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2019: l'anno in cui la Serie A divenne solo italiana
24 gen 2019
Gli effetti collaterali della polemica sui troppi stranieri nel campionato italiano portarono a conseguenze inaspettate.
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16 min
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Foto di Dean Mouhtaropoulos / Getty Images
(copertina) Foto di Dean Mouhtaropoulos / Getty Images
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«Troppi stranieri in campo, dalle giovanili alla Serie A, e questo è il risultato. #STOPINVASIONE e spazio ai ragazzi italiani, anche sui campi da calcio». Era stata questa la proposta di Matteo Salvini per il calcio italiano, espressa in un tweet immediatamente successivo alla sconfitta dell’Italia nella doppia sfida con la Svezia. Le sue parole si inserivano in un dibattito già caldo, partito immediatamente dopo il fischio finale, e vennero intese come l’ennesimo slogan elettorale più che come una reale possibilità per il futuro del nostro calcio. Dopotutto, seconda solo allo sciagurato Ventura, la mancanza di autarchia nei club di Serie A fu sulla bocca di tutti per qualche giorno, come peccato originale alla base dell’eliminazione degli Azzurri.

Se le parole di politici di destra erano scontate e non particolarmente significative da un punto di vista sportivo, più importante fu il fatto che anche il mondo del calcio italiano individuò il suo problema principale nei calciatori stranieri: il direttore de La Gazzetta dello Sport scrisse che «Non è solo colpa di Ventura se un torneo che mette in campo il 56% di stranieri gli ha consegnato un campionario vivente di contraddizioni», una linea di pensiero seguita da quasi tutti i giornali italiani. Lo stesso Mancini, appena insidiatosi sulla panchina dell’Italia aveva sottolineato i problemi che gli creava questa tendenza: «Nel nostro campionato sono pochi gli italiani che giocano. Mai così pochi. Ci sono giovani italiani in panchina che sono più bravi di certi stranieri che vanno in campo. La verità è che servirebbe più coraggio». Nessuno tuttavia arrivò fino al punto dell’allora allenatore della Ternana, Sandro Pochesci, secondo cui «a portare tutti questi stranieri in Italia, non c’è più un italiano che mena».

Poi il calcio prese il sopravvento, l’attenzione si spostò sul duello tra Juventus e Napoli, sulla cavalcata della Roma in Champions, sull’avanti e indietro di Bonucci e più di tutti su Cristiano Ronaldo. Il discorso sugli stranieri fu appena tangente, perché la Nazionale tornò a mostrare progressi convincenti e poi effettivamente in campo tornavano utili.

Questo almeno fino a quando non arrivarono 15 giorni di pausa dal calcio giocato a cavallo tra il 2018 e il 2019.

https://twitter.com/matteosalvinimi/status/930190915502735361

Il Ministro degli Interni approfittò dell’horror vacui nella narrazione sportiva italiana per portare la politica nel calcio o forse, ancora più astutamente, il calcio nella politica. Anche per smarcarsi dai problemi con gli ultras e dalle polemiche della Supercoppa in Arabia Saudita, il Ministro spostò tutta l’attenzione sulla salute del movimento. In una diretta su Facebook si chiese se «era mai possibile che gli stranieri in Serie A fossero più degli italiani, per non parlare delle formazioni Primavera». Srotolò il suo discorso nel dettaglio nei giorni successivi, in un tweet scrisse «Szczesny 21 presenze, Perin 4. Ora mi volete dire che il polacco è più forte? #troppistranieri».

A margine della riunione straordinaria dell’Osservatorio del Viminale, convocata per discutere dell'"emergenza ultras", tornò sull’argomento con un post su Facebook: «Tra un anno e mezzo ci sono gli Europei. Una parte della manifestazione sarà disputata nel nostro paese, sotto la mia giurisdizione. L’Italia deve competere per la vittoria, per i nostri cittadini e il loro onore. E non voglio mai più vedere i Mondiali senza la nostra presenza. Se farò qualcosa al riguardo magari qualcuno dirà che sono io il cattivo? E voi da che parte state, amici?». Per l'occasione scelse una foto di Balotelli di spalle che camminava, mentre vicino a lui Chiesa e Barella correvano.

