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30 anni dalla morte di Vincenzo Spagnolo
31 gen 2025
Ricordo di un momento tristissimo.
(articolo)
16 min
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Joseph Fouché, Ministro della polizia francese negli anni di Napoleone Bonaparte e poi in quelli della Restaurazione dopo la caduta dell'Impero, affermava di avere sistemi in grado di provocare, prevenire o soffocare disordini di qualsiasi specie – lo ricorda Curzio Malaparte in Tecnica del colpo di Stato – quando la tensione sociale sale e sale, come accade nelle pentole a pressione, troverà sempre una valvola di sfogo da cui sprigionarsi.

A metà anni Novanta l'Italia è ancora scossa. La classe politica che ha governato per cinquant'anni è stata cancellata da Tangentopoli, ci sono stati gli attentati e Falcone e Borsellino e il 30 gennaio 1995, a due anni e due settimane dall'arresto di Totò Riina - e a poco più di uno dalla “discesa in campo” di Berlusconi - ci si ritrova a fare i conti con una prima volta.

L'accoltellamento a morte del ventiquattrenne tifoso genoano Vincenzo Claudio Spagnolo porterà alla sospensione della gara e alla conseguente interruzione del campionato di calcio per una settimana. Non era mai successo, non risolverà nulla.

“Spagna”, per gli amici, ascoltava la ska, frequentava i centri sociali – qualcuno lo ha definito “uno skinhead di sinistra” – e al padre Cosimo la sera prima della partita ha detto: «Col Milan ci divertiremo, è un grande Genoa». Nemmeno ventiquattro ore ed era morto.

In quel periodo Romano Prodi, rivale di Berlusconi nelle future elezioni, cita spesso la vicenda di un aereo supersonico da guerra prodotto per l'Italia e la Germania negli anni Settanta. Non dava problemi finché i missili in dotazione sono raddoppiati rispetto ai quattro iniziali. Quando il numero di testate è arrivato a dodici l'aereo ha cominciato a precipitare.

La morte di Vincenzo Spagnolo è presentata come il momento catartico che dovrà portare a un cambiamento profondo e sostanziale nell'intera società civile.

I commentatori della prima ora, da Giorgio Tosatti sul Corriere della Sera a Roberto Beccantini su La Stampa fino a Mario Sconcerti e Gian Paolo Ormezzano sono tutti concordi nello stupore per quell'inedito. Non l'omicidio, diventato ormai una drammatica conseguenza di un clima sempre più teso tra le curve italiane, ma la fine anticipata della partita di Marassi e poi lo stop di una settimana al rito pagano della partita (si giocava, ancora per poco, sempre o quasi di domenica alle 14:30) che costringe centinaia di penne e migliaia di tifosi a trovarsi altro da fare. Nemmeno di fronte alla strage dell'Heysel ci si era spinti a tanto, quando lo spettacolo non si era fermato nonostante trentanove morti ancora da raccogliere da terra, lì a due passi dal campo.

“Ma serve davvero fermare il pallone?” si domanda Carlo F. Chiesa sul Guerin Sportivo. E poi via, come facevano tutti, come farò io, con l'elenco dei morti del tifo italiano. Gente dimenticata o ricordata a stento in un trafiletto, uno striscione in curva o in una manifestazione di qualche sparuta presenza davanti ai cancelli di uno stadio chiuso.

Se non si contano le vittime di stadi fatiscenti o mal costruiti, all'epoca l'elenco dei caduti non era breve: c'erano Vincenzo Paparelli, laziale trafitto in un occhio da un razzo di segnalazione il 29 ottobre 1979 appena prima dell'inizio del derby; Marco Fonghessi, tifoso milanista del cremonese scambiato per un supporter grigiorosso e accoltellato il 30 settembre 1984 fuori da San Siro per un cuscinetto dai colori “sbagliati”; Paolo Saroli, diciassettenne romanista morto calpestato e carbonizzato nell'incendio appiccato sul treno Pisa-Roma il 13 aprile 1986 da un ultrà della stessa squadra; Antonio De Falchi, altro romanista ucciso il 4 giugno 1989 a calci e pugni di nuovo fuori dai cancelli dello stadio milanese da un'orda di milanisti; Salvatore Moschella, un ventiduenne siciliano che il 31 gennaio 1994, aggredito da un gruppo di tifosi del Messina, cerca di salvarsi gettandosi dal treno e muore travolto.

