Nella nostra lista, per forza di cose, mancheranno alcuni fighter che, seppur non con lo stesso appeal nell’anno venturo rispetto ai citati, meritano almeno una menzione. 40 nomi sono al tempo stesso tanti e pochi, ma sarebbe impossibile comunque menzionare tutti i fighter di cui vorremo guardare gli incontri nel 2018. Ad esempio è rimasto fuori Marc Diakiese, peso leggero inglese dotato di uno striking davvero spettacolare (è velocissimo e fa dell’equilibrio e della coordinazione nei colpi i propri punti di forza) e che era destinato ad un incontro almeno da top 15 se non avesse prima perso contro Drakkar Klose e poi chiuso il proprio 2017 nel peggiore dei modi, subendo una ghigliottina nella sua seconda sconfitta consecutiva (e in assoluto) contro Dan Hooker.
Un altro peso leggero che stimolerà senz’altro la nostra curiosità ma è rimasto fuori classifica sarà David Teymur: fortissimo striker, con un background nella muay thai da far invidia. Ha surclassato un ottimo Lando Vannata e legittimato uno status non più di sola promessa, ma di fighter affermato. Come se non bastasse, per chiudere il 2017 in bellezza, ha strappato l’imbattibilità a un solido Drakkar Klose.
A malincuore abbiamo lasciato fuori anche alcuni dei nostri fighter preferiti, che semplicemente sulla carta non sembrano prepararsi a un grandissimo 2018. Tipo Alexander “The Mauler” Gustafsson, il martello svedese che sembra incastrato in una specie di limbo: capace di sterminare tutti coloro che tentano l’assalto alla top 3, ma incapace di sconfiggere il campione di categoria. Due match risicati contro Jones e Cormier che gli sono valsi lo status di fan favorite, ma non la cintura alla vita. Anche Cormier è rimasto fuori, penalizzato dall’assenza di Jones che lo lascia sul trono dei Light-Heavyweight senza però avere molto da chiedere al suo 2018 (tranne forse proprio un incontro con Gustafsson). Potremmo andare avanti, citando Henry Cejudo (#2 nel ranking UFC Flyeight), Jorge Masvidal, John Lineker, Yoel Romero, Jacare Souza e tutti gli altri… ma a un certo punto, anche in questa introduzione, dobbiamo fermarci.
Buona lettura.
Cristiane “Cyborg” Justino
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Sean M. Haffey / Getty Images
Chi è la donna più forte del mondo? Saranno in pochi quelli che pur seguendo le MMA non risponderanno Cris Cyborg, nome d’arte dell’artista marziale mista brasiliana Cristiane Justino Venâncio. Negli anni (combatte da più di 10) si è sbarazzata facilmente di qualsiasi avversaria le si sia parata davanti e sono davvero poche le fighter che ad oggi accetterebbero un match contro di lei.
L’ultima, pochi giorni fa, è stata Holly Holm, ex campionessa Bantamweight che ha deciso di tentare l’assalto alla cintura di campionessa dei pesi Featherweight. Cyborg per adesso conta una sola sconfitta, tra l’altro all’esordio nelle MMA, e non corre il rischio - almeno per il momento - di rovinare un record di 18 vittorie di fila (interrotto solo da un No Contest).
A macchiare la sua carriera sono state, semmai, le due violazioni delle norme anti-doping: la prima volta (fu trovata positiva allo stanozololo, un derivato sintetico del testosterone) aveva battuto Hiroko Yamanaka, e la vittoria fu tramutata in No Contest; la seconda volta invece, nel dicembre 2016, fu sospesa per un anno (in seguito le hanno riconosciuto l’uso terapeutico di una sostanza proibita in funzione del taglio del peso, e annullato retroattivamente la sospensione).
La Justino da allora viene testata regolarmente e dopo aver sconfitto Holly Holm a UFC 219 in un match entusiasmante protrattosi per tutte e cinque le riprese, con Cyborg praticamente mai in difficoltà e nettamente più potente della sua avversaria, le resta poco da dimostrare: è una striker eccezionale, che fa del volume dei colpi e della potenza la propria arma più forte, e non si è ancora trovata un’altra fighter all’altezza della sua tecnica ed esplosività.
Se non la trovate più in alto in questa classifica è proprio perché nella sua categoria di peso (che l’UFC ha creato proprio per lei) non ci sono avversarie che sembrano poter competere con lei. Anni fa si fantasticava di un incontro con Ronda Rousey, che però nel frattempo sembra aver dirottato la propria carriera verso il cinema o il wrestling; forse proprio un incontro con la fighter che ha pensionato Ronda sarebbe l’unica opzione plausibile per il 2018, la connazionale Amanda Nunes, attuale campionessa Bantamweight. In ogni caso, se il nome di Cyborg saltasse fuori in una prossima card, siamo sicuri che ci segneremo la data nell’agenda.
