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2017: l’anno in cui in NBA fischiarono i passi
30 gen 2017
E niente sarebbe stato più come prima.
(articolo)
8 min
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Cleveland, OH. Interno Quicken Loans Arena. I Cavs stanno passeggiando sul velluto contro i Dallas Mavericks, all’ultima fermata di un massacrante tour a Est. Mancano una manciata di minuti alla sirena, il punteggio è ormai inchiodato e nessuna delle due squadre sembra avere la minima voglia di provare a smuoverlo. L’unico che ha ancora benzina è ovviamente LeBron James, che Tyronn Lue continua a tenere in campo nonostante la partita sia ormai decisa da tempo. Su un pigro ribaltamento di Deron Williams, James si avventa sulla sfera con un balzo felino e si lancia verso l’indifeso ferro avversario. Per risvegliare i tifosi decide di tirare indietro le lancette dell’orologio e di esibirsi in una bimane rovesciata di maestosa potenza. Come previsto il pubblico impazzisce, si alza in piedi sulle seggiole in plastica e comincia a muoversi convulsamente a favore di telecamera. Il DJ mette il nuovo pezzo di Yung Thug e il palazzetto esplode mentre sul mastodontico maxischermo le immagini di LeBron che scuote il ferro vengono mandate senza soluzione di continuità. In mezzo a tutto questo frastuono, nessuno aveva sentito il suono del fischietto che aveva interrotto l’azione prima che il Re fosse arrivato a schiacciare.

Passi.

Tony Brothers è inflessibile: LeBron ha fatto un passo in più per caricarsi meglio prima di esplodere verso la stratosfera. Il canestro viene invalidato. Cleveland vincerà la partita di 23 punti.

È il primo episodio di una serie di sfortunati eventi: la sera successiva Andrew Wiggins tenta tre volte la sua rapidissima virata al centro dell’area e per tre volte viene fermato dai fischi arbitrali. Passi. A qualche centinaio di chilometri di distanza, nel vicino stato del Wisconsin, Giannis Antetokounmpo supera facilmente il recupero del suo marcatore e, staccando appena dopo la linea del tiro libero, inchioda la palla al ferro allungando le braccia come l’Ispettore Gadget. Una giocata irreale, con i commentatori di Fox balbettano qualche elogio sconnesso, mentre dalle tribune si alza il coro “M-V-P! M-V-P!”. Il trio arbitrale però si avvicina al tavolo dei segnapunti e comincia a confabulare fitto. Nello stupore generale il canestro non viene convalidato. In un comunicato successivo gli arbitri ammettono di aver annullato il canestro di Giannis perché “Al CIS queste cose non si possono fare senza che qualcuno poi ti meni”.

Twitter esplode. Il commento più comune è che gli arbitri si siano trasformati in troll per una sera, mentre i meme rimbalzano da una parte all’altra dell’Internet. Tra le faccine che ridono sguaiatamente nasce anche una fronda che apprezza questa nuova versione degli arbitri, finalmente inflessibili nell’educare questi giovani al culto del vero basket. Un tweet molto condiviso è di Charles Barkley che recita laconico: “Le regole sono queste”.

Ma quali sono queste regole? In un’accesa puntata di First Take, Stephen A. Smith si chiede se l’NBA non sia divenuta eccessivamente un business, finendo per far infuriare “le divinità del basket”. Usa proprio questa espressione - divinità del basket - come se ci fossero delle creature soprasensibili che, sdegnate dalla commercializzazione del gioco, abbiano deciso di sfogare la loro collera trasformandola in fiato nei fischietti degli uomini a strisce. È una delle tante provocazioni dell’opinionista di ESPN, ma qualcuno comincia a crederci: gruppi di sentinelle cominciano a radunarsi ai lati di vari playground cittadini, mani intrecciate dietro la schiena e fischietto tra le labbra. Quando qualche ragazzino usa in modo non consentito il piede perno, scatta inflessibile la chiamata: PASSI.

Intanto in NBA la situazione si fa sempre più confusa. Durante una partita degli Oklahoma City Thunder, Russell Westbrook si libera grazie a un blocco cieco e vola a concludere uno spettacolare alley-oop. Per gli arbitri ci sono i margini per affibbiargli un tecnico: il playmaker non può schiacciare. A nulla valgono le proteste di coach Donovan che cerca di convincere la terna che il suo playmaker è in realtà Victor Oladipo. Anche lui pochi possessi prima era volato sopra il ferro.

Durante la sfida di cartello tra Boston Celtics e Philadelphia 76ers, ESPN inspiegabilmente trasmette la stessa partita - ma presa dai playoff del 1985. Lo share è altissimo, forse perché gran parte del pubblico si addormenta con il telecomando in mano a metà primo quarto. Inutile girarci intorno: l’aria non è tra le più salubri. Gli Indiana Pacers vengono bloccati nello spogliatoio prima di una gara casalinga perché i pantaloncini della loro tenuta di gioco sono troppo lunghi. In fretta e furia vengono tolti dalla naftalina quelli degli Hoosiers di Bob Knight.

