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I cento metri sono la gara perfetta
02 ago 2021
I primi Giochi Olimpici senza mio padre.
(articolo)
10 min
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I cento metri sono la gara perfetta. La competizione umana indiscutibilmente migliore di qualsiasi altra. Sono abbastanza veloci da poter tenere il fiato lungo il suo svolgimento ma non durano così poco da non rendersi conto di cosa stia accadendo. Non finiscono in modo improvviso con un colpo da KO e non bisogna neanche aspettare che succeda qualcosa che rompa l’equilibrio. Non sono un esercizio a cui si possa aggiungere né togliere niente, bisogna uscire dai blocchi, spingere, alzare il busto, spingere ancora un po’, e poi sono finiti. Non si possono fare i calcoli, non ci si può inventare niente per essere migliori di quello che si è. Ci saranno senz’altro state innovazioni nei metodi di allenamento, e magari nella tecnica di corsa, ma i cento metri piani nel 2020, anzi nel 2021, si corrono grossomodo come si correvano alla fine dell’ottocento. Se allunghi la distanza la questione si complica, persino nei duecento dove comunque si vola entra in gioco un minimo di resistenza. Si direbbe una gara monotona, i cento metri piani, ma qualcosa succede sempre in quella decina di secondi (qualche centesimo o decimo in meno per pochissimi esseri umani sul pianeta), in quella decina di battiti del cuore di chi guarda (qualcuno in più se emozionato), anche se è difficile capire cosa. Possono esserci rimonte e colpi di scena, ma vai a capire cosa è successo davvero. Si può partire, ad esempio, e non essere il più veloce in assoluto, e avere due o tre persone davanti dopo trenta metri, ma poi recuperare e vincere in modo netto con quattro centesimi di distacco sul secondo, una testa e una spalla cioè, senza che apparentemente sia cambiato niente. Anche per questo sono incommentabili, ti lasciano senza parole, i cento metri mantengono intatto il loro mistero.

Una delle poche cose per cui potevo fare affidamento su mio padre erano le grandi gare di atletica leggera. Ma anche le piccole, a dir la verità. Negli anni in cui giocavo a calcio mi accompagnava a quasi ogni partita, ma restava al lato della tribuna, con un angolo schiacciato sul campo, a fumare una sigaretta dietro l’altra, non urlava con gli altri genitori e non chiacchierava con loro, e in macchina al ritorno non aveva mai niente da dirmi su come aveva giocato la squadra, o su come avevo giocato io. Se gli piaceva, non si capiva. Se però dovevo fare una stupida corsa campestre, o una di quelle gare tra scuole in cui io facevo il salto in alto anche se non ricordo di aver mai superato l’altezza minima dell’asticella, lui era incredibilmente presente a se stesso come era raramente presente a se stesso, pieno di consigli, per quel che servivano, e osservazioni penetranti. Durante i Giochi Olimpici estivi teneva la televisione accesa tutto il giorno, andando e venendo dalla cucina e dal tavolo del soggiorno, dove leggeva il giornale o faceva le parole crociate nei momenti di vuoto, fumando e sudando in boxer, a torso nudo, facendosi anche quattro o cinque docce per abbassare la temperatura del corpo.

Abbiamo visto pochissime partite di calcio insieme, perché non tifavamo la stessa squadra. Questa asincronia ci ha impedito di condividere quella che per me è sempre stata la passione sportiva più forte. Ma lo era per lui? Non lo so. Forse perché da un certo punto in poi ha deciso che la struttura del mondo fosse inevitabilmente ingiusta – e complottava contro di lui e quelli come lui, ma chi erano quelli come lui? – e quindi chiunque guadagnasse troppi soldi non gli piaceva, e dovunque ci fossero troppi soldi non riusciva a togliersi di dosso una maschera di diffidenza, non sospendeva la propria incredulità. C’era un livello di coinvolgimento, quando guardava il calcio o parlava di calcio, oltre il quale non riusciva ad andare. Con i Giochi Olimpici, e l’atletica in particolare, era come se togliesse quel freno interiore. Forse per questo volevo essere vicino a lui in quei giorni, a differenza di molti altri giorni. Conosceva una quantità minima di biografia degli atleti principali, ma anche su quelli che non conosceva affatto riusciva a formarsi profondissimi giudizi morali dal modo in cui saltavano e correvano. Si poteva vincere con eleganza, con forza pura, brutale, la forza del destino o della determinazione, si poteva vincere persino con furbizia, cogliendo l'opportunità, e lui capiva di cosa si trattava da come gli atleti si alzavano dopo essere caduti di culo nella vasca di sabbia, da come rallentavano dopo aver tagliato la linea del traguardo e guardavano la misura esatta della loro eccellenza negli schermi.