Jose Aldo Jr.
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Rey del Rio / Stringer
Jose Aldo non è più “il re” incontrastato dei Featherweight da quando, con una prestazione che lascia poco al commento tecnico, durata solo 13 secondi, finì vittima del gancio sinistro di Conor McGregor. Il brasiliano ha più volte parlato di ritiro dal mondo delle MMA, e la bassa frequenza degli ultimi match fa pensare che gli siano rimaste poche cartucce nel caricatore: non ha mai combattuto molto, ma gli ultimi quattro incontri sono avvenuti addirittura con cadenza annuale.
Dopo aver perso il titolo contro Max Holloway a UFC 212, nel terzo round, in un match che probabilmente lo vedeva in vantaggio ai punti, Jose Aldo si è trovato ad un bivio. L’infortunio di Frankie Edgar gli ha dato l’opportunità di giocarsi ancora una volta la cintura, ma Holloway, più fresco e atleticamente pronto, lo ha costretto ancora una volta a una brutta caduta nel terzo round. Lo stile di Aldo non si è mai davvero rinnovato, ma è riuscito comunque a fare vittime illustri fra i suoi avversari: con il suo striking vario ma ortodosso, un footwork basato su movimenti in verticale, uno stile da toccata e fuga con un’ottima velocità e grande potenza. Però non ha un ritmo forsennato e non è dotato di un cardio che gli consente di avere continuità, lacune a cui compensa con un timing spesso ineccepibile e delle combinazioni di braccia che spesso chiude con violentissimi low kick, ormai suo marchio di fabbrica.
Nonostante la cintura nera nel Brazilian Jiu Jitsu ha palesato limiti nella difesa del ground and pound, più volte, sebbene sia davvero difficile da portare a terra: i colpi più pesanti li ha subiti da Mark Hominick, nel lontano 2011, e da Holloway negli incontri di giugno e dicembre dello scorso anno.
Aldo è rimasto al confine che separa i migliori di una categoria, per un periodo limitato di tempo, da i migliori fighter di sempre, senza mai davvero convincere tutti di far parte di questa seconda categoria. Se è vero che vanta vittorie praticamente con tutti gli altri Featherweight (a volte anche doppie, come nel caso di Chad Mendes e Frankie Edgar), è anche vero che ha perso in maniera piuttosto brutale i tre match titolati contro Conor McGregor e Max Holloway.
Il 2018 di Jose Aldo è una totale incognita, visto il dominio passato in categoria: qualunque sia il suo prossimo avversario, c’è una grossa possibilità che il brasiliano lo abbia già affrontato nel suo periodo migliore. Il che significa inevitabilmente o ripetersi, o peggiorarsi.
Carlos Condit
Di Gianluca Faelutti
Foto di Getty Images
“The natural born killer” non è soltanto il titolo di un film cult degli anni Novanta, ma anche il soprannome, legittimo, di uno dei fighter più feroci, spettacolari, determinati e talentuosi che si siano mai visti in un ottagono. Lo dicono i numeri prima di tutto: delle 30 vittorie conquistate in carriera, Carlos Condit ne ha ottenute 28 prima del limite, di cui 15 attraverso i colpi e 13 mediante sottomissioni. Un fighter impetuoso, aggressivo, ma al contempo anche estremamente tecnico, aggraziato, fantasioso: un connubio di prevaricazione e bellezza, è una sintesi fra forza e audacia.
Da dove cominciare cercando di descrivere le sue qualità? Direi dalla sua Muay Thai, stellare, fatta di un altissimo ed eterogeneo volume di colpi, un’infinita varietà di calci, gomitate letali dallo stand up e un pugilato pulito e preciso fino alle soluzioni più sfrontate ed estrose come le ginocchiate volanti (sublime quella inferta a Dong Hyun Kim) oppure le gomitate girate. Schiena a terra è perfettamente a suo agio, attivissimo nella guardia attiva. Ha messo in grande difficoltà GSP dalla posizione dominate, e quando è lui ad ottenerla può fare molto male, in particolare con le gomitate.
