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15 storie assurde dalle Olimpiadi
30 lug 2021
Tokyo 2020 ci sta regalando un'infinità di aneddoti incredibili.
(articolo)
16 min
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Le Olimpiadi sono il più grande evento sportivo del mondo ma anche un'enorme fabbrica di storie. Con centinaia di atleti da ogni angolo del mondo conoscerle tutte non è facile, ma di seguito ne trovate comunque 15. Buona lettura.

La grande passione del portabandiera di Tonga per le Olimpiadi

Foto di HANNAH MCKAY / POOL / AFP

Pita Nikolas Taufatofua è comparso nelle nostre vite all’improvviso, nel 2016. Portabandiera per Tonga a Rio, si è presentato nello stadio con un gonnellino tipico dell’arcipelago e il corpo ricoperto di muscoli e olio. Era stata una rivelazione. In un contesto emotivo ed elegante, l’atleta di Tonga era sembrato un salto indietro nel tempo, come ritrovarsi in una spedizione di James Cook. Taufatofua aveva avuto quel piccolo successo virale dei social: chi lo aveva paragonato ai bronzi di Riace, chi gli aveva dato del tamarro, chi aveva sottolineato come le storie come la sua fossero il vero senso delle Olimpiadi: atleti di paesi minuscoli che sacrificano la propria vita per un ideale olimpico. Nella sua gara, Taekwondo -80 kg, era stato eliminato al primo turno, ma da un avversario di livello.

Questa cosa del partecipare alle Olimpiadi, a Taufatofua, doveva essere piaciuta parecchio. Forzando le possibilità di fare sport invernali tra le isole dell’Oceania, si era qualificato anche per i giochi invernali, nello sci di fondo, e nei -15 gradi di PyeongChang si era presentato di nuovo a petto nudo, pieno d’olio. Immaginatevi la scena: centinaia di persone imbacuccate sotto pesanti cappotti e Taufatofua mezzo nudo. Tradizione o follia?

A Tokyo Taufatofua si è ripetuto. Ancora una volta qualificato come atleta del Taekwondo, ancora una volta portabandiera. Questa volta insieme a Malia Paseka (anche lei con un vestito tradizionale) si è ripresentato col petto nudo e una quantità di olio obiettivamente eccessiva. Bello come una statua, unto come un piatto usato per il fritto all’italiana. Ma la vera storia è un altra: la passione del tongano è la canoa velocità e per cinque anni ha provato a qualificarsi in quella disciplina. A causa del lockdown però è rimasto bloccato a Brisbane e non è riuscito a qualificarsi, ripiegando sul Taekwondo. Ma Taufatofua non molla: « Il popolo di Tonga non si arrende facilmente» ha detto «e io ho portato a Tokyo la mia canoa perché magari mi concederanno una wild card. Così coronerei il sogno di disputare tre Olimpiadi gareggiando ogni volta in una disciplina diversa». Vi aggiorniamo sul risultato.


Bermuda in bermuda

Un classico.


Il momento della cerimonia d’apertura in cui non abbiamo capito cosa stesse succedendo

La cerimonia di apertura delle Olimpiadi si è svolta senza pubblico, in un’atmosfera per forza di cose ovattata che non facilitava la creazione di quel senso di spettacolarità e incanto che spesso ha accompagnato queste esibizioni. C’è stato però un momento a metà tra l’eccezionale e lo straniante, un momento che ha fatto chiedere a tutte le persone sedute alla televisione cosa stavano guardando. Erano pittogrammi umani. I pittogrammi sportivi sono immagini stilizzate che consentono di riconoscere una disciplina anche se vi trovate nel mezzo di Tokyo e tutto il resto è scritto in ideogrammi. Solitamente si trovano su un cartello, una mappa, un foglio, insomma in tutto quello che è a due dimensioni. Stavolta li abbiamo visti a tre.