E poi il Ministro dell’Interno fece qualcosa al riguardo. Fagocitando qualunque dubbio della FIGC e dalla Lega Calcio, forzò un cambio in corsa del regolamento: dalla prima giornata successiva alla chiusura del mercato invernale ogni squadra di Serie A e B avrebbe potuto schierare al massimo 3 stranieri in campo e 2 in panchina, che potevano entrare solo in sostituzione degli stranieri in campo. I calciatori sarebbero stati quindi divisi in Italiani e Stranieri.

Ma chi o cosa era straniero? Vennero considerato tali tutti quelli che non erano nati da almeno un genitore o un nonno o un bisnonno italiano. Questa regola rivoluzionava profondamente i campionati: a chi fece notare che - oltre ad essere una regola discriminatoria - era anche illegale, a causa della Sentenza Bosman, venne risposto che se l’Europa voleva un calcio pieno di stranieri, che se li prendesse lei.

Il giorno successivo tutti i giornali aprirono dando la notizia, ovviamente. Da destra arrivarono lodi sperticate al coraggio mostrato dal calcio italiano: su IlGiornale uscì in prima pagina un editoriale di Sallusti dal titolo Non passa lo straniero in cui la mossa del calcio italiano veniva paragonata a quella dell’Italia sul Piave, mentre tra le righe di Libero si lasciò intuire che il prossimo passo sarebbe dovuto essere quello di mettere un freno anche a tutti questi calciatori che venivano dal sud Italia (il titolo era: «Giocano troppi terroni»).

Tra chi si opponeva fermamente, il più fermo fu Il Foglio che parlò di «fascismo peggio del fascismo». Limitare il numero degli stranieri era una scelta profondamente antiliberale, totalitaria, contraria alle leggi del mercato e del buon senso. Il Sole 24 ore fece notare come anche i capitali che stavano tenendo in piedi il calcio italiano erano in parte stranieri, ma nessuno leggeva davvero il Sole 24 ore per cui nessuno ci fece troppo caso. Dopotutto, come disse qualcuno ai piani alti della FIGC: «I soldi non hanno colore». Roberto Mancini fece notare come questa regola creava il paradosso di considerare Stranieri giocatori nati o cresciuti in Italia come Balotelli e Kean; e Italiani giocatori come Kevin Lasagna che non lo erano per nulla (subito dopo dovette scusarsi dicendo che non sapeva che l’attaccante dell’Udinese fosse a tutti gli effetti italiano e che pensava fosse in realtà italoamericano).

I giornali sportivi furono invece più cauti: dopo aver soffiato sul fuoco dello straniero cattivo nel momento dell’eliminazione dell’Italia, non era facile sostenere l’esatto contrario. Inoltre questa nuova regola apriva un vivace discorso, utile a riempire pagine e vendere copie: quali stranieri andavano epurati? Quali tenuti? I giornali si riempirono di sondaggi, nei bar la gente iniziò a discutere di tattiche, punti di forza e deboli dei vari calciatori stranieri e italiani. I grafici dei campetti di Corriere dello Sport, Tuttosport e Gazzetta dello Sport si trovarono impegnati in un super lavoro per realizzare tutte le possibili opzioni che le varie squadre avrebbero potuto mettere in piedi. Allo stesso modo il mercato, fino a quel momento ristagnante, decollò.

Tutte le squadre dovettero mettersi a tavolino e studiare una strategia. I primi a pagare furono i portieri stranieri, diventati all’improvviso un lusso eccessivo. Gli unici a resistere furono Handanovic e Szczesny, che rimase il portiere di coppa della Juventus. Chi più di tutti subì il colpo fu probabilmente il Napoli, il cui 84% della rosa era composta da stranieri. Carlo Ancelotti, da uomo di mondo, non se la prese più di tanto e disse che, vabbè, avrebbero giocato l’Europa League come il campionato e il campionato come la Coppa Italia, mentre la Coppa Italia ancora non lo sapevano, avrebbero visto. Non fu dello stesso avviso De Laurentiis, che in pochi giorni vendette Allan, Milik e Callejon sostituiti da giocatori campani come Daniele Verde, Rodrigo Mandragora e Ciro Immobile, strappato a suon di milioni alla Lazio.