Gli piacevano tutte le discipline, uomini e donne, anche nel lancio del disco o del peso aveva qualcosa da tenere d’occhio, e non c’era niente che ammirasse più delle donne e degli uomini veloci. Niente come un record del mondo era in grado di impressionarlo, forse perché non c'è niente di meno discutibile, dubbio, di un record del mondo appena fatto. Il modo in cui guardava Michael Johnson, Linford Christie, Marion Jones, Marie-José Pérec o Usain Bolt non aveva niente di rapace, di predatorio, ma era il massimo della concentrazione con cui lo avessi visto guardare qualcosa, come se contemplasse il mistero stesso della velocità, e attraverso di esso, il mistero dell’eccellenza umana, la presenza-assenza di ciò che rende alcuni individui speciali, capaci di cose di cui il resto dell’umanità non sarebbe capace neanche in sogno.

Mio padre si è sempre pensato come una persona cosmopolita. Aveva la terza media ma pensava di parlare bene inglese e francese anche se le poche volte che l’ho sentito non parlava bene né l’uno né l’altro. Aveva viaggiato pochissimo in vita sua, almeno per quel che ne so io, ma parlava di Los Angeles, Londra e Parigi come se ci avesse vissuto. Questo per dire che mio padre non avrebbe saputo cosa farsene del nazionalismo che va di moda oggi, magari nelle sue versioni più soft (e che anche io, forse troppo romanista, non capisco davvero). Però conosceva i nomi e seguiva tutti gli atleti italiani migliori. Sono cresciuto col mito di Pietro Mennea e Gelindo Bordin, mi ha fatto una testa tanta con Stefano Baldini, andava pazzo per Fiona May. Durante le qualificazioni per i cento e i duecento - che fossero Giochi Olimpici, campionati mondiali o europei - sperava che gli italiani si qualificassero e prima che partissero io gli chiedevo “com’è questo?”, o “dove può arrivare questa?”. Le sue risposte erano ambigue, al tempo stesso sincere e tarate sul massimo risultato possibile che avrebbero potuto raggiungere. Se un italiano aveva un tempo che al massimo avrebbe potuto fargli superare la prima qualificazione per lui poteva strappare un posto per la finale. Eppure non l’ho mai sentito dire che si poteva ambire a una finale nei cento metri. Mai l’ho sentito parlare di medaglie nei cento metri. Se gli avessi chiesto se, secondo lui, sarebbe mai stato possibile, mi avrebbe riso in faccia. Anzi, non mi avrebbe risposto. Che era quello che faceva mio padre quando gli facevo una domanda stupida.

Purtroppo mio padre si è perso un sacco di cose. Non ha fatto in tempo a vedere, il 22 giugno 2018, Filippo Tortu scendere sotto i dieci secondi nei cento metri, primo italiano della storia. Sarebbe stato un grande momento per lui, me ne avrebbe parlato, mi avrebbe costretto ad approfondire. E si è perso anche la fulminante ascesa di Lamont Marcell Jacobs, il 1 agosto 2021, primo italiano ad arrivare a una finale olimpica nei cento metri, primo vincitore delle Olimpiadi nei cento metri. «Non possiamo chiedergli niente di più», ha detto Francesco Panetta, al commento su Eurosport, prima che cominciasse la corsa. Ci dovevamo accontentare del tempo che aveva già fatto, del record europeo battuto in semifinale con cui si era qualificato per la finale pur arrivando terzo, al limite si poteva sperare in un buon piazzamento. Mio padre, fosse stato a fianco a me, probabilmente avrebbe detto che con un po’ di fortuna ci sarebbe potuta scappare una medaglia, un bronzetto, ma sarebbe servito un mezzo miracolo. Invece abbiamo assisto a un miracolo intero, fatto e finito. Qualcosa di impensabile, di incomprensibile razionalmente, anche dopo che è accaduto. Come può un atleta italiano di quasi ventisette anni che fino allo scorso maggio non aveva mai corso sotto i dieci secondi, migliorare ancora, per tre volte, il proprio tempo (9”94, 9”84, 9”80) nel giro di pochi giorni, e proprio durante i Giochi? Come si spiega il fatto che sia un italiano il successore di Usain Bolt, addirittura con un tempo migliore di quello che Bolt aveva fatto a Rio? Soprattutto: che parole avrebbe trovato mio padre per descriverlo?