La coreografia degli artisti giapponesi Masatomi Yoshida e Hitoshi Ono ci ha trascinato in uno di quei momenti virali a metà tra tik-tok e l’arte concettuale. Un’esibizione divertente e ben orchestrata in cui però l’occhio era catturato dalla presenza di queste forme antropomorfe blu, tra l’essere umano e, appunto, il pittogramma. Ecco i miei cinque preferiti:

  • Basket 3x3 (uguale al basket, ma con un cartello che recita 3x3)

  • Vela (logo della polo di uno che passava lì per caso)

  • Dressage (una cosa a metà tra il teatro delle ombre e l’origami)

  • Kata (perché mi ha ricordato il “Ragazzo dal Kimono d’oro”)

  • Triathlon, il migliore




Le Olimpiadi della moda

Uno degli hobby preferiti di noi spettatori durante la cerimonia d'apertura è quello di commentare i completi e gli abiti delle varie delegazioni. In Italia lo sappiamo bene, visto il numero di commenti sprezzanti nei confronti della strana tuta pensata da Armani per i nostri atleti, che sembravano gli spermatozoi di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso con una pizza tricolore sulla pancia. Armani, che produce i completi della delegazione italiana dal 2012, non è l'unico grande brand di moda che si è buttato nel mondo delle Olimpiadi: si può citare anche Lacoste (per la Francia), Ben Sherman (per la Gran Bretagna), Ralph Lauren (per gli Stati Uniti).

Il caso più peculiare è quello della Liberia, che si è presentata a Tokyo vestita da TELFAR, brand molto di moda fondato dal designer Telfar Clemens. Figlio di genitori liberiani scappati dalla guerra negli Stati Uniti, Clemens è salito sulla cresta dell'onda grazie alle sue borse in cuoio vegano, rese famose da Beyoncé, tra gli altri. I kit degli atleti della Liberia sono effettivamente molto stilosi e non vediamo l'ora di vederli presto in gara.


Stereotipi e disgrazie? Sì, grazie

Se Bermuda in Bermuda è un classico senza tempo dell’eleganza perfetto per presentarsi al mondo, il metodo scelto da MBC, emittente televisiva sudcoreana, di presentare i vari paesi ai suoi spettatori è stato molto più diretto e banale. Come fosse quel gioco “io ti dico una parola, tu mi dici la prima cosa che ti viene in mente”, hanno pensato di abbinare a ogni paese un elemento, ma non un elemento sportivo o particolarmente ricercato, no la prima cosa trovata su Google (immagino, non è che avevano tanti altri strumenti per accoppiare 207 paesi a 207 stereotipi). Si va dal banale Italia-pizza, al drammatico Ucraina-Chernobyl fino al curioso e non sono sicuro se buono o cattivo Romania-Dracula. In generale i sudcoreani sembravano voler essere insensibili con tutti, ma più con alcuni: per Haiti sono state usate delle proteste di strada indicando come la situazione politica sia oltremodo confusa, per la Siria è stata letta la seguente frase «Ricche risorse sotterranee, una guerra civile che dura da 10 anni». Per le Isole Marshall, hanno usato dei test nucleari. C’è da dire che non era facile trovare uno spunto per le Isole Marshall, ma insomma si poteva usare una foto del mare cristallino di quelle parti, oppure aprire Wikipedia. Il picco però forse è stato l’uso di una mappa della Cina con un puntatore su Wuhan, come a dire e non dire. Il giorno dopo si sono scusati.


La delegazione del Sudan del Sud è in Giappone da un anno e mezzo

La delegazione olimpica del Sudan del Sud è composta da cinque persone (quattro atleti e un allenatore) ed era arrivata in Giappone nel novembre del 2019 grazie a un programma di cooperazione tra i due paesi. Nel marzo dello scorso anno, come sappiamo, le Olimpiadi di Tokyo sono però state rimandate di un anno e la delegazione olimpica del Sudan del Sud è stata posta di fronte alla scelta se tornare in patria nel mezzo di una pandemia globale o rimanere in Giappone senza un orizzonte definito. Se siete arrivati fin qua avrete già capito: alla fine gli atleti sud sudanesi sono rimasti per un altro anno, grazie a una raccolta fondi dei cittadini di Maebashi, città a poco più di 100 chilometri da Tokyo che li ospita. In questi 19 mesi gli atleti sud sudanesi hanno continuato ad allenarsi, a seguire lezioni di giapponese e a competere, anche se a centinaia di chilometri di distanza dal proprio Paese. Ad aprile uno di loro, Abraham Guem, ha battuto il record nazionale sui 1500 metri in una corsa a Tokyo.