Il 2017 è stato un anno di riflessione per lui, dopo che nel 2016 ha perso entrambi i match disputati: il primo, epico, una guerra di cinque riprese, contro Robbie Lawler (dove in molti, me compreso, pensavano che il verdetto avrebbe potuto essere differente); il secondo per sottomissione, al primo round, contro Demian Maia. L’ombra del ritiro si faceva sempre più insistente, invece, quasi sorprendentemente, Condit ha deciso di rimettersi in gioco, pur con un rientro opaco, con una sconfitta per decisione unanime contro Neil Magny.
La speranza è che torni al meglio il prossimo anno, magari senza infortuni e altri contrattempi che a quasi 34 anni potrebbero essere letali. Lo stile, l’ambizione e la passione per il combattimento di Condit fanno di lui un fighter da seguire a tutti i costi, anche se forse in carriera ha raccolto meno di quanto avrebbe meritato, il 2018 potrebbe rendergli giustizia.
Paulo Henrique Costa, detto “Borracinha” Di Gianluca Faelutti
Foto di Mike Stobe / Stringer
Ha fatto irruzione in UFC con la sua consueta spavalderia e sono stati in pochi a non accorgersi del suo avvento, Paulo Henrique Costa ha uno stile sportivamente arrogante, irruento e sfrontato. Più che attaccare, assalta, accorcia in continuazione la distanza e non smette di sferrare colpi che sfociano spesso nello scambio selvaggio. La sua intensità è sbalorditiva, così come la potenza dei colpi. È forte fisicamente, elastico (da qui deriva appunto il soprannome Borrachinha letteralmente “rondella di gomma”) e molto esplosivo.
Contro Oluwale Bangbose ha dimostrato di gestire discretamente le fasi di grappling, oltre a palesare quanto devastante possano essere i suoi middle kick e il suo ground and pound. Ha partecipato alla terza edizione brasiliana del “The Ultimate Fighter”, è imbattuto da 11 incontri e ha sempre finalizzato i suoi avversari nell’arco di due riprese, nove volte alla prima e dieci volte attraverso i colpi.
Il suo stile è molto dispendioso e potrebbe essere soggetto a qualche calo se non gli riesce di chiudere il match in tempi brevi (come, c’è da dire, gli è accaduto anche nei tre match disputati in UFC finora) e la gestione dell’energia andrà valutata più attentamente in futuro. Il 2018 ci dirà quanto legittime siano le sue ambizioni, ma vederlo combattere darà comunque una certa soddisfazione, al di là di tutto.
Gegard Mousasi
Di Daniele Manusia
Foto di Rey Del Rio / Stringer
La ragione per cui Gegard Mousasi va seguito nel 2018 è semplicemente che si tratta di uno dei migliori Middleweight al mondo. La ragione per cui invece sarà meno interessante seguirlo di quanto sarebbe potuto esserlo in condizioni “normali”, e già farlo rientrare nei primi 40 di cui vorremo vedere gli incontri è più un gesto d’affetto che altro, è che lo scorso anno per ragioni contrattuali e probabilmente anche di relazioni personali ha preferito firmare un contratto con Bellator.
Si è discusso molto della scelta di Mousasi, perché se da una parte è risaputo che l’UFC non fa il bene di tutti i fighter allo stesso modo, e che nella ridistribuzione della ricchezza delle MMA l’organizzazione mangia una fetta troppo grande della torta; dall’altra è vero anche che Gegard Mousasi ha tradito il patto implicito che ogni atleta stipula con gli appassionati, evitando il confronto con gli atleti al suo stesso livello, con gli altri Middlewight migliori al mondo. Oggi avrebbe la cintura UFC? Chi sa, in ogni caso il 2018 sembra annunciarsi come un anno estremamente per la sua categoria e lui non sarà in nessun incontro davvero importante.
A questo si è aggiunto l’esordio in Bellator andato diversamente dal previsto, con un overhand di Alexander Shlemenko che nel primo round è arrivato a segno fin troppo bene, rompendo un’orbita a Mousasi e un pollice allo stesso Shlemenko. Mousasi ha combattuto con un occhio gonfio e chiuso, mezzo cieco, per altre due riprese, vincendo con un giudizio contestatissimo. Questo dimostra che anche in Bellator il suo successo non sarà scontato, ma Mousasi dovrà per forza di cose arrivare alla cintura nel 2018 e i suoi incontri rischiano di non essere interessanti o, come quello con Shlemenko, di esserlo per le ragioni sbagliate.
“Magic” Marlon Moraes
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Ed Mulholland / Stringer
Marlon Moraes è l’ex campione WSOF (organizzazione americana che lo scorso anno si è rinominata come Professional Fighter League, con l’idea di fare un campionato annuale con torneo finale) e per 16 incontri è sembrato inarrestabile. L’unico match in cui non lo è sembrato, è quello di esordio in UFC, perso per decisione non unanime contro il forte Raphael Assunçao.