Poi verrà il turno di Spagnolo, dei quattro tifosi della Salernitana morti sul treno speciale nel 1999, di Antonino Currò, dell'ispettore Filippo Raciti, di Gabriele Sandri, Ciro Esposito, Daniele Belardinelli. Tutti innocenti, violenti che se la sono cercata o semplicemente morti per nulla?

“Spagna” è finito in mezzo a un gruppo di ragazzi armati, incazzati e violenti e il milanista Simone Barbaglia, un diciottenne vestito bene che quel 29 gennaio aveva deciso di andare allo stadio con un coltello, lo ha ucciso. Di chi è la colpa? È la società?

Il Barbour costa caro. È una cerata imbottita verde scuro, con il colletto marrone a coste e l'interno in tartan usato da chi va a caccia, ma negli anni Ottanta e Novanta è un simbolo di destra; come il parka lo è per i comunisti sessantottini. Barbaglia apparteneva al “Gruppo Barbour”, più una banda che altro, che partecipava alle trasferte del Milan senza sciarpe, bandiere o maglie da calcio, così da potersi muovere liberamente senza passare dai controlli. Secondo Diego Mariottini, autore del libro Ultraviolenza – morire di tifo in Italia, il gruppo era guidato dall'allora trentunenne Carlo Giacominelli. Alias “il chirurgo”, per la consuetudine con le armi da taglio, al processo per i fatti di quella domenica ha patteggiato due anni di reclusione per rissa aggravata, ma l'accusa ha provato a incastrarlo per aver “influenzato” Barbaglia. Oggi fa il commercialista.

A Genova, come sempre, il Gruppo Barbour arriva senza farsi riconoscere, ma punta a fare un bel casino e a provocare un po' di disordine così da farsi riconoscere come gruppo emergente della curva Sud. C'è chi ha scritto che puntavano a fare qualche “taglio”, ovvero coltellate non mortali ai glutei, alle gambe o alle ginocchia, tanto per lasciare qualcuno a terra.

Il 27 gennaio il segretario del Movimento sociale italiano Gianfranco Fini aveva puntato tutto sulla cosiddetta “Svolta di Fiuggi”, chiudendo con i riferimenti ideologici del fascismo – almeno ufficialmente – ma molti giovani neofascisti avevano preso le distanze.

Il Gruppo Barbour scende alla stazione di Genova Brignole senza scorta e nei pressi dello stadio comincia la provocazione ai genoani che porta all'accoltellamento di Vincenzo Spagnolo. C'è chi dice siano una trentina, chi meno, i genoani sono una marea. Vincenzo non sarà un martire senza colpa, lo dico solo per evitare l'assurda polemica portata avanti da qualcuno contro il modo di ritrarlo della stampa, ma di certo è disarmato. Al contrario di Barbaglia.

«L’idea di farmi vedere da Carlo scappare e di dimostrargli che non avevo abbastanza coraggio mi era insopportabile… se mi fossi fermato e avessi estratto un coltello avrei dato a Carlo una dimostrazione del mio coraggio. E io, all’opinione di Carlo ci tenevo» ha raccontato ai pm Barbaglia per spiegare il suo gesto. Anche se qualcuno lo aveva sentito dire: «Domenica vado a tagliare un genoano».

Viene catturato la mattina dopo a Milano, a casa sua, e già mercoledì primo febbraio chiede perdono dal carcere con una lettera, dichiarandosi pentito. Se i media raccontano la storia di un agguato milanista ai genoani, lui cerca di fare la parte dell'aggredito, o quantomeno di quello che ha dovuto difendersi, spiegando che semmai erano stati lui e i suoi compagni a subire l’attacco.

Tutto inizia e finisce intorno alle 13:45 del 29 gennaio, alla vigilia di un Genoa-Milan nemmeno così importante dal punto di vista sportivo. I rossoneri, dopo tre scudetti di fila, sono appaiati alla Roma al quarto posto, mentre il Genoa divide con Cremonese e Padova la terzultima posizione. Ma a fine campionato manca metà stagione.

Ci fosse una logica, non servirebbe lasciarsi prendere dalla tensione, ma le dinamiche del tifo ultrà vivono di faide antiche e dai risvolti spesso oscuri a chi non appartiene a quel mondo. Così nei pressi di via Bobbio, vicinissima a Marassi, scoppiano quelli che qualsiasi giornale per bene definirebbe “tafferugli”. Le tifoserie di Genoa e Milan erano gemellate fino al 1982, quando dopo uno scontro salvezza al Ferraris i supporter rossoblù attaccarono quelli rossoneri.