La Juventus - che poteva schierare come italiano Dybala, per via di una nonna nata in provincia di Napoli, ma non Kean - sentiva di aver in pugno il campionato e decise di mantenere intatta la rosa per la Champions League, facendo rientrare alcuni dei suoi 19 giovani italiani dal prestito per il campionato, che considerava comunque già vinto. Già che c'era, Agnelli sondò il terreno per Verratti, ma le richieste del PSG furono altissime e allora ripiegò sul ritorno di Marchisio. La firma di Ramsey, la cui famiglia era profondamente gallese, venne rimandata.

Le altre squadre si arrangiarono come poterono. Molte assunsero un team di genealogisti (lincenziando gli analisti) per indagare sulle origini dei propri giocatori, nella speranza di scovare bisnonni sparsi per il globo. A Bergamo, Emiliano Rigoni tornò di moda, mentre il Papu Gomez finì per essere ceduto al Sunderland; l’Inter scambiò Nainggolan con il Mudo Vazquez del Siviglia, la cui nonna paterna era di Casorate Sempione, ed ebbe la fortuna di poter schierare il suo capitano Icardi come italiano, grazie ad un bisnonno di Carmagnola, che divenne da subito l’idolo dei tifosi. La Roma poteva schierare come italiani Pastore, El Shaarawy e Fazio, ma non Perotti che se ne tornò in Argentina. Kluivert e Under furono ceduti al Man City e Man United, ma qualcuno disse che i contratti erano già stati firmati prima dell'entrata in vigore della nuova legge.

La Lazio comprò Vincenzo Grifo e Zappacosta, l’Udinese che aveva appena comprato Okaka, nato in Italia ma non da genitori italiani, prese Raggi dal Monaco e convinse Di Natale a infilare di nuovo gli scarpini; il Cagliari bloccò la cessione di Barella al Chelsea in attesa di sviluppi: un italiano giovane e forte diventava a quel punto costoso come il francobollo rarissimo Gronchi Rosa. La Fiorentina riportò a casa Cristiano Piccini dopo aver ceduto all'Arsenal Milenkovic, ma soprattutto fu la prima squadra a presentare un reclamo: avendo Giovanni Simeone fatto le scuole in Italia, non andrebbe considerato italiano?

La regola dei tre stranieri esordì nella terza giornata di ritorno del Campionato con Empoli - Chievo Verona, l’anticipo del sabato alle 15. Il Chievo, autarchico per scelta più che per costrizione, schierò solo Radovanovic tra gli stranieri, mentre Iachini dopo attenta valutazione affidò le tre caselle ad Acquah, Zajc e Silvestre (pur avendo passaporto italiano, non riuscirono a scoprire quale fosse il parente d'origine e non venne accettata la sua richiesta). Il vero banco di prova fu la partita successiva tra Napoli e Sampdoria.

Al Ministro dell’Interno, presente in tribuna, non tornarono i conti, ma gli fu fatto notare che Murru era sardo e Barreto aveva un bisnonno scappato dall’Italia. Storse il naso, ma dovette accettare una regola fortemente voluta proprio da lui. La partita non fu un granché: un gol di Mertens, entrato dalla panchina, pareggiò all’84esimo un rigore di Quagliarella, il cui rifiuto di tornare al Napoli nel mercato di gennaio aveva bloccato proprio la partenza del belga verso la Premier League.

La giornata di campionato vide il suo culmine nella sfida della domenica sera tra Roma e Milan. Venduto Higuain, per motivi non del tutto inerenti la regola degli stranieri, il Milan costruì una formazione molto conservativa, approfittando della sua base difensiva giovane e italiana. La partita finì 0-0 con poche emozioni, anche per i problemi della Roma a creare pericoli con gli esterni, non essendo riusciti a sostituire Under e Kluivert con nessuno di meglio di Parigini e Brignola.

