star sono costrette a uscire dal campo sotto una coltre di scudi issati da poliziotti in formazione testuggine.
Gli spogliatoi? Prego, si accomodi da questa parte.
Di fatti strambi, durante la Coppa d'Africa, capita di vederne una manciata a partita: non tutti fanno sorridere come la foga con la quale gli Nzalang tentano di riprendere il gioco mentre André Ayew e compagni stanno ancora festeggiando (si sa che bisogna aspettare il fischio dell'arbitro. Si sa?). Quelli che iniziano a susseguirsi dall'83' in poi, però, hanno del surreale, prima; dell'inquietante, poi; del deprecabile, infine.
Dagli spalti piovono centinaia di bottigliette d'acqua (tutte rigorosamente senza tappo): steward dagli anfibi lucidi, le pettorine brillanti e sbarazzini caschi rossi si premurano di raggruppare giocatori e arbitro nel cerchio di centrocampo. Avram Grant, con il mood del pensionato che esplora cantieri per riempire la propria quotidianità, si aggira con una maglia a righe leggermente larga nei pressi della trequarti.
Quando un elicottero comincia a volteggiare vicino in maniera assurda alle tribune, l'idea che stia accadendo qualcosa di vergognoso, incredibile e inedito insieme comincia a farsi prepotentemente strada: l'elicottero spara lacrimogeni e getti d'idrante verso i tifosi, li mette in fuga con il rumore e lo spostamento d'aria delle pale meccaniche.
Emilio Nsue passeggia tra i tifosi avversari: non si capacita di che casino gli si stia materializzando intorno. A fine partita dice «Non ho mai giocato di fronte a niente del genere, e vorrei chiedere scusa a tutti da parte della mia squadra».
L'elicottero continua a volare basso sul prato verde, i tifosi si assembrano verso l'uscita e si può solo immaginare che nottata di guerriglia attenda Malabo; se la CAF decidesse di squalificare la Guinea Equatoriale (sarebbe la seconda eliminazione a tavolino dallo stesso torneo, qualcosa di sublime e agghiacciante allo stesso tempo) a nessuno sembrerebbe poi un'idea così peregrina.
9. A NEW RUMBLE IN THE JUNGLE
Nell'ultima edizione della Champions League africana, vinta dagli algerini dell'ES Sétif, c'è stato il rischio palpabilissimo di una finale fratricida tra le due squadra zairesi AS Vita e Tout Puissant Mazembe. Questo per sottolineare come lo stato di forma del calcio, nella Repubblica Democratica del Congo, sia assolutamente brillante: il cammino dei leopardi a questa AFCON non ha fatto nulla per smentire le premesse.
Il forte carattere glocal (o se volete usare un aggettivo più abusato quando si parla d'Africa: indigeno) della RDC è stato amplificato dalla presenza, in panchina, di uno dei soli tre allenatori africani della competizione, Florent Ibengé, già coach - appunto - dell'AS Vita, oltre che di una difesa la cui ossatura era improntata su quella dei corvi del TP.
È molto difficile dare un giudizio su Ibengé come allenatore della Nazionale. L'ha presa in mano 12 partite fa: da allora 4 vittorie, 4 pareggi, 4 sconfitte (anche se sempre contro Camerun e Costa d'Avorio).
Osservare la RDC è stato divertente perché Ibengé sembra avere un'idea di gioco precisa, puntellata sul 4-2-3-1, e poi in certi suoi uomini, tipo Yannick Bolasie o Dieumerci Mbokani, si annida il genio propulsore del calcio del continente nero: velocità esplosiva, imprevedibilità, reattività ferina. Sembrano clichés, finiscono per rendere bene - meglio di molte altre immagini slegate dal contesto - l'idea.
La RDC è stata la protagonista di quella che probabilmente passerà alla storia (almeno di questa edizione) come la rimonta più folle, assurda, piena di significati che sia mai stata raggiunta. Non fosse altro perché nella gara degli ottavi di finale gli avversari che si è trovata a dover affrontare sono stati i “cugini” del Congo, lo stato che si trova al di là del fiume Congo. Il Congo, calcisticamente parlando, la Nazionale e non il fiume, non aveva mai sconfitto la RDC; per provarci si presentava con Claude Le Roy sulla sua panchina – e Le Roy ha allenato, in passato, anche la RDC.
Anche alla luce della fabula che farciva le premesse, ne è uscito quello che probabilmente è il miglior match in assoluto di tutta la Coppa, ricco di gol - 6 - tutti segnati nel secondo tempo, con il Congo in vantaggio per due reti e Ibengé che incassa il colpo, cambia modulo, effettua sostituzioni, e vede i suoi portare a termine la remuntada. Sarebbe stato tutto affascinante e meraviglioso anche se si fosse trattato di Zambia - Capo Verde. Ma se tutto quel che è successo è stato durante un Congo vs Repubblica Democratica del Congo, non faticherete troppo a capire perché vale doppio.