Se i cento metri contengono il mistero dei dettagli troppo piccoli perché l'occhio umano possa vederli, la finale di Tokyo 2021, che doveva tenersi nel 2020, dopo un anno e mezzo di pandemia, di sacrifici più duri del solito per gli atleti in gara, verrà ricordata come una delle più misteriose di sempre. Forse è stato Bolt ad abituarci male, a farci pensare che l'eccezionalità umana sia una cosa così visibile anche a occhio nudo, evidente al primissimo sguardo anzi, una superiorità così manifesta che si può anche ridere mentre si vince. Non posso sapere le qualità umanamente uniche che avrebbe intravisto mio padre in Marcell Jacobs, ma qualcosa mi dice che gli sarebbe piaciuto per quell’aria imperturbabile che ha mantenuto anche dopo aver camminato sulle acque. Per quel fisico che non sembra da velocista, quasi da uomo grosso, anzi, la versione michelangiolesca di uomo grosso ovviamente, e lo sguardo sereno così in contrasto con quello da duro di Fred Kerley, l’americano arrivato secondo, lui sì con un corpo che si sarebbe detto fatto per tagliare l’aria. Per quella corsa precisa e ordinata, in contrasto con il fascio di muscoli avvolto attorno alla struttura ossea di As Su, l'atleta cinese trentunenne che arrivava alla finale con il tempo migliore e una forza esplosiva spaventosa nei primi metri, ma che è arrivato ultimo dei sei che hanno corso la finale e pareva correre come se lo inseguissero delle persone armate di bastone.

Il corpo di Jacobs non è quello alieno di Bolt, il suo tronco da pugile non poggia su zampe lunghe da ragno, le sue gambe sono vere gambe, anche se lunghe, c'è comunque una tensione verso l'alto che lo fa sembrare leggero, sempre sulle punte, come se i suoi muscoli fossero fatti di panna montata. Forse è quel mento sempre alto, l'orgoglio che lo spinge da dietro come un vento a favore, a dargli un'aria nobile. E qualcosa mi dice che nel momento esatto in cui Jacobs sembra staccarsi dal tartan della pista e appoggiare le punte su un cuscinetto d’aria, più o meno dopo i primi trenta metri, fino a poco dopo i settanta, mio padre si sarebbe alzato in piedi e avrebbe detto, in leggero anticipo sui commentatori a cui parlava volentieri sopra: «Ha vinto». Poi sarebbe rimasto in piedi e, forse, avrebbe battuto le mani una volta sola, rappresentando con un suono secco tutto il suo stupore. Questo era il massimo che avrebbe potuto fare, ma sarebbe stato già qualcosa.

Sarebbe stato uno degli eventi più stupefacenti della sua vita. E mio padre ha visto Neil Armstrong mettere piede sulla luna e il Muro di Berlino cadere pezzo a pezzo. Il che dovrebbe rendere l’idea della portata dell’evento di cui stiamo parlando. Per giunta nella stessa mattinata in cui Gianmarco Tamberi ha vinto l'oro nel salto in alto e in cui Yulimar Rojas ha battuto il record del mondo nel salto triplo femminile. Mio padre ha visto l’Italia vincere due Coppe del Mondo di calcio, ha visto Maradona e persino la Lazio e la Roma vincere lo scudetto l’una dopo l’altra, ma sono sicuro che avrebbe barattato tutto per vedere un italiano vincere i cento metri piani. Ha visto la Dolce Vita al cinema, e 2001: Odissea nello Spazio. Ha ascoltato i Beatles quando sono esplosi, The Wall più o meno quando è uscito. Eppure se ci fosse arrivato (oggi avrebbe avuto quasi ottant’anni) e qualcuno glielo avesse chiesto, tra le cose più incredibili a cui aveva assistito sono certo che si sarebbe ricordato di menzionare Lamont Marcell Jacobs.

Che beffa, i primi Giochi Olimpici estivi senza di lui.

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