A 29 anni ha 9 KO e 5 sottomissioni all’attivo. È stato protagonista di un match molto duro e dinamico contro John Dodson, vinto davanti al pubblico di Norfolk, Virginia, l’11 dicembre 2017; bissato meno di un mese dopo dalla vittoria su Aljamain Sterling, portata a casa con una ginocchiata (fortuita, per quanto di un tempismo eccezionale) nel primo round, che corrisponde al primo KO subito in carriera da Sterling. Moraes è senz’altro una delle stelle nel firmamento dei Bantamweight ed è naturale chiedersi quale sarà il futuro dell’attuale #7 di categoria nel corso del 2018.
Fabricio “Vai Cavalo” Werdum
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Rey Del Rio / Stringer
Fabricio Werdum, ex campione Heavyweight, è giunto alla fama mondiale forse troppo tardi: nella sua lunga carriera ha sconfitto, fra gli altri, Cain Velasquez, Alistair Overeem, Minotauro Nogueira, Mark Hunt, Travis Browne, Fedor e Alexander Emelianenko, Gabriel Gonzaga, Antônio Silva e Roy Nelson. È l’unico uomo nel mondo delle MMA ad aver sconfitto entrambi i fratelli Emelianenko, ha distrutto la striscia d’imbattibilità di Fedor in soli 66 secondi, ha stupito il mondo quando dominò Cain Velasquez laureandosi campione UFC.
Per farla breve, “Vai Cavalo” è uno dei migliori Heavyweight ad aver mai calcato l’ottagono. Con un record di 11 vittorie e 4 sconfitte in UFC (nella quale ha esordito nell’aprile 2007), Werdum a 40 è un combattente completo in ogni campo. Alla Kings MMA, sotto gli occhi attenti del coach Rafael Cordeiro, Werdum si è reinventato striker e ha migliorato in maniera esponenziale la sua abilità nel clinch. Dopo la sconfitta per decisione maggioritaria contro Alistair Overeem, Werdum ha vinto due incontri consecutivi e ha chiesto un’ultima chance per tornare in possesso della cintura, che adesso appartiene a Stipe Miocic, con cui ha perso il titolo un anno e mezzo fa e che però ha già un incontro fissato con l’ultima grande rivelazione nella categoria dei massimi, Francis Ngannou.
Ed è un peccato, sia per l’esperienza di Werdum, che per la fiducia nei propri mezzi oggi ai massimi storici; anche se è stato proprio l’eccesso di fiducia nei propri mezzi a causargli brutte cadute, come quelle contro Junior dos Santos e proprio con Stipe Miocic. L’ultimo Werdum è comunque sembrato molto maturo e in ottima condizione atletica: basterà per ottenere una title shot e battere il futuro campione di categoria? Solo il 2018 potrà darci una risposta.
Marvin Vettori (ex aequo)
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Josh Edges / Zuffa LLC
Ovviamente c’è del campanilismo nelle nostre scelte, ma le MMA sono uno sport con un alto coinvolgimento e l’identificazione con un atleta che per qualche ragione ti è vicino è una componente spesso fondamentale. Marvin Vettori è probabilmente il miglior fighter che l’Italia possa offrire oggi, sia per il record costruito dalla sua chiamata in UFC (2-1-1), ma anche per quella personalità forte che divide il pubblico ma che sembra anche alimentare la crescita nell’ottagono. Vettori è molto fiducioso delle proprie capacità, che cerca di affinare con un duro lavoro in palestra (dove spesso lo si vede allenare con Fabricio Werdum, Lyoto Machida e Kelvin Gastelum), e si è dato l’obiettivo di conquistare la cintura dei Medi entro il 2019.
Per adesso quasi tutti i suoi match in UFC sono avvenuti contro avversari brasiliani: è riuscito a battere con una sottomissione Alberto Uda - cintura nera BJJ - e per decisione Vitor Miranda, mentre è stato battuto per decisione dei giudici da Antonio Carlos jr, fenomeno del BJJ e Heavyweight “mascherato” da Medio, che ha vinto la terza edizione del TUF Brazil.
Vettori ha una grande fisicità, che si traduce in “forza” più che potenza, ha mostrato grossi miglioramenti nello striking negli ultimi incontri ma è a terra che continua a far vedere le cose migliori: fantastiche transizioni portate facilmente a termine, equilibrio eccezionale, ottime sottomissioni.
