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Il 2020 del rugby
12 gen 2021
La questione concussion, i migliori giocatori, un aggiornamento sull'Italia e molto altro.
(articolo)
22 min
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C'è una foto, scattata subito dopo la finale di coppa del mondo di rugby del 2003, che immortala un uomo con una maglietta bianca, il numero 2 sulle spalle, la faccia stanca ma sorridente, abbracciare una signora bionda che indossa una maglia identica alla sua, ma meno sporca, meno sudata. Quella donna è la moglie di Steve Thompson, il tallonatore della nazionale inglese di rugby che ha appena battuto l'Australia grazie a un drop, un calcio di rimbalzo, messo in mezzo ai pali dal numero 10 Jonny Wilkinson, a ventuno secondi dalla fine dei tempi supplementari. Uno dei momenti più iconici nell'intera storia del rugby. Thompson era lì, in campo, eppure quell'abbraccio, quel drop, non se li ricorda.

«Nel filmato si vede la squadra sollevare il trofeo per la vittoria della Coppa del Mondo e io sono a saltellare intorno. Ma nella mia memoria non c'è nulla, niente di niente». In questa frase troviamo la sintesi di una delle questioni più delicate da gestire per il futuro del rugby, già nei prossimi dodici mesi: le concussion. Thompson l'ha pronunciata alla fine del 2020, in un'intervista al Guardian durante cui ha rivelato di soffrire, a 42 anni, di demenza a insorgenza precoce ed encefalopatia traumatica cronica, due malattie progressive degenerative del cervello causate da ripetuti traumi cranici.

Thompson, insieme ad altri nove ex giocatori (fra loro anche Alex Popham, 41 anni e 33 presenze da flanker con la nazionale gallese, e Michael Lipman, 10 caps da terza linea con la nazionale della Rosa) ha deciso di fare causa alla federazione internazionale World Rugby e alle leghe nazionali in Inghilterra e Galles. Sul tavolo non soltanto una richiesta milionaria di risarcimento, ma anche una serie di proposte concrete per garantire la sicurezza dei giocatori.

I 15 comandamenti li chiamano, linee guida che, fra le tante indicazioni, suggeriscono a World Rugby di introdurre un limite al numero annuo di sessioni di contatto in allenamento, di rendere obbligatorie le risonanze magnetiche al cervello per i giocatori e più rigidi i controlli medici successivi alle concussion subite in campo. Inoltre, vi è il suggerimento di limitare le sostituzioni possibili per ogni partita, uno degli elementi su cui la federazione internazionale sta già lavorando e che è in effetti considerato, insieme ai contatti legati alla ricezione sul gioco al piede, come uno dei passaggi sui quali bisognerà ristrutturare alcune fasi del gioco.

Ci sono due dati che, su tutti, permettono di analizzare in maniera fredda la questione delle concussion nel rugby. Il primo racconta come, nella Coppa del Mondo del 1987 si registrassero, mediamente, 94 placcaggi a partita. Trentadue anni dopo, al mondiale del 2019, la stessa rilevazione parla di 257 placcaggi per match. Senza contare, ovviamente, le mischie, le fasi di gioco a terra e tutti quei momenti in cui si sviluppa un impatto non registrato come placcaggio. E poi c'è la crescita fisica dei giocatori. Prendendo come riferimento i rugbisti di Inghilterra e Nuova Zelanda convocati in nazionale dal 1990 al 2020, si scopre come, in media, ogni giocatore pesi oggi 15-20 chili in più rispetto a 30 anni fa: 90 contro 105-110. Un incremento enorme, quasi assurdo, che ha subito un'impennata decisa a partire dal 2000 e che continua a crescere, anno dopo anno. Il risultato è un rugby più veloce, più fisico, più spettacolare, con un tempo effettivo di gioco sempre più ampio e giocatori trasformati in vere e proprie macchine da guerra, in grado di prestazioni atletiche spaventose. Ma è anche, soprattutto, un gioco in cui gli impatti diventano sempre più violenti e pericolosi. È di questo che, prima di tutto, il rugby mondiale dovrà preoccuparsi nel 2021, utilizzando la crisi pandemica come un'opportunità per implementare le misure necessarie a salvaguardare la pratica e i suoi atleti. In un periodo stranissimo, con i campionati di tutto il mondo interrotti durante la primavera scorsa, la passata stagione conclusasi solo a dicembre del 2020 e la nuova già ripartita, l'intervista di Steve Thompson, la presa di posizione coraggiosa e trasparente di uno dei giocatori più noti nella storia recente del rugby internazionale, è la notizia di rugby più importante dell'anno appena concluso, ciò da cui tutto il mondo ovale, addetti ai lavori e appassionati, deve ripartire in questo 2021.