Quello che fu subito chiaro è che in Italia nascevano soprattutto difensori. L’83% degli stranieri furono impiegati dal centrocampo in su, con l’eccezione del Parma, che anche a causa dell’indisponibilità di Gervinho, schierò una squadra per 10/11 italiana con il solo portoghese Bruno Alves a guidare la difesa. In realtà, di giovani italiani non se ne videro molti più del solito, e l’unico episodio rilevante fu l’esordio di Gianluca Gaetano nel Napoli, a cui però furono concessi solo pochi minuti.

Paradossalmente da più parti la regola fu considerata troppo morbida: un po' per i 2 cambi, un po' per tutti questi argentini con origini italiane, l’impiego di giocatori davvero italiani non era stato così massiccio come si era pensato all’inizio. La percentuale di gol segnati da giocatori nati nel nostro paese sul totale della giornata aumentò solo del 5% rispetto alla media delle altre giornate. Il Ministro disse che avrebbero valutato soluzioni migliori, ma che questo era già «un buon inizio».

Ben presto iniziarono ad accadere cose strane: Il Milan depositò in Lega dei documenti che attestavano l’esistenza di una bisnonna calabrese di Piatek, appena comprato dal Genoa tra lo stupore generale. Il giocatore polacco si fece vedere ad Acri, in provincia di Cosenza, e si disse onorato di avere origini italiane. Qualche giorno dopo fu la volta di Duvan Zapata e di un bisnonno di Campobasso emigrato in Colombia: la Lega Calcio disse che avrebbe indagato sull’autenticità dei documenti, ma che al momento erano validi e i due potevano essere schierati come italiani.

In Italia si tornò a parlare più di emigrazione che di immigrazione. Gli storici trovarono posto nei programmi sportivi, soprattutto dopo che l’Inter dimostrò che un nonno di Handanovic era di Capodistria. Qui la questione si fece più seria: Handanovic doveva essere considerato italiano o meno per le sue origini istriane? Il caso del portiere dell’Inter fu particolarmente curioso e servì a riaprire una vecchia questione dimenticata da decenni. L’estrema destra arrivò addirittura a manifestare davanti via Allegri per difendere l’italianità dell’Istria e quindi di Handanovic. La Lega diede al portiere sloveno lo status di non straniero e gli permise di giocare insieme a tre stranieri in attesa di una risposta che non sapeva a chi chiedere. Insomma, nessuno ci fece una bella figura.

La quarta giornata di ritorno vide regnare una grande confusione, con un numero sempre crescente di giocatori in cui scorreva sangue italiano. Molte squadre infatti depositarono documenti di giocatori nati tra l’Europa e il Sud America. I tifosi del Milan esposero lo striscione “Garibaldi - Mazzini - Piatek”, quelli del Bologna invece pagarono di tasca loro per dimostrare, senza successo, che Inzaghi non era italiano. Alla fine i più colpiti furono i calciatori africani o italiani di seconda generazione i cui genitori erano nati in Africa. Qualcuno fece notare che il campionato italiano più che piùitaliano stava diventando più bianco.

La questione diventò dirompente quando De Zerbi per protesta schierò Claud Adjapong insieme a 3 stranieri, da italiano quindi. L’arbitro fu costretto a non far iniziare la partita e - visto il rifiuto di De Zerbi nel cambiare la formazione titolare - a dare la sconfitta a tavolino al Sassuolo. Nato a Modena da genitori ghanesi, Adjapong era sempre vissuto a Sassuolo, ricoprendo perfettamente il ruolo di talento cresciuto in casa.

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L’allenatore del Sassuolo divenne immediatamente un trend topic, per molti era da lui che “doveva ripartire la sinistra”. Ovviamente l’allenatore subì anche insulti e minacce, ma la sua mossa fu sostanzialmente una sveglia per tutti. Ius soli e Ius sanguinis entrarono nel discorso pubblico come mai fino ad ora, ma se pochi in realtà si esposero davvero, fu Mario Balotelli a prendere la posizione più forte: «Icardi e Dybala sono italiani e io no. Non sarà perché io sono nero?»