Non è arrivato in UFC per caso o per fortuna, e vuole dimostrarlo. Il match contro Omari Akhmedov a UFC 219 ha messo in mostra la sua capacità di incassare e un certo spirito di abnegazione venuto fuori, probabilmente per la prima volta, nel corso del terzo round. Dopo aver subito nei primi due incontri a causa della fatica, il suo comeback contro il russo è stato furioso e gli ha permesso di arrivare a un pareggio maggioritario che, seppur frustrante, potrebbe essergli utile per continuare a crescere. In fondo, ha ancora 24 anni.
Alessio Di Chirico (ex aequo)
Di Gianluca Faelutti
A inizio 2017 Di Chirico si è trovato sull’orlo del precipizio dopo aver perso per sottomissione contro Eric Spicely, complice anche la controversa sconfitta all’esordio in UFC contro Bojan Velickovic, sebbene poi riscattata dalla vittoria su Lellan. Il match contro Bangbose di inizio dicembre, con un record parziale di 1-2, assumeva un’importanza cruciale per la sua carriera e una sconfitta avrebbe quasi sicuramente coinciso con la fine della sua esperienza in UFC. Il valore del suo avversario non veniva certo in suo aiuto e in molti in Italia pensavano avrebbe avuto la peggio. Ma avevano fatto i conti senza Di Chirico.
Di Chirico ha dimostrato di saper reggere la pressione e di avere dentro dei valori importanti; non si è lasciato irretire dall’atteggiamento esageratamente rinunciatario del suo avversario, non si è esposto all’esplosività dei suoi colpi d’incontro, ha combattuto con lucidità e determinazione cercando (più volte) e trovando nel primo round una ginocchiata al volto dal clinch. Quel suo: “Ora avete capito chi c**** siamo!”, gridato guardando in camera immediatamente dopo il TKO è un gesto che stride con i toni solitamente molto pacati che lo contraddistinguono, per questo sa davvero di liberazione.
È un fighter solido, strategico e tenace, duro mentalmente, con un gran wrestling e ottime fasi di clinch. Finalmente sembra aver trovato quella iniezione di fiducia che potrebbe portare ad una svolta nella sua carriera e nel 2018 probabilmente vedremo un Di Chirico arrembante e meno contratto di quello visto fin’ora in UFC. Il miglior Di Chirico, ne siamo certi, è quello che vedremo il prossimo anno.
Antonio Carlos Junior, detto “Cara de Sapato”
Di Gianluca Faelutti
Foto di Christian Petersen / Getty Images
“Cara de Sapato” ha partecipato e vinto il TUF brasiliano nella categoria Heavyweight, scendendo poi nei Middleweight, conservando ovviamente una fisicità che fa la differenza nella categoria inferiore. Ma è anche un fighter in grande crescita, dopo un inizio non esaltante caratterizzato da due vittorie e due sconfitte, una ai punti contro Patrick Cummins e l’altra, per TKO, contro il judoka Daniel Kelly.
Antonio Carlos Junior, che vanta un palmares di tutto rispetto nel BJJ, ha messo in fila quattro vittorie importanti sconfiggendo, in un match molto combattuto, anche il nostro Marvin Vettori, l’unica, della quattro vittime, a non essere stata sottomessa per Rear Naked Choke (7 delle sue nove vittorie in carriera sono arrivate proprio per sottomissione).
È sempre lucido nell’applicare il suo gameplan, quando si è trovato davanti fighter con un BJJ di altissimo livello come Eric Spicely ha evidenziato tutta la sua caratura. Oltre alla grande forza fisica e è apparso migliorato nelle fasi in piedi, dove può contare anche su mani pesanti. Nel 2018 potrebbe rivelarsi il vero outsider nella categoria dei pesi medi, prendetela come una scommessa….
James “The Texecutioner” Vick (12-1)
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Mike Stobe / Stringer
James Vick è uno dei prospetti più luminosi dei Lightweight, con un fisico che da solo lo rende un pericolo per qualunque avversario (191 cm d’altezza per 193 cm d’allungo). Vick ha partecipato nel 2012 al reality “The Ultimate Fighter: Live”, nel quale ha sconfitto tre avversari prima di dover cedere il passo a Michael Chiesa. Ottenuto comunque un contratto in UFC, il texano ha messo a segno 5 vittorie di fila, alcune delle sue vittime sono volti noti come Ramsey Nijem e Jake Matthews.