5 momenti di rugby nel 2020 che non dimenticheremo

Il ritiro di Nigel Owens dal rugby internazionale

Ha raggiunto i 100 test match lo scorso 28 novembre, primo arbitro di sempre a riuscirci. L'ultima partita della sua straordinaria carriera ha visto la Francia asfaltare l'Italia per 36 a 5 e il leggendario fischietto gallese chiudere definitivamente il suo percorso internazionale. Resterà ad arbitrare nelle leghe inferiori gallesi e, forse, nel Pro14. Selezionato per quattro coppe del mondo, con la finale nel 2015 fra All Blacks e Australia come punto più alto, Nigel Owens ha rivoluzionato il modo di relazionarsi con i giocatori e la figura dell'arbitro fuori dal campo, con scelte coraggiose come l'ammissione pubblica di aver più volte tentato il suicidio a causa dell'ansia provocata dalla sua sessualità: è destinato a rimanere a lungo l'arbitro più amato dai tifosi di tutto il mondo e senza dubbio il miglior fischietto di sempre nella storia del rugby a XV.

Un repertorio completo di "classici Owens": dalle dettagliate spiegazioni tecniche al mitico "no need to call me Sir, I'm from West Wales".

La storica vittoria dell'Argentina contro gli All Blacks

È dai tempi della vittoria contro la Francia padrona di casa all'esordio mondiale del 2003, l'intera squadra abbracciata in lacrime durante l'inno nazionale pre-partita, che i Pumas insistono nel regalare imprese memorabili. Anzi da prima ancora, dall'incredibile pareggio per 21 a 21 con la Nuova Zelanda nel lontano novembre del 1985, Hugo Porta eletto dalla stampa miglior numero 10 del mondo a mettere a segno tutti i punti. Non si sa mai dove possano finire i Pumas, come i personaggi di un romanzo di Adolfo Bioy Casares: si ritrovano protagonisti di avvenimenti così inspiegabili, da sembrare impossibili. Impossibile, come una vittoria contro gli All Blacks, 400 giorni dopo l'ultimo test match, con un paese in lockdown da sei mesi, più di venti giocatori passati attraverso il contagio del Covid-19, settimane infinite di allenamenti a distanza, nei giardini di casa, in collegamento Zoom con lo staff tecnico. Ma l'Argentina di rugby le imprese impossibili, i miracoli, ogni tanto li compie. E così il 14 novembre scorso si è andata a prendere il primo successo della sua storia contro la Nuova Zelanda, un 25 a 15 scolpito sull'erba del Bankwest Stadium di Sydney, conquistato, in un iperbolico cortocircuito del tempo che ricorda per davvero gli immortali personaggi di Casares ne L'Invezione di Morel, ripetendo l'impresa di Hugo Porta e compagni di trentacinque anni prima. Una grande giornata dell'apertura, Nicolas Sanchez, autore, anche lui, di tutti i punti: una meta, una trasformazione, sei calci di punizione.

Non solo un'impresa da regalare alla storia, quella dei Pumas, ma una partita splendida, giocata alla morte dalla mischia argentina, sontuosa sui punti di contatto, emozionante nelle maul manovrate, trascinata dallo spirito del suo capitano Matera, che va a difendere un compagno in una scaramuccia e poi, rimbrottato dall'arbitro, risponde "non posso accettare che un avversario colpisca un mio amico, non è rispettoso, io gioco per il mio paese", e si porta la mano sullo stemma. Energia pura, un match che riconcilia con l'umanità, un po' perduta, di questo sport.

Momento culto al minuto 4:26: Matera resta in piedi, sradica un pallone da Mo'unga andato a terra dentro i 22 argentini, conquista il turnover e poi trafigge con lo sguardo, per un attimo, la sua panchina, che nel frattempo è esplosa.