Oksana Chusovitina, highlander

Foto di LOIC VENANCE/AFP

La storia di Oksana Chusovitina è incredibile da diversi punti di vista. La ginnasta uzbeka ha 46 anni ed è alla sua ottava Olimpiade: la prima volta che si presentò ai Giochi Olimpici era il 1992, a Barcellona, non aveva nemmeno 17 anni. Nell’arco di questi quasi trent’anni ha raccolto 13 medaglie (tra Mondiali e Olimpiadi), tra cui una di argento ai Giochi Olimpici di Pechino del 2008, e rappresentato ben tre squadre diverse. Oltre all’Unione Sovietica e all’Uzbekistan, infatti, Chusovitina all’inizio degli anni 2000 ha anche rappresentato la Germania, come forma di ringraziamento per averla ospitato e aver pagato le cure per suo figlio, affetto da una forma rara di leucemia. Oggi suo figlio, Alisher, sta bene e ha 22 anni, “l’età media delle avversarie in pedana di sua madre”, come ha scritto Tiziana Scalabrin. Da anni si parla di un ritiro di Chusovitina, che però continua a rimandare. In questa Olimpiade è arrivata 14esima nel volteggio, chissà che non ci riprovi a Parigi, tra tre anni.


La seconda medaglia d’oro più giovane di sempre

E quindi, lo skate si è svenduto oppure questi Giochi Olimpici sono un’opportunità per un movimento ancora piuttosto di nicchia e fino a non troppo tempo fa mal visto? Più in profondità, lo skate è uno sport (domanda che si potrebbe estendere ad una buona percentuale delle discipline presenti a Tokyo)? Intanto, dopo le prime due competizioni sono andate e le prime due medaglie d’oro sono state vinte da due skater giapponesi. Il podio dell’evento “street” femminile è il più giovane di sempre. Di tutta la storia delle Olimpiadi. La medaglia d’oro, Momiji Nishiya, 14 anni e 330 giorni, è la seconda più giovane di sempre, dopo Marjorie Gerstring, che ha vinto nei tuffi nel 1936 ed era un paio di mesi più giovane di lei. Al secondo posto un’altra tredicenne, la brasiliana Rayssa Leal; al terzo Funa Nakayama, anche lei giapponese, che ha già compiuto sedici anni e si deve essere sentita vecchia per la prima volta in vita sua.

Lo skate, insomma, è già entrato nella storia dei Giochi Olimpici. L’età bassa delle vincitrici testimonia della forte contemporaneità di questo sport, inserito proprio per modernizzare la più nobile tra le competizioni sportive, con un futuro brillante davanti. Due estati fa, prima di compiere 12 anni, Nishiya aveva già vinto l’argento agli X Games di Minneapolis, e in ogni caso è la più giovane vincitrice di un oro olimpico nella storia del Giappone. Giusto lo scorso giugno, durante i Campionati Mondiali di skate che si sono tenuti a Roma, Nishiya era arrivata seconda (prima era arrivata la sua connazionale Aori Nishima, che a Tokyo è arrivata ultima della serie finale) e dietro di lei, sia a Roma che a Tokyo, è arrivata la brasiliana Rayssa Leal. Leal in realtà è diventata famosa - sarebbe meglio dire virale nel 2015, a sette anni cioè, con un Vine in cui saltava tre gradini vestita da fatina.

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La leggenda Tony Hawk, che ha contribuito a rendere appetibile commercialmente lo skate con i suoi videogiochi ed è a Tokyo come commentatore ha scritto su Instagram di essere sicuro che la partecipazione ai Giochi «alla fine aiuterà a far crescere lo skate a livello internazionale, mostrando la nostra passione a un pubblico che magari non l’aveva mai visto o che si era rifiutato di accettarlo».

Funa Nakayama ha commentato il suo bronzo dicendo che magari in futuro si vedranno più parchi per allenarsi in giro per il Giappone, facendo da eco alle parole di Nishimura (due volte campionessa del mondo) secondo cui è più difficile fare sport in Giappone piuttosto che negli Stati Uniti. La congiuntura di questi Giochi Olimpici può essere vitale per la crescita del movimento giapponese e, perché no, anche di altri Paesi in cui c’è ancora diffidenza, senza compromettere il potenziale controculturale di uno sport che vive anzitutto nelle strade (e nei video dei brand). Ma la vittoria di Momiji Nishiya fa pensare anche a un’altra cosa.