La sua scalata, però, ha subito un brusco contraccolpo quando è stato messo KO da Beneil Dariush. Dopo quella sconfitta, Vick si è ripreso nel migliore dei modi mettendo a segno tre vittorie importantissime contro Abel Trujillo, Marco Polo Reyes e Joseph Duffy. Il suo stile è davvero particolare: insolitamente veloce e morbido nei movimenti, nonostante le dimensioni, con un ground game e in generale un grappling eccezionali, ma sa essere altrettanto letale in fase di striking. Dallo stand-up, Vick è capace di gestire le distanze in maniera eccelsa e possiede un pugilato da far invidia a molti nella categoria.
Molto duro mentalmente, è tornato migliorato dalle sconfitte, mettendo a segno delle prestazioni in crescendo che meritano la vetrina dei Lightweight. È dotato anche di ottimo cardio e può portare il match ai punti, ma non disdegna la ricerca del colpo risolutore anche con l’avanzare delle riprese. Sarà interessante vedere, dopo la finalizzazione ottenuta ai danni di Joe Duffy chi gli metterà contro UFC, ormai certa di essere al cospetto di un talento unico, che a 31 anni è entrato nel pieno della propria maturità.
Kevin Lee
Di Gianluca Faelutti
Foto di Josh Edges / Zuffa LLC
L’ascesa di Kevin Lee fino alla sfida titolata con Tony Ferguson è stata perentoria. Si è evoluto moltissimo da quando esordì, perdendo, nel Febbraio 2014 contro Al Iaquinta. Inizialmente azzardava una sorta di “shoulder roll” applicata alle MMA, che gli donava più grazia che elusività; nel tempo è passato saggiamente ad una guardia più ortodossa e, complice anche un affinamento generale, il suo striking è apparso in costante crescita. Ma è con il wrestling che sa essere travolgente, anche opposto a BJJ di altissimo livello come quello di Michael Chiesa.
Ha perso contro Tony Ferguson facendosi sottomettere per Triangle Choke alla terza ripresa, ma ne è uscito comunque a testa alta: finchè ha avuto energie infatti è riuscito a mettere in difficoltà il campione. Le energie si sono esaurite presto, complice il taglio del peso estremo per rientrare nelle 155 libbre e un’infezione da staffilocco. Dopo quel match, Lee ha deciso di passare alla categoria superiore dei pesi Welter, una scelta più che condivisibile che però porta a chiedersi se il suo impatto fisico sarà altrettanto devastante. Il 2018 ci darà una risposta, e non è detto che non sia positiva sorprendentemente.
Cain Velasquez
Di Gianluca Faelutti
Foto di Rey Del Rio / Stringer
Non esiste un combattente più sanguinario di Cain Velasquez, forse il peso massimo più forte della Storia delle MMA, se non fosse che la sua carriera è stata costellata da gravi infortuni che ne hanno limitato l’enorme potenziale costringendolo a combattere soltanto tre match dall’Ottobre 2013.
Cain ha 13 incontri all’attivo in UFC e due sole sconfitte: la prima contro Junior Dos Santos, lavata con il sangue dalla conclusione vincente di una trilogia epica; e quella contro Fabricio Werdum, complice anche la scelta scriteriata del messicano di recarsi a Città del Messico solo pochi giorni prima del match, pagando così il mancato adattamento all’altitudine.
Velasquez ha innanzitutto un cardio stupefacente per un peso massimo, che gli consente di tenere altissima la frequenza di colpi per tutta la durata dell’incontro (va a bersaglio con la media di 6.38 colpi al minuto, un’enormità quasi da non credere per un fighter della sua categoria); inoltre il suo wrestling è devastante (ne sa qualcosa anche Brock Lesnar): ha grande facilità a trovare l’atterramento e una volta ottenuto diventa ineguagliabile per l’impeto e furia del suo ground and pound.
Ma Velasquez non è ancorato soltanto al ground game, il suo lavoro a parete e la sua “dirty boxe” lo rendono asfissiante, ed è proprio questa costante alternanza fra lavoro a parete e fasi di striking che finiscono per togliere ritmo e misura a striker migliori di lui, come è appunto accaduto a JDS, letteralmente demolito nei match che seguirono la sua prima vittoria.
Infine, Velasquez può contare su uno striking di tutto rispetto grazie ad una kickboxing solida e molto potente, caratterizzata da combinazioni di braccia talvolta fatali.
Dopo troppi infortuni, nel 2018 Velasquez potrebbe finalmente trovare un po’ di continuità, e se così fosse potrebbe davvero tornare ad essere il dominatore di un tempo: 35 anni non sono poi così tanti e se da una parte le le lunghe assenze gli hanno impedito di continuare ad accrescere la sua grandezza, lo hanno anche preservato dai colpi, e sappiamo quanto sia importante in uno sport come questo. Insomma la sua rinascita non è pura utopia.