Il record di caps di Alun Wyn Jones

152 partite ufficiali con addosso la casacca rossa dei Dragoni gallesi e un Sei Nazioni in arrivo di cui salterà la partenza per infortunio ma che lo vedrà, ancora una volta, in campo da capitano. Alun Wyn Jones è diventato il giocatore con più presenze internazionali nella storia del rugby il 31 ottobre del 2020, scendendo in campo contro la Scozia e superando un mostro sacro come il neozelandese Richie McCaw. A 35 anni, Wyn Jones è già una leggenda, considerato da molti colleghi il più grande giocatore gallese di sempre.

In questo video antico e sgranato di oltre dieci anni fa si vede già tutta la classe del giocatore che Wyn Jones sarebbe diventato

La favola degli Exeter Chiefs

Exeter è una bella città nella contea di Devon, un posto famoso in tutta l'Inghilterra per la sua cattedrale gotica di epoca medioevale, per l'Hog's pudding, una salsiccia di carne di maiale e pane d'avena che si mangia a colazione e, da qualche anno, per il rugby. La palla ovale a Exeter è un affare antico, risalente addirittura al 1871. Nel vecchio County Ground della città si giocò, nel 1905, la prima partita della storia della Nuova Zelanda su suolo inglese. Eppure, sino ad appena vent'anni fa, gli Exeter Chiefs giocavano in National League 1, la terza serie, e fino al 2005 hanno continuato a condividere lo stadio con il team locale di speedway, una corsa di motociclette che si corre su un tracciato terroso dalla forma ovale. D'altronde, raramente sugli spalti, per le partite dei Chiefs, si erano mai viste più di cinquecento persone, mentre le curve, durante le corse degli Exeter Falcons, si riempivano puntualmente.

La prima promozione in Premiership per la squadra del Devon arriva nel 2010, dopo una mitica battaglia finale contro Bristol. L'anno prima in panchina si è seduto Rob Baxter, uno che nel Devon ci è nato e che nell'Exeter è rimasto tutta la sua carriera: quattordici anni, di cui dieci da capitano. Baxter rivoluziona la struttura del club, investe sulle giovanili, soprattutto crea un nucleo stabile di persone che arrivano a Exeter e non se ne vanno più. Senza ingaggiare grandi nomi dall'emisfero Sud, senza la potenza economica di club come i Saracens, lo Stade Francais, i London Wasps, i Chiefs vincono il primo campionato nel 2017, poi perdono due finali consecutive e infine, nel 2020, ad appena dieci anni dalla loro promozione in Premiership, conquistano la doppietta: campioni nazionali e vincitori della Champions Cup europea, portata a casa contro i francesi del Racing 92 dopo una delle più belle partite della stagione.

Rob Baxter interrompe l'intervista e osserva innamorato la sua squadra festeggiare dopo la vittoria della Champions Cup.

Il rugby per club più spettacolare che si sia mai visto

Il Covid-19 ha congelato per mesi i campionati di tutto il mondo. I primi a tornare in campo sono stati i club della Nuova Zelanda, uno dei paesi che sembra aver meglio gestito la crisi sanitaria, con un numero bassissimo di casi e l'ultimo "picco" registrato lo scorso ottobre: 25 contagiati. Da giugno ad agosto, nell'impossibilità di viaggiare verso Australia, Argentina e Sudafrica per le restrizioni legate alla pandemia, la federazione neozelandese ha organizzato un torneo da dieci giornate, chiamato Super Rugby Aoetearoa (il nome maori della Nuova Zelanda), con le sole franchigie nazionali: Blues, Chiefs, Crusaders, Highlanders e Hurricanes. Ne è venuta fuori la competizione più spettacolare nella storia del rugby moderno per club. Partite a velocità supersonica, punti d'incontro ridotti al minimo, attacchi da ogni zona del campo. Alla fine hanno vinto i Crusaders e il torneo, che ha avuto un successo planetario, si rigiocherà ancora, da febbraio a maggio 2021.

Sono tutte incredibili, ma la numero 3 in classifica è la mia preferita, con Ngani Laumape che riceve palla, lascia sul posto Beauden Barrett e poi si schianta a tutta velocità addosso al malcapitato Otere Black. Ah, sì: c'è il pubblico in Nuova Zelanda, anche durante la pandemia.