Non so perché da bambino mi fossi figurato una strada buia, facce scure coperte da passamontagna, un luogo appartato velato da una coltre di fumogeni. Tutto avviene invece in uno slargo circondato da quei palazzoni moderni multipiano che deturpano la Superba sin dal dopoguerra, sotto un sole luminoso anche se è inverno.

Nei video si vedono motorini parcheggiati sul marciapiede, macchine in sosta lungo la via – quelle piccole e squadrate che si usavano trent'anni fa – e gente che cammina a passo svelto diretta allo stadio. A terra qualche pezzetto di vetro, forse provenienti dal finestrino di un'auto rotto da un ladro di autoradio, ma vengono subito identificati come “i resti dell'aggressione”. Non c'è sangue, manca l'impianto drammatico evocato nei resoconti.

Siamo a pochi passi dalla sede del Little Club, sede storica del tifo genoano, circa trecento metri dall'ingresso delle tribune, e quando uno dei capi storici della curva rossoblù Pippo Spagnolo (omonimo ma non parente della vittima) esce all'aperto per andare verso gli spalti si vede venire incontro Vincenzo, ferito a morte al ventre e con la bava alla bocca.

È stato “spanciato” si dice in gergo, con un coltello a farfalla, di quelli che si aprono e si chiudono con un gesto veloce del polso e sono facilissimi da nascondere nelle tasche profonde di un Barbour e il referto medico spiegherà con distaccata freddezza che si tratta di “uno squarcio con arma da taglio nella regione pericordeale”.

«Non lo conoscevo, ma mi ha lanciato le braccia al collo ed è crollato a terra» dichiara Pippo al Guerin Sportivo. Vincenzo ci ha messo meno di un'ora a morire all'ospedale San Martino mentre stanno provando a salvarlo con un intervento chirurgico, altri dicono non sia sopravvissuto al viaggio in ambulanza.

«La rissa la volevano tutti e due» dichiara nei giorni seguenti quello che viene definito “l'amico del killer”, tal Norman, intervistato fuori da una sala giochi di Milano da Pino Corrias per La Stampa. Ritiene quell'appellativo buono solo per gli articoli di giornale perché: «Un killer è un pazzo che ammazza la gente per lavoro». «Spagnolo era lì perché la rissa la voleva anche lui» e «se nella rissa fosse morto Simone, anche di Simone avreste scritto che era un angioletto. Tutte cazzate» rincara la dose. Sono parole perfette da gettare in pasto a un'umanità variegata che pretende vendetta. Vecchi ultrà che rimpiangono antiche scazzottate d'onore, “senza lame”, politici indignati che non hanno mai visto la violenza, articolisti esterrefatti dalla vile plebaglia e la consueta trafila di Vip, tipo Bruno Lauzi, intervistati per riempire pagine. Enzo Biagi sul Corriere della Sera allarga il tiro, puntando il dito sulla società corrotta, i violenti da stadio sono solo un granellino.

La notizia non si diffonde subito all'interno dello stadio e del brutto primo tempo giocato dalle due squadre in campo resta solo qualche immagine di repertorio. Al 38' Di Canio viene ammonito dall'arbitro Beschin per una simulazione in area e in quell'istante dalle radioline arriva la notizia dell'accoltellamento. Della morte di Vincenzo. La tv mostra le immagini dei tifosi rossoblù che “tolgono gli striscioni in segno di lutto”.

Tra i circa settecento tifosi milanisti ospiti nella “gabbia” che protegge e racchiude il settore riservato agli ospiti, “presidiata dalle forze dell'ordine”, c'è pure Barbaglia, che ha scambiato il suo Barbour verde con un impermeabile blu. I genoani cominciano ad apostrofarli al grido di “Assassini, assassini” e alcuni rispondono con un macabro, terribile “Uno di meno, voi siete uno di meno”.

Alle 15:20 i giocatori rientrano dagli spogliatoi e dagli spalti piove un po' di tutto: frutta, aste di bandiere, pezzi di porcellana divelti dai gabinetti, accendini.

Il portiere del Milan, Sebastiano Rossi, non certo uno dal carattere facile, viene bersagliato dai tifosi genoani mentre prova a raggiungere la porta e, abituato a scene simili anche in contesti più sereni, reagisce inconsapevole del morto alzando il dito medio.

Il capitano del Genoa Vincenzo Torrente viene richiamato dalla Gradinata Nord, feudo dei genoani, e ne ascolta le rimostranze. Nel caos, c'è chi urla, chi si passa la mano sul collo per far capire che qualcuno è stato ucciso e chi giunge le mani in preghiera implorando di chiuderla così. “Andiamo via! Andiamo via!” gli urlano. Si scrive che dicono pure: «Hanno ammazzato un ragazzo. L'hanno accoltellato» ma dai video non lo sento.