Rory “Red King” MacDonald
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Derek Leung / Stringer
Nella jungla scacchistica che è la categoria dei Welter, ne spicca uno (per adesso fuori dalla UFC) che nella serata giusta sarebbe capace di battere chiunque. Precedentemente conosciuto come “Ares”, il dio della guerra, MacDonald ha cambiato il suo soprannome in “Red King” in occasione del leggendario e sanguinario match contro Robbie Lawler. Ha 28 anni, è canadese ed ha lasciato UFC nel 2016, dopo aver collezionato due sconfitte e, probabilmente, non aver trovato un accordo economico che lo soddisfacesse.
Nel frattempo è diventato forse l’atleta più completo in assoluto a 170 libbre ed è l’unico uomo, insieme a Jake Shields, a poter dire di aver battuto l’attuale campione di categoria in UFC, Tyron Woodley: con la differenza che la vittoria di Shields fu di misura, quella di MacDonald invece fu schiacciante in ogni suo aspetto. È persino riuscito a mettere a segno un upset incredibile su Demian Maia, dopo aver subito nelle battute iniziali. L’esordio in Bellator, nel maggio 2017, è stato strabiliante: con un dominio esagerato su un contendente più che credibile come Paul Daley, sottomesso nel corso della seconda ripresa per ottenere la title shot contro Douglas Lima, il 20 gennaio 2018.
Il jab secco che calcola la distanza e va praticamente sempre a segno, la chiusura con colpi di braccia potenti e chirurgici, MacDonald è un fighter totale: vanta 7 vittorie per KO o TKO e 7 per sottomissione in carriera. Fa della gestione delle distanze e del grappling furibondo le sue armi migliori. Non è riuscito ad imporsi contro un mago delle distanze quale è Stephen Thompson per via della strategia perfetta del karateka americano, ma ha dimostrato di poter competere e sconfiggere chiunque nella categoria, con le giuste condizioni.
Il motivo più interessante per cui Rory va tenuto d’occhio anche in Bellator è perché ha rivelato di voler vincere la cintura in più di una categoria: non quella dei Welter ma anche - fra le altre, forse - quella dei Middleweight. E lì, in teoria, potrebbe esserci ad aspettarlo un altro rimpianto UFC, Gegard Mousasi. Per un incontro di Bellator che, se mai si farà, varrà davvero come i migliori match titolati UFC.
Volkan “No Time” Oezdemir
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Sean M. Haffey / Getty Images
“I’ve got no time!”, ha detto il ventottenne svizzero Volkan Oezdemir, vera e propria rivelazione nella categoria dei Light-Heavyweight nel 2017. Il prossimo 20 gennaio affronterà il campione in carica, Daniel Cormier, per determinare chi è il migliore nella divisione delle 205 libbre. Protagonista di una rapida scalata, iniziata con la vittoria del match contro Ovince St-Preux preparato in appena una settimana a febbraio, lo svizzero ha poi battuto con due KO fulminei Misha Cirkunov e l’ex contendente Jimi Manuwa.
Dotato di grande forza fisica, potenza in clinch, esplosività nei colpi e una sorprendente velocità, Oezdemir sembra davvero il nuovo prodigio di categoria. A seguito delle vittorie da parte di Cormier contro Anthony Johnson e Alexander Gustafsson, e dopo l’allontanamento di Jon Jones, la categoria sembrava aver smarrito il suo antico splendore, ma è arrivato il giovane colosso a mischiare le carte in gioco. Con 12 finalizzazioni su 15 vittorie in carriera, Volkan promette di scioccare il mondo nel primo evento UFC numerato del 2018.
Davanti a lui una vera e propria leggenda della categoria, Daniel Cormier, fermato finora solo da Jon Jones (ma in un match che è già No Contest a causa dei problemi con l’agenzia anti-doping degli Stati Uniti). Se non abbiamo inserito DC in questa lista è solo perché una sua vittoria potrebbe uccidere definitivamente la categoria e quello con Oezdemir è il classico incontro in cui uno dei due fighter ha tutto da perdere. Ma se lo svizzero si dimostrasse all’altezza, vincendo magari la cintura, sarebbe il solitario salvatore di quel cuscinetto che separa i Middle dagli Heavyweight.