I 5 migliori giocatori del 2020

Antoine Dupont

A 24 anni, Dupont ha giocato la stagione migliore della sua carriera, portando il Tolosa alla semifinale di Champions e guidando la giovane Francia in una serie di test match che ha riproposto i transalpini ad altissimo livello, dopo quasi dieci anni di crisi. Eletto miglior giocatore del Sei Nazioni 2020, Dupont è un mediano di mischia completo, con una grande capacità di gestione del gioco, solidità difensiva e, come ha dimostrato più volte negli ultimi mesi, gambe e tempi di inserimento che lo rendono pericolosissimo quando attacca la linea palla in mano.

Emily Scarratt

Considerata unanimemente la migliore giocatrice di rugby del mondo, in un 2020 difficile per la palla ovale femminile, con i calendari praticamente bloccati, Scarratt ha trascinato la nazionale inglese a una straordinaria vittoria del Sei Nazioni, conquistato con il secondo grande slam consecutivo. La trentenne di Leicester ha modificato il concetto tecnico del ruolo di centro nel rugby, combinando a uno straordinario concentrato di atletismo e fondamentali, una precisione al piede che ha spinto i commentatori inglesi a paragonarla a Jonny Wilkinson. L'obiettivo è vincere il mondiale di quest'anno in Nuova Zelanda e insistere nell'instancabile lavoro di promozione del rugby femminile che Scarratt porta avanti fuori dal campo.

Semi Radradra

Il trequarti figiano per molti è oggi il giocatore più influente del rugby mondiale, uno di quei pochi in grado di poter davvero spostare gli equilibri di una squadra. Alla sua prima stagione a Bristol, in arrivo dal Bordeaux, ha confermato, anche nella Premiership inglese, le sue straordinarie doti fisiche e tecniche, con la vittoria della Challenge Cup contro Tolone. Radradra è solido in difesa, intelligente nelle letture d'attacco e semplicemente incontenibile lanciato palla in mano, sia quando decide di andare sbattere diretto addosso agli avversarsi che nei casi in cui riparte debordando al largo con le sue mitiche accelerazioni curvate.

Cheslin Kolbe

Il Sudafrica non ha giocato test match nel 2020 e si è potuto ammirare il talento elettrico di Kolbe solo nelle poche giornate disputate del Top14 francese e nelle coppe europee con il Tolosa. Nonostante questo, Kolbe rimane uno dei giocatori più esaltanti in circolazione. Nessuno ha il suo cambio di passo nel rugby di oggi e a entusiasmare è anche il "formato" di questo giocatore. Con il suo metro e settantuno per settantanove chili Kolbe è uno dei pochi uomini "normali" rimasti ad alto livello che non giocano nel ruolo di mediano di mischia, una vera rarità in uno sport che si sviluppa ormai più sui chili che attraverso il talento.

Pablo Matera

Al netto delle polemiche riguardanti alcuni vecchi (e odiosi) post razzisti pubblicati sui suoi social media (per i quali è stato sospeso dalla nazionale per alcune settimane e degradato dal ruolo di capitano) Matera ha dimostrato di essere un giocatore in grado di fare la differenza, sia per carisma che per contributo tecnico: la partita vinta dall'Argentina contro la Nuova Zelanda ne è un esempio diretto e, in generale, i progressi dei Pumas degli ultimi due anni coincidono con la crescita esponenziale di questo ragazzo. Il numero 6 argentino è un flanker moderno e dominante, nel pieno della maturità rugbistica. In questo momento, nel suo ruolo, è più forte anche di mostri come Kolisi, Underhill, Hooper, Curry, rispetto ai quali ha dimostrato di avere un bagaglio di soluzioni tecniche, soprattutto in attacco, più ampio.

La meta più bella del 2020

Di tutte le segnature di questa stagione un po' strana, segnata dalla pandemia e per questo chiusa soltanto poche settimane fa, questa è la più interessante. È rarissimo, a qualsiasi livello, vedere una meta diretta subito dopo la ripresa del gioco da centrocampo. In questo caso poi, a farsi sorprendere è l'Inghilterra, con un contrattacco veloce alla prima azione del secondo tempo. Il XV di Jones sale male, scomposto, sia per la ricezione che per la difesa, ma il timing con il quale i gallesi ripartono, la velocità con cui Tompkins esce dal frontale e poi muove la palla per Navidi e da lui a Williams, prima di lanciare Tipuric sotto i pali, è straordinaria. L'azione è un movimento armonico che, per la maniera in cui la palla si sposta, per il ritmo con il quale i giocatori si sostengono e arrivano a riceverla, appare perfetto.