Le parole dell’attaccante ex-Nizza, passato da poco all'Olympique Marsiglia proprio per via della regola sui 3 stranieri che aveva fatto sfumare il suo passaggio alla Lazio, furono subito tacciate di vittimismo. Il Ministro dell’Interno, per la seconda volta, gli disse di «diventare Premier o pensare a fare gol in Francia insieme a quelli come lui» e il finale ambiguo della frase fece subito il giro dell’Europa. Macron, che aveva già una relazione tesa con il governo, decise di richiamare l'ambasciatore francese a Parigi. In Premier intanto giocatori come Sterling, Pogba e Lukaku si scagliarono contro il campionato italiano e il suo razzismo.

Ma in altre parti d’Europa l’idea piacque: anche i campionati di Russia, Romania, Austria e Polonia misero il limite agli stranieri, l’Ungheria di Orban fece ancora di più, applicando la restrizione direttamente ai giocatori di colore.

A questo punto l’Europa non potè più ignorare il problema. La UEFA piegata dalle pressioni di Francia, Germania e Spagna estromise le squadre italiane e degli altri paesi che avevano messo regole per gli stranieri dalle sue competizioni per la stagione successiva. Questa mossa però ebbe l'effetto di radicalizzare le posizioni dei Paesi puniti, che organizzarono la National Pride Football Association.

In tutto ciò Salvini non fece passi indietro, anche perché la sua popolarità nei sondaggi era tornata alle stelle. In un’intervista rilasciata a Striscia la Notizia che gli consegnava un tapiro d’oro (per un’altra storia), difese con forza la sua iniziativa: «Il nostro calcio ce lo gestiamo noi. L’Europa non può venire a casa nostra per dirci chi o cosa deve farci divertire la domenica, giusto amici?». La Serie A intanto continuava tra passaporti falsi a cui nessuno faceva veramente attenzione e giovani italiani che raramente si dimostravano pronti a raccogliere un’eredità che non avevano chiesto.

La vittoria dei partiti populisti alle Europee di maggio diede un’ulteriore spinta alla nazionalizzazione dei campionati. Le nazioni europee che avevano preso parte alla NPFA, insieme a Stati Uniti e Brasile, organizzarono un torneo da disputare in contemporanea con la Champions League per la stagione 2019/20, chiamato in Italia La Lega delle Nazioni (ogni nazione ovviamente usava la sua traduzione del nome del torneo).LaLega delle Nazioni funzionava così: le Nazionali dei paesi organizzatori giocavano contro selezioni di giocatori stranieri provenienti dai vari campionati, e la prima edizione fu vinta proprio dall'Italia (qualcuno disse per favore un favore a Salvini) in finale con gli stranieri del campionato americano.

Il torneo era totalmente finanziato dai singoli Stati, sottraendo fondi qui e lì a istruzione, sanità e cultura, diventando il più ricco tra i tornei di calcio. Nei Paesi della FNPA divenne molto più importante la Nazionale del campionato - «Era ora», commentò il Ministro, a cui andarono dietro più o meno tutti i quotidiani sportivi - e questo permise alle squadre italiane di trattenere i suoi migliori giocatori, ma anche a Mancini di poter allenare la Nazionale Italiana ogni due settimane per 3-4 giorni.

Pochi mesi dopo la vittoria della prima storia Lega delle Nazioni, l'Italia si trovò a disputare l'Europeo. l'Uefa aveva provato ad escluderla, ma non aveva fatto in tempo a riorganizzarsi e si era accontentata di annunciare l'esclusione delle nazionali della NPFA a partire dall'Europeo 2024, forse pensando anche che difficilmente una tra Italia, Ungheria, Polonia e Russia avrebbe potuto vincere l'Europeo. E invece, in un clima politico sempre più ostile, un’Italia fischiata in quasi tutti gli stadi d’Europa ma affiatata come e più di qualsiasi altra Nazionale, vinse l’Europeo in finale contro la Francia, a Wembley.

La sera stessa, in un discorso a reti unificate e in diretta su Facebook fatto dalla sua camera d'albergo, il Ministro dell’Interno dichiarò l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea e la rimessa in discussione della Costituzione. «Se ci siamo riusciti con il calcio, ce la faremo anche con il resto». Dieci minuti dopo aver concluso il suo discorso postò la foto di un tupperware pieno di pasta al forno fredda: «Alla faccia degli italiani che odiano gli italiani. I prossimi di cui ci occuperemo sono loro. Siete con me amici?».

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