Torrente ha la faccia contrita, sembra quasi scocciato per la perdita di tempo più che consapevole di ciò che è successo e quando riporta il dialogo all'arbitro Beschin, un omone dai capelli impomatati all'indietro ancora in divisa total black, quello gli dice che «Bisogna bloccarli perché in questa maniera non si può andare avanti». Sicuro che l'intervento salvifico delle “forze dell'ordine” rimetterà ogni facinoroso al suo posto.

I giocatori sono stretti in sparuti capannelli, non parlano quasi e sembrano preoccupati. C'è pure Gianluca Signorini, morto di Sla nemmeno otto anni dopo, che quella domenica partiva in panchina e davanti alla telecamera fa la faccia stralunata stringendosi nel giaccone della squadra.

«Non dire niente» urla Fabio Capello a Torrente che sta tornando dai suoi tifosi per mediare, forse per chiarire meglio l'accaduto, anche perché nel frattempo qualcuno ha azionato un idrante e sta innaffiando con acqua gelata chiunque incroci il getto. Lo sanno tutti? Non lo sanno? Fanno finta di nulla? Le cronache differiscono, dai filmati non si vede.

La situazione sta degenerando. Le immagini mostrano di nuovo Capello, in cappotto nero e sciarpa rossa, vagare con le mani in tasca e gli occhi sugli spalti. Mentre i distinti si svuotano e gli ultrà delle due squadre colpiscono da un lato e dall'altro i vetri di plexiglas che separano il settore ospiti dal resto dello stadio. Calci, pugni, gestacci rivolti a qualcuno dall'altra parte, lancio di oggetti. Sembrano solo i segni di un'enorme frustrazione, di una rabbia senza scopo.

La polizia comincia a stringere il cerchio su assaliti, assalitori, gente incazzata e gli animi sono sempre più surriscaldati. “Forse c'è un altro tifoso morto” racconta qualcuno sentendo il bollettino di guerra con le radioline. Chi lascia lo stadio lo fa per scappare o perché vuole fare ancora più casino.

Baresi e Torrente si ritirano con Beschin, il presidente genoano Spinelli e l'ad del Milan Galliani in un gabbiotto nella pancia del Ferraris per discutere il da farsi e ne escono con quello che la Gazzetta definisce “un annuncio choc”. Si è rotta la quarta parete: «Non ce la sentiamo più di giocare» è il succo del messaggio. «La partita è sospesa per lutto» e il calcio, per una volta, preferisce fermarsi.

Fuori è guerriglia, con esagitati che distruggono auto in sosta, carabinieri in assetto antisommossa che corrono da una parte all'altra, scene di follia variegata con protagonisti random: in un video ho notato un uomo che sembra colpire un'auto della polizia a mano aperta perché non s'è fermata alle strisce.

I tifosi del Milan restano prigionieri dello stadio, buoni o cattivi che siano, sino alle 22:30 circa, mentre all'esterno vanno avanti le proteste, con fumogeni, fiamme ad alzarsi da qualche cassonetto incendiato e l'oscurità che ammanta tutto, rendendolo simile alle mie fantasie di bambino. Botte.

«A Genova, per l'ennesima volta, è morto il calcio» scrive un certo Ugo da Pesaro nella posta del Guerin Sportivo. Il genovese Fabio Fazio interrompe in diretta Quelli che il calcio... e abbandona lo studio con tutto il suo codazzo di strambi e commentatori, perché “È impossibile scherzare”. E il giorno dopo anche il Processo di Biscardi e Mai dire gol scelgono di non andare in onda.

Il ministro degli Interni Maroni, che presto lascerà la poltrona perché a febbraio entrerà in carica il nuovo governo di Lamberto Dini, accusa dalle pagine della Stampa: «Adesso basta, le società di calcio devono prendersi le loro responsabilità. Conoscono i violenti. Sanno quali sono i club a rischio, ma fino adesso non si sono mosse».

“Fermiamoci” titola a tutta pagina la Gazzetta: «Il calcio deve dare un segnale forte, chiudere per una domenica». È un po' lo slogan di tutti, sembra che vogliano finirla per sempre.