10. Meglio senza Drogba?
Il portiere Boubacar Barry Copa condensa in sé tanti di quegli elementi mitico-epici da rintontolirti e farti perdere il vero focus: non doveva giocare la finale, poi il giovane portiere Gbohouo, che ha disputato tutte le gare da titolare, si è infortunato nella semifinale contro l'Algeria e allora è stata l'occasione per Barry di mettersi in mostra, parare due rigori al Ghana quando le Black Star erano in vantaggio per 2-0 nei tiri dal dischetto, annientare il collega Razak e infine segnare il penalty decisivo, quello che è valso la Coppa.
Il focus dal quale Barry ci allontana è che la Costa d'Avorio, dopo ventitré anni, è tornata sì a vincere una Coppa d'Africa, ma lo ha fatto essenzialmente con la stessa squadra che ha fallito in ognuno dei precedenti tornei internazionali dalla AFCON 2002, dove è sempre arrivata da favorita ed è finita per rappresentare la più tremenda delusione.
Non farete fatica a individuare l'unico assente.
«Se Drogba non è qua non è per una decisione nostra, ma per una decisione sua», ha dichiarato dopo la fase a gironi Hervé Renard. «E comunque se hai perso Drogba ma hai trovato Bony ti ha detto discretamente bene».
«Non possiamo stare sempre a pensare a Drogba», ha invece tagliato corto Gervinho. «Bony è un giocatore diverso: è il giocatore che ci porterà a un'altra dimensione».
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Drogba ha festeggiato la vittoria su Instagram fuori di sé come un tifoso quindicenne.
Didier non perde occasione per endorsare Wilfried, per ricordare quanti consigli gli abbia dispensato ai tempi dello Swansea, per cercare di convincere i dirigenti del Chelsea a portarlo a Stamford Bridge. Bony, invece, a gennaio ha firmato per il Manchester City, dove troverà il suo compagno di squadra Yaya Touré, e per quanto possa voler bene al talismano ivoriano trova sempre il tempo per lanciargli un guanto di sfida, per giurare che lui farà meglio.
C'è riuscito addirittura al primo tentativo. E nonostante l'aura del portiere-eroe, gli occhi del pubblico al momento della premiazione si sono mica posati su Barry: sono scivolati tutti verso Wilfried Bony, per cercare di capire se entra alla perfezione o meno, nella silhouette di Didier Drogba recentemente tagliata via.
Bonus Track
Severo ma giusto?
L’ultima, quella bonus, non è propriamente un’immagine ma ha a che vedere con la questione dell’immagine; nella fattispecie, quella della CAF.
Il profilo che tirando le somme ne esce fuori da questa edizione della Coppa d’Africa è quello di una confederazione dall’umore lunatico, pronta a decisioni molto severe, come una specie di deus ex machina tanto punitivo e vendicativo, quanto incline ad atti di magnanimità assoluta. Una federazione, insomma, con l’asticella dell’irreprensibilità più vacillante della lancetta del contachilometri di un coatto che sgasa con il suo Golf tuningato.
Il 6 Febbraio il Comitato Organizzativo della Coppa d’Africa si è riunito a Malabo, ed è stato un po’ il giorno della marmotta del calcio africano: con una serie di comunicati a raffica la CAF ha messo in bella mostra i muscoli, dispensando pillole di tolleranza zero che rischiano di gettare il pallone del continente nero in una sacca di depressione per il prossimo lustro.
Tanto per cominciare il Marocco, che si era rifiutato di ospitare la competizione (o meglio: che ne aveva suggerito una proroga al 2016) è stato multato per un milione di dollari e squalificato dalle edizioni 2017 e 2019 della AFCON; inoltre gli è stato intimato di farsi carico delle spese per il disagio organizzativo, quantificate in otto milioni di euro. Difficile prevedere cosa succederà se il Marocco si rifiuterà di pagare: verrà escluso anche dalle qualificazioni ai Mondiali? Chiederà la secessione dalla CAF e lo vedremo agli Europei del 2020?
La seconda stoccata all’area maghrebina è stata la sospensione sine die del presidente della federazione calcistica tunisina, Wadie Jary, almeno fin quando non si deciderà a presentare una formale lettera di scuse per il comportamento «insolente, aggressivo e inaccettabile» successivo allo scandalo dell’arbitraggio di Sechuurn (di cui sopra). L’ultimatum scadrà il 31 Marzo e c’è da intendere che la pena prevista potrebbe essere, anche qua, la doppietta multa salata + squalifica dall’edizione 2017.
Comincio a pensare che Tunisia e Marocco potrebbero e dovrebbero giocarsi una Coppa delle Escluse, intanto, in stadi bellissimi con tifosi educati e alloggi solo nei migliori cinque stelle lusso di Agadir e Hammamet.
Ma il capolavoro stilistico della CAF è stato il coup-de-théâtre successivo ai riot di Malabo. Quando parlo di applicazione ondivaga delle pene, infatti, penso soprattutto allo sconto tributato alla Guinea Equatoriale: nonostante il regolamento imponesse che la finale di consolazione contro la RDC fosse giocata a porte chiuse, «per promuovere lo spirito di Fair play e fratellanza» il Comitato Disciplinare ha deciso, alla fine, di sospendere l’applicazione della pena. I più maliziosi ci vedranno un gesto di generosità (o sudditanza morale) ai padroni di casa.
A pensare male si fa peccato, ma come si dice: spesso ci si indovina.