Tutti questi funesti presagi si materializzano quando Joey Crawford, sfruttando una certa somiglianza Dick Cheney, viene nominato Segretario della Difesa e si circonda di pagine Facebook legate alla nostalgia. Comincia quella che verrà ricordata come la funesta era dei #machenesanno, un hashtag che marchia gli sventurati che si azzardano a vivere il quotidiano senza invischiarsi nell’infanzia perduta.

Le frizioni sono incandescenti, succede l’irreparabile. Su una palla recuperata Golden State si invola in contropiede e Steph Curry sceglie il passaggio no-look con il gomito per servire l’accorrente Kevin Durant. Dopo che il pallone arriva al numero 35, il due volte MVP prende direttamente la via degli spogliatoi seguito dagli occhi sbarrati degli spettatori. È stato appena espulso, avendo commesso uno dei crimini peggiori di cui un giocatore si può macchiare: ha osato imitare Jason Williams. Su Twitter l’hashtag #BimboCurry diventa immediatamente di tendenza, e lo stesso Presidente Donald Trump scrive un controverso tweet in cui lo definisce #Snowflake e #NotWhite(Chocolate)Enough. Intervistato dai giornalisti a riguardo, Curry ammette che sapeva di rischiare grosso ma che “bisognava dare un segnale”.

Per tutta risposta la Lega lo sospende per cinque gare costringendo gli Warriors a schierare in quintetto l’ologramma di Bob Cousy. In una di queste partite Draymond Green recupera il rimbalzo e parte in palleggio iniziando la transizione, ma viene fermato dall’ennesimo intervento arbitrale: non ha effettuato il passaggio d’apertura verso il suo playmaker. Green si appella alla clemenza provando a spiegare che il suo playmaker è una proiezione virtuale, ma viene portato via in manette.

Il meme di Manute The Bol nato negli oscuri antri di Reddit e 4Chan diventa improvvisamente di pubblico dominio. Quella che sembrava una semplice goliardia viene presto associata dal grido #MakeNBAGreatAgain, una presa di posizione contro la globalizzazione e la fruibilità giocosa del basket odierno. Al contrario, si auspica un ritorno a quei valori che hanno reso il basket statunitense una potenza mondiale: la working class degli specialisti e la triple post offense del maestro Tex Winter (is coming). Dietro incessanti pressioni, la Lega sceglie una franchigia a caso (i Sacramento Kings, n.d.r.) e la trasforma nei San Junipero Longtwoos, una squadra che può tesserare solo figurine con effetto 3D. Inizia anche la produzione di un blockbuster revisionista dal titolo “No Malice at the Palace”, con Clint Eastwood nel ruolo di Ron Artest.

Intanto dal Vecchio Continente cominciano ad arrivare i primi applausi, i primi consensi verso gli uomini forti al potere. In molti scoprono che i tabellini delle partite non sono riempiti nottetempo da sofisticati computer nascosti chissà dove, ma da giocatori in carne ed ossa che giocano su un differente fuso orario. Diventa così usanza tra gli over-65 sfidare le fredde notti organizzando veglioni in cui si aspetta trepidanti che la terna fischi un’infrazione per urlare tutti insieme “PASSI!” e stappare una bottiglia di Lambrusco. Inoki registra un video in cui afferma che si stava meglio prima, ma nessuno capisce bene a quale prima si riferisce.

Sui gruppi Facebook di cinquantenni nel frattempo si esulta: «Vi abbiamo tolto la pensione, i dissing e ora vi togliamo anche l’eurostep». Viene ripristinato l’All-Star Game a Charlotte perchè “questo non è uno sport da signorine”. Il Draft così come lo conosciamo viene sostituito con quello in uso durante la Guerra del Golfo, e in molti tentano di rimanere al College il più a lungo possibile. Scompaiono gli One&Done. Molti giovani per non farsi rasare a zero cominciano ad imboscarsi nei luoghi più dimenticati del continente nordamericano, costruendo una complessa rete di collegamento che viaggia attraverso Snapchat e Instagram Stories. Nella vita quotidiana si comunica con Autotune dopo che uno studio del M.I.T conferma che quelle frequenze diventano inascoltabili dopo i 60 anni.

Uno dei primi ad accorgersi che si stava creando un clima infame è J.R. Smith, che non avendo una coscienza vive in un presente continuo senza memoria e senza passato. J.R., inventandosi un infortunio fantasma, si ritira nel natio New Jersey dove organizza la prima linea di difesa: il suo sarà il primo esercito su overboard della storia, battendo di qualche mese le innovazioni di Kim Jong-un. Nel parco di Yellowstone intanto un gruppo sempre più folto si raduna attorno a strane figure aurorali vestite in pellicce di montone: nessuno sembra davvero capire le loro parole, ma tutti rimangono ipnotizzati dalla suadente ritmicità della loro arte retorica. La comunità montana che riescono a radunare resterà l’unica testimonianza di un’umanità incapace di vivere il proprio presente e che finirà per distruggere il futuro. Sui disegni rupestri che questi antenati ci lasceranno è persino possibile osservare in quale creatura mitologica riponessero ogni speranza di rinascita della razza umana.

Gli Unicorni.

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