Pescante, presidente del Coni, fa sua la proposta ricordando, excusatio non petita, una vicenda di pochi mesi prima: «Non ho elementi per dire se gli ultimi incidenti siano diversi da quelli di novembre a Brescia, ma non mi sento di dire, come feci allora, che non era un problema del mondo dello sport». Il 20 novembre 1994, infatti, a margine di Brescia-Roma venne accoltellato (per fortuna in modo non fatale) il vicequestore della città Giovanni Selmin nelle vicinanze dello stadio Rigamonti, mentre una quindicina di poliziotti veniva ricoverata «a causa delle percosse dei tifosi romanisti che attaccarono le forze dell'ordine armati di asce, bastoni e bombe carta».

E alla fine lo stato che fa? Come direbbe il tifoso genoano Fabrizio De André, nel 1995 ancora in vita ma di cui non ho trovato interventi diretti sulla vicenda: «Si costerna, s'indigna, s'impegna, poi getta la spugna con gran dignità».

Di fronte alla morte di Vincenzo Spagnolo, la politica prima cerca di evitare il blocco delle partite per una settimana – “sono contrario allo stop” dichiara il presidente Figc Matarrese – poi si accoda alla retorica generalizzata. Il sindaco di Genova Adriano Sansa, che quando l'ho cercato su Google aveva una pagina di Wikipedia piena d'insulti ridicoli, è il più criptico: «Ho provato a fermare gli ultrà ma era impossibile». «Questa città è saggia, ma guai quando si scatena la sua ira» qualunque cosa volesse dire.

«Simone Barbaglia non voleva solo ferire, si trovava di fronte ad un uomo disarmato, quindi facilmente controllabile ed esposto in ogni zona del corpo... Ha effettuato un vero e proprio affondo, non ha nemmeno cercato di trattenere il colpo, facendo penetrare il coltello nel torace dell'antagonista per tutta la lunghezza della lama» si dichiara nei verbali del processo cercando di non far prevalere le tesi innocentiste. È uscito dal carcere delle Vallette il 14 dicembre 2006 e non se n'è più saputo molto. Ha lavorato in affidamento a Giaveno, vicino a Torino, ai servizi giardini e foreste e c'è chi dice di averlo visto in curva durante una partita della Juventus.

Il caos mediatico si protrae una decina di giorni, passa il funerale del ragazzo, con annessa polemica del prete che protesta perché s'è fatto gazzarra con curiosi accorsi solo per vedere i giocatori – «Oggi il mondo pagano ha trionfato sul sacro» – e arriva il momento del dolore straziante, furioso e impotente della famiglia. La sorella di Vincenzo commenta con amarezza in una lettera: «Dopo un giorno di lutto, la violenza ricomincerà».

Per ricordare “Spagna” hanno eretto un monumento a Marassi con un memento: “Morto per mano assassina e antisportiva”. “Vivere nel cuore di chi resta non è morire. Ciao Spagna” c'è scritto su una targa e sino al 2012 gli hanno dedicato un trofeo estivo, nei primi tre anni triangolare poi in gara singola, sospeso per le vicissitudini societarie del Genoa.

A fine stagione i rossoblù scendono in B e ci rimangono per dodici anni, così Genoa-Milan si è tornata a giocare al Ferraris solo alla prima giornata del 2007-08. I genitori di Spagnolo erano presenti, tra commozione, mazzi di fiori e saluti: «Ho perso mio figlio, ma Genoa-Milan non dovrà essere il giorno della vendetta» ha detto in quell'occasione. Ma ancora nel giugno 2023 qualcuno insudiciava il ricordo di suo figlio attaccando un cartello “Simone Babaglia (sic.) santo subito” fuori dai cancelli dello stadio prima dell'ennesima sfida tra le due squadre.

«I nostri figli continuano a morire per una partita di calcio. Ammazzati a causa di un pugno di delinquenti, con la complicità di un ambiente ipocrita che pensa solo al denaro» ha chiosato amaro a Repubblica dieci anni fa. «Doveva essere un giorno di festa, come è stato possibile?» si è chiesto.

Cosimo ha detto anche che chi ha ucciso suo figlio sono: «Piccoli gruppi di delinquenti a cui non importa niente della squadra e dei colori. Vogliono fare i loro sporchi affari». Sono parole che dovrebbero risuonare ancora più forte oggi, dopo la morte dell'interista e presunto 'ndranghetista Antonio Bellocco per un regolamento di conti e i quattro arresti del capo ultrà milanista Luca Lucci.

Il calcio il 29 gennaio si è fermato per la prima volta, poi ha ripreso a correre molto più forte. E tutto il carrozzone a rincorrere.

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