Guardate le sue foto, ai suoi sorrisi prima, durante e dopo aver vinto. Guardate i sorrisi con l’apparecchio di Rayssa Leal. Rispetto alle foto di altre atlete-bambine, così frequenti in alcuni sport olimpici, manca ogni elemento disturbante. Manca, voglio dire, quel sottotesto di disciplina durissima e lavoro massacrante a cui vengono sottoposte, più o meno obbligate, chissà quante bambine che poi diventano grandi competitrici. Certo, anche lo skate richiede perfezionismo ed esercizio, ma quello che si vede bene è che ancora un gioco, che è semplicemente una cosa divertente da fare. E questo è il messaggio più controculturale che si possa dare a questi Giochi Olimpici.


La professoressa che ha vinto la medaglia d’oro nel ciclismo

Foto di Michael Steele/Getty Images

La vittoria di Anna Kiesenhofer nella prova in linea di ciclismo femminile è stata talmente inaspettata che l’olandese Annemiek van Vleuten, arrivata seconda al traguardo, ha alzato le braccia al cielo pensando di aver vinto. Anna Kiesenhofer non è una professionista dal 2017, quando si è ritrovata senza contratto dopo aver vinto un’importante competizione in Catalogna, dove stava proseguendo la sua carriera accademica. Al momento insegna all’Università di Losanna (che l’ha celebrata su Twitter), ha un dottorato in matematica e ha iniziato seriamente con il ciclismo solamente nel 2014, quando i continui infortuni hanno messo fine alla sua esperienza nel triathlon e nel biathlon. Kiesenhofer era l’unico membro della squadra olimpica di ciclismo austriaca e, non essendo una professionista, non ha un allenatore. Questo, nei fatti, significa che ha curato la sua preparazione da sola. Una scelta vincente, se è vero, come si dice, che la sua expertise in matematica l’ha aiutata ad acclimatarsi al caldo eccezionale in Giappone e a calcolare al secondo il distacco dal resto del gruppo e quindi il momento migliore per partire in fuga.

Questo, però, non racconta del tutto la sua vittoria, che è stata anche quella del sacrificio e della determinazione. «Non mi sono mai svuotata così tanto di energie in tutta la mia vita», ha dichiarato dopo aver vinto. L’Austria non vinceva una medaglia nel ciclismo dal 1896 e una medaglia d’oro in qualsiasi disciplina dal 2004.


Un’atleta iraniana ha battuto l’Iran

Grazie al bronzo nella categoria -57 kg del taekwondo alle Olimpiadi di Rio del 2016, Kimia Alizadeh è stata la prima donna nella storia dell’Iran a vincere una medaglia olimpica. All’inizio del 2020, dopo aver denunciato l’oppressione sessista del regime di Teheran, Alizadeh è però scappata in Germania, dove ha ottenuto lo status di rifugiata, che gli ha permesso, oltre ad avere una vita migliore, anche di presentarsi alle Olimpiadi di Tokyo in una nuova squadra. Quelli giapponesi sono infatti i primi Giochi Olimpici a far competere una squadra di rifugiati, seppur tra mille difficoltà. La stessa Alizadeh, nonostante fosse bronzo olimpico in carica, ad esempio è dovuta partire molto in fondo al tabellone per non aver potuto viaggiare alle qualificazioni e ottenere punti che le permettessero un cammino più semplice.

Nonostante questo, il suo percorso l’ha portata fino in semifinale e al quarto posto. Le tappe più importanti sono state la vittoria agli ottavi di finale contro la campionessa britannica Jade Jones (due volte medaglia d’oro e considerata favorita per la vittoria finale) e soprattutto la simbolica vittoria nel turno precedente, contro l’atleta iraniana Nahid Kiyani. Sul tatami del Makuhari Messe, Kimia Alizadeh si è presentata con i capelli sciolti e ha battuto agilmente la sua avversaria, allenata dal suo ex allenatore. L’Iran non deve averla presa bene.