Tre giocatori da seguire nel 2021

Caleb Clarke

Questa ventunenne ala All Blacks è l'ennesimo talento del vivaio neozelandese, un giocatore che si era già fatto notare nel rugby a 7 e che negli ultimi mesi è definitivamente esploso, grazie a una grande stagione negli Auckland Blues che gli ha assicurato un posto in nazionale maggiore nel Tri Nations autunnale. Clarke è una miscela elettrica di potenza e fantasia, un ball carrier sontuoso, capace di cambi di ritmo adrenalinici, sviluppati attraverso un'accelerazione impressionante e un fisico, 1 metro e 89 per 107 chili, che lo rende imprendibile. Il 2021, Covid permettendo, potrebbe essere l'anno della sua ascesa a star assoluta del rugby mondiale.

Hugo Keenan

Keenan ha debuttato con l'Irlanda lo scorso ottobre, segnando due mete contro l'Italia. Il tecnico degli irlandesi, Farrell, ha deciso di dargli una chance dopo una stagione ricca di soddisfazioni con il Leinster, affidandogli la maglia che, sulla carta, sarebbe dovuta andare al naturalizzato neozelandese James Lowe. Keenan può giocare estremo o ala e alla grande velocità unisce letture sul gioco al largo mai banali, legate al suo lungo apprendistato nella nazionale irlandese di rugby a 7. Il Sei Nazioni del prossimo febbraio potrebbe consacrarlo definitivamente.

Jack Willis

Eletto miglior giocatore della Premiership inglese sia dai colleghi che dai giornalisti, oltre che rivelazione dell'anno, Willis è il più grande talento in ascesa del rugby inglese e ha collezionato due caps con la nazionale di Eddie Jones nei test autunnali. Flanker dinamico, potente, solido nelle fasi di gioco più tecniche, nell'Inghilterra ha davanti due top assoluti nel ruolo, Curry e Underhill, e c'è curiosità per capire se nel 2021 sarà in grado di scalare le gerarchie.

L'Italia

Otto sconfitte in otto partite giocate. 280 punti subiti contro gli 84 marcati. Il quattordicesimo posto nel ranking mondiale, dietro Georgia e Tonga e pochi centesimi sopra Samoa. L'addio di Sergio Parisse alla nazionale. Un nuovo allenatore, Franco Smith, subentrato ad interim e poi confermato, in attesa delle elezioni federali del prossimo marzo. Questo il 2020 dell'Italia maschile, che si conferma sostanzialmente coerente nel suo percorso ormai pluriennale di lenta regressione, incapace di agganciare in maniera definitiva il livello tecnico del tier-1 e pian piano risucchiata nei quartieri alti della categoria inferiore.

Dei segnali positivi in arrivo da questo 2020 comunque ci sono, soprattutto per quanto riguarda un ricambio dei giocatori sul quale si è lavorato troppo poco nell'ultimo decennio. Con la sospensione dei campionati in Europa, la cancellazione dei test match estivi e la compressione di tutto il calendario, club e nazionali, in autunno, c'è stata la possibilità di lanciare, senza troppe pressioni, alcuni ragazzi che costituiranno la spina dorsale del XV azzurro per molti anni. Cannone, in seconda linea, ha giocato da titolare tutti i test del 2020, mostrando carattere e importanti margini di crescita. Anche Zilocchi è stato un titolare inamovibile di Smith e una delle sorprese più interessanti dell'Italia maschile di rugby nell'anno della pandemia. Solido in mischia chiusa, con alcuni difetti da sistemare nelle fasi di gioco a terra, il ventitreenne pilone delle Zebre ha dimostrato personalità e competenza sia in difesa che come ball carrier ed è destinato a diventare un pilastro di questa squadra.