Medaglie e pasdaran

A proposito dell’Iran alle Olimpiadi. La prima medaglia d’oro iraniana a Tokyo è stata vinta nella specialità della pistola ad aria compressa da 10 metri da Javad Foroughi, un membro delle Guardiani della Rivoluzione, il corpo militare specializzato del regime di Teheran (i cosiddetti pasdaran). Anche se l’accostamento tra la disciplina e il mondo militare può farci rabbrividire, in realtà come ben sappiamo in Italia è molto comune. Foroughi in realtà è un infermiere e ha partecipato al conflitto in Siria tra il 2012 e il 2013 come membro del corpo medico dell’esercito. Con la sua vittoria, Foroughi è diventato l’atleta più vecchio ad andare a medaglia nella storia dell’Iran.


Primo oro per Bermuda, che Dio salvi la regina

L’atleta bermudiana Flora Duffy ha vinto la medaglia d’oro nel triathlon femminile. Come se non bastasse come notizia di per sé - il triathlon è una delle discipline più faticose delle Olimpiadi, praticamente si tratta di fare 1,5 km a nuoto, 40 km in bicicletta e 10 km di corsa - quello di Duffy è il primo oro di sempre per Bermuda. E sempre grazie a lei, Bermuda diventa il paese più piccolo (a livello di superficie, che è di 53,1 km²) a vincere un’oro olimpico. Ma la vera notizia non sta neanche qui, perché sul podio abbiamo scoperto che l’inno suonato per Bermuda non è altro che quello inglese. “God Save the queen” ha rimbombato nel vento e nella pioggia del parco marino di Odaiba, proprio in faccia all’atleta inglese Georgia Taylor-Brown, argento. Non è però uno screzio da triatleti: sebbene l’inno sia Hail to Bermuda, le Bermuda riconoscono God Save The Queen come loro inno ufficiale, in quanto territorio britannico d'oltremare, e questo il comitato olimpico ha scelto.


We will ROC you

Forse qualcuno l’avrà dimenticato, ma la Russia in teoria non avrebbe dovuto partecipare a queste Olimpiadi: cinque anni fa il cosiddetto rapporto McLaren, basato sulle prove fornite da Grigory Rodchenkov (ex direttore del laboratorio anti-doping di Mosca), scoperchiava il doping di Stato della Russia putiniana, condannandola alla sospensione dal CIO. Nonostante la WADA, l’agenzia mondiale anti-doping, avesse nel 2019 squalificato la Russia da tutto lo sport internazionale per quattro anni, il TAS di Losanna ha gradualmente annacquato questa decisione. La Russia ha quindi potuto presentarsi a queste Olimpiadi, ma senza simboli nazionali (quindi bandiera e inno, principalmente) e con l’obbligo di essere definita solamente dall’acronimo ROC, che teoricamente sta per Russian Olympic Committee. Questa soluzione democristiana sta portando a situazioni kafkiane, e non solo perché il comitato olimpico russo ha avuto il buon gusto di sostituire l’inno russo con una parte di un concerto per piano di Tchaikovsky. Nonostante il CIO si sia rassegnato al fatto che commentatori e altoparlanti ufficiali chiamino la squadra anche con l’appellativo “russo”, è stato invece inflessibile quando la squadra russa di nuoto sincronizzato ha richiesto di portare in gara la canzone With Russia From Love del gruppo rave russo Little Big. Il Comitato Olimpico Internazionale ha accettato, ma ha richiesto che la parola “russian” venisse tagliata dal testo. A voi che potete, invece, consigliamo di godervi la canzone per intero, che è una bomba almeno tanto quanto il video.




Mike Tyson vibes

Un pugile che prova a mordere l’orecchio dell’avversario, vi ricorda qualcosa? Youness Baalla, negli ottavi di finale dei pesi massimi del pugilato, ha provato a rimettere in scena lo storico morso di Mike Tyson senza però riuscirci. «Penso che abbia cercato di mordermi gli zigomi. Per fortuna portava il paradenti ed io ero un po' sudato. Probabilmente ha preso solo una boccata di sudore», ha dichiarato David Nyika, il suo avversario. Alla fine Baalla ha perso non solo l’appuntamento con l’arte, ma anche l’incontro.


Plastica che non doveva esserci

Foto di Rob Harris

Il cambiamento climatico è arrivato al punto di non ritorno, e non saranno alcune banane infilate in dei sacchetti di plastica a condannarci, tuttavia bisogna dire che l’idea di inserire dentro della plastica un frutto naturalmente provvisto di una protezione dal mondo esterno (verrebbe da chiamarlo un “sacchetto non di plastica”) rimane una pessima idea.


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