Conferme importanti sono arrivate da Polledri, che si sta imponendo come uno dei giocatori di riferimento a livello mondiale nel suo ruolo; da Mbanda, che ha dimostrato a 28 anni, libero dagli infortuni, di avere ancora tanto da dire per questa nazionale; da Minozzi, che ha giocato una stagione da protagonista con gli Swaps di Londra e fatto registrare miglioramenti straordinari dal punto di vista fisico. Bene anche la crescita di Varney, che a 19 anni si è guadagnato il primo cap con l'Italia dopo una bella stagione nei Leicester Tigers, durante cui è entrato con personalità nelle rotazioni.

Un discorso a parte lo merita Paolo Garbisi, che dopo una manciata di buone partite con il Benetton Treviso in Pro14 è stato subito lanciato titolare contro l'Irlanda, a ottobre, nel ruolo di mediano di apertura, segnando pure una splendida meta. Riconfermato contro l'Inghilterra, nella gara che ha chiuso il Sei Nazioni (Italia ultima a 0 punti) e quindi per i restanti test match dell'Autumn Cup (che ha sostituito i tradizionali incontri con le squadre dell'emisfero Sud, impossibili a causa delle restrizioni legate alla pandemia) Garbisi ha fatto vedere cose importanti, gestendo benissimo il passaggio dall'under-20 al top del rugby mondiale, avvenuto nel giro di poche settimane. Il pericolo, adesso, è quello di etichettare Garbisi come "successore di Diego Dominguez", un gioco al massacro che, da diciassette anni a questa parte, hanno dovuto subire tutti coloro i quali hanno indossato la maglia azzurra numero 10, da Wakarua a Marcato, da Botes a Pez, passando per Gower, Orquera, Bocchino, Allan, Haimona, e ce ne sarebbero altri. Se si riuscirà a far crescere Garbisi senza la pressione di dover salvare la patria, ma con l'aspettativa semplice di formare finalmente un giocatore in grado di portare a casa il minimo sindacale richiesto nel ruolo di mediano d'apertura (gestione del gioco ragionata, gioco al piede pulito, difesa attenta), allora l'Italia potrà contare su un ragazzo che promette benissimo, che ha dimostrato di poter stare da subito nel gruppo di élite e che ha margini di miglioramento, tecnico e fisico, giganteschi.

Le buone notizie, per l'Italia maschile del rugby, finiscono purtroppo qui. Smith ha cominciato a inserire bene un gruppo di giovani che ha dimostrato di potersi battere con coraggio, ma il contesto nel frattempo è cresciuto a ritmo sostenutissimo. La Francia di Galthié in autunno ha esaltato con un gioco fresco, vivace, sfrontato, e una serie di ragazzi giovani (su tutti Dupont e Ntamack ma anche Bamba, Carbonel, Jalibert, Aldritt, solo per citarne alcuni) già fra i top mondiali. Anche la Scozia sembra essersi scrollata di dosso il ruolo di eterna promessa e nella coda finale del 2020, oltre all'Italia, è andata a battere Irlanda e la stessa Francia, mostrando grande personalità e, come i transalpini, individualità straordinarie, da Adam Hastings al terza linea Jamie Ritchie, sino allo straordinario Kinghorn all'estremo. I progressi italiani, insomma, difficilmente permetteranno alla nostra squadra di alzare l'asticella delle ambizioni. All'Italia mancano, soprattutto, costanza e intensità di gioco, due caratteristiche fondamentali a questo livello e su cui bisogna ancora lavorare tantissimo. L'obiettivo, anche per il 2021, sarà quello di riuscire ad offrire prestazioni dignitose, evitando clamorose imbarcate.

La fotografia più coerente dello stato in cui versa il movimento rugbistico italiano la regala d'altronde la corsa per l'elezione alla presidenza federale del prossimo 13 marzo. Un numero record di candidati, addirittura sette, senza un favorito chiaro e con l'uscente Gavazzi che, nonostante un doppio mandato non esattamente esaltante sul piano dei risultati tecnici ed economici, ha deciso di ripresentarsi. Un tutti contro tutti dal quale, chiunque sarà il vincitore, la federazione uscirà più debole, profondamente divisa e più interessate alla battaglie di potere interne che a progettare il futuro del rugby italiano.

Qualche buona nuova, fortunatamente, arriva dal rugby femminile. La squadra italiana è stabilmente al settimo posto del ranking mondiale e si giocherà l'accesso alla coppa del mondo neozelandese del prossimo settembre in un torneo con Scozia e Irlanda, due avversarie con cui l'Italia può battersi alla pari. Si è giocato pochissimo a livello femminile nel 2020, appena quattro partite internazionali, e attendiamo quindi di rivedere in campo a febbraio il XV azzurro nel Sei Nazioni di categoria (tre partite in casa, probabilmente nella sede unica di Padova, contro Francia, Irlanda e Galles), per analizzare i progressi di tante giocatrici interessanti. Su tutte Silvia Turani, la 24enne prima linea del Grenoble che, nonostante abbia conosciuto il rugby appena cinque anni fa, è oggi una titolare inamovibile delle azzurre a pilone sinistro e si è tolta anche la soddisfazione di essere la prima italiana della storia convocata nelle Women Barbarians, la più antica e prestigiosa selezione a inviti del rugby internazionale. C'è grande curiosità per vedere l'ulteriore sviluppo di questa ragazza dopo il primo approccio con l'esperienza francese. Attenzione anche a Valeria Sgorbini, flanker pesarese che nella sua prima stagione a Clermont, nelle fila dell'ASM Romagnat, ha impressionato positivamente.

Niente male per un ragazzo di vent'anni all'esordio.

Gli eventi da non perdere nella stagione 2021

Nonostante il clima di grande incertezza legato alla pandemia in corso i Sei Nazioni femminile e maschile sono pronti a partire nella prima settimana di febbraio.

Se sul fronte delle ragazze il pronostico, scontato, vede l'Inghilterra favoritissima, fra gli uomini Francia, Scozia e Irlanda sono pronte a dare battaglia a un XV della Rosa che parte comunque leggermente davanti, soprattutto per l'enorme profondità di un gruppo giocatori che ha alternative di livello in ogni ruolo. Dietro l'Italia, che proverà a far crescere un po' di giovani cercando di fare una dignitosa figura.

Già rimandato di un anno, rischia di saltare nuovamente il tour dei British ed Irish Lions in Sudafrica. Per uno degli eventi più attesi nel mondo della palla ovale le alternative al vaglio sono un nuovo rinvio, stavolta al 2022, la prospettiva di una serie di sfide a porte chiuse (difficile venga percorsa questa opzione) o l'inversione di campo, con il Sudafrica che viaggerebbe verso il Regno Unito, nella speranza che le vaccinazioni in corso permettano, da qui a luglio, di riportare il pubblico sugli spalti.

L'incognita Covid-19 grava anche sui Giochi Olimpici, previsti dal 23 luglio al 9 agosto e che vedranno il rugby alla seconda partecipazione dopo il grande spettacolo di Rio nel 2016. L'Italia non ci sarà e a contendere il titolo ai favoritissimi figiani, campioni in carica, saranno soprattutto Nuova Zelanda e Sudafrica.

Grande attesa anche per il mondiale femminile in Nuova Zelanda, ospitato dalla detentrici Black Ferns (il soprannome delle donne All Blacks), dal 16 settembre al 16 ottobre. A meno di sorprese, la sfida più dura sarà contro l'agguerritissimo XV inglese.

Tutte partite, seppur con limitazioni di pubblico, le competizioni europee maschili per club. Le finali delle due coppe continentali, Champions e Challenge, dovrebbero giocarsi a Marsiglia il 21 e il 22 maggio. Prevista invece per la fine di marzo la finale del PRO14, il torneo in cui si sfidano franchigie gallesi, italiane, irlandesi e scozzesi. Un torneo più corto, partito il 2 ottobre scorso, per fare spazio alla Rainbow Cup, una competizione nuova di zecca in cui, dal 17 aprile al 19 giugno, divise in due gruppi da otto squadre, alle dodici franchigie europee si aggiungeranno le quattro storiche sudafricane del Super Rugby: Stormers, Bulls, Lions e Sharks.

Chiusura per i campionati di Francia e Inghilterra, che assegneranno il titolo rispettivamente il 25 e il 27 giugno. Giusto il tempo di permettere ai Lions di salire sull'aereo con destinazione Città del Capo: la prima sfida, se tutto verrà confermato, è prevista il 3 luglio, contro gli Stormers.

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