Justin “The Highlight” Gaethje
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Gregory Shamus / Getty Images
Anche Justin Gaethje, come Moraes già presente in questa classifica, è ex campione WSOF, ma nei Lightweight. Nel 2017 si è presentato in maniera a dir poco esplosiva in UFC: ha affrontato l’allora numero 5 di categoria Michael Johnson, ottenendo un KO tecnico durante la seconda ripresa in un match burrascoso, uno dei più divertenti e assurdi dell’anno; e con quell’incontro ha ottenuto la possibilità di bussare alla porta della top 3 con Eddie Alvarez, perdendo per KO una battaglia che da un certo punto di vista (il suo, a giudicare dalle dichiarazioni post-match) valgono quanto le vittorie. Dei 18 incontri vinti, ben 16 vittorie sono arrivati per finalizzazione, quella con Alvarez al momento è la sua unica sconfitta.
Evoluzione naturale del vecchio brawler, Gaethje incassa in maniera eccellente praticamente qualsiasi colpo, una qualità di cui ha fatto sfoggio nel match contro Johnson (nel quale ha guadagnato anche i premi Performance of the Night e Fight of the Night). Ha delle mani velocissime e potenti e il suo soprannome non è “The Highlight” per caso: combatte avanzando e colpendo duramente, con ganci, montanti e low kick, senza badare troppo a evitare di subire i colpi di rimessa.
Con la sua naturale predisposizione allo striking riesce ad ottenere quasi sempre posizioni vantaggiose durante gli scramble, e persino in fase di clinch. Col 74% di colpi a segno, è senz’altro un brutto cliente ad oggi per l’intera categoria. Justin Gaethje è uno street fighter prestato alle MMA, un duro della old school, anche se ha solo 29 anni. Non lo fermerà la sconfitta con Alvarez e il 2018 saprà fare luce sulle sue reali ambizioni. L’unica cosa certa è che Gaethje affronterà il suo prossimo avversario dandogli la solita, violenta accoglienza.
Zabit Magomedsharipov
Di Gianluca Faelutti
Foto di Hu Chengwei / Stringer
Ok, Zabit è sconosciuto ai più, ha combattuto soltanto due volte in UFC ed ha soltanto 26 anni, ma vale la pena segnarsi il suo nome, anche in virtù di quelle due prestazioni da lustrarsi gli occhi.
Si tratta di un fighter straordinariamente fantasioso e dinamico nelle fasi in piedi. Ha mani velocissime, un ottimo clinch di Thai dove assesta ginocchiate violente, ma varia molto anche con colpi come i calci al corpo, oppure scissor kick, spinning back kick, spinning heel kick e altri colpi girati eseguiti a velocità supersoniche. Sfrutta bene anche con il jab il suo buonissimo allungo (73”) e colpisce bene d’incontro, come ha dimostrato anche un gran montante contro Mike Santiago.
È molto aggressivo e, soprattutto, è sempre attivo, ma l’alta frequenza di colpi sembra non incidere sulla sua precisione e va a bersaglio con il 58% di questi. Qualche volta azzarda soluzioni rare, complicate e incredibilmente spettacolari, come lo “showtime kick” (omaggio a Anthony Pettis) andato di poco a vuoto sempre contro Santiago. Ma anche i colpi più strani non appaiono così pretenziosi, perché sempre accompagnati da una certa grazia e una notevole rapidità d’esecuzione.
La descrizione di uno striker così talentuoso dovrebbe concludersi elencando qualche limite più o meno rilevante a livello di grappling, invece Zabit è l’opposto, perché è essenzialmente un grappler prima di essere uno striker. L’estro del suo striking lo rende un dagestano atipico (il Dagestan è una delle più grandi fucine di grappler d’elite per le MMA, spesso però anche di fighter abbastanza monodimensionali seppure talvolta straordinariamente efficaci come è il caso di Khabib Nurmagomedov), ma Zabit ha un wrestling potente, energico e al contempo molto tecnico. È fluido nel muoversi a terra e paziente nelle fasi di stabilizzazione transizione, estremamente rapido in quelle di transizione e con una predisposizione alle sottomissioni notevole, come confermano le due ottenuti in altrettanti match in UFC.
Zabit potrebbe diventare la punta di diamante della nuova generazioni di talenti provenienti dall’Est Europa (Mirsad Becktic, Mairbek Taisumov, Bojan Velickovic etc...): per ora ha dimostrato pochissimi limiti e quasi soltanto scorci di grandezza. Certo, si attendono per lui test più attendibili e probanti, questo è chiaro, ma se ne è parlato ancora poco (in Italia di sicuro) rispetto a quanto rischiamo di sentirne parlare a breve. Se non volete arrivare troppo tardi, il 2018 è l’anno perfetto per iniziare a seguirlo.
Dominick Cruz
Di Daniele Manusia
Foto di Maddie Meyer / Getty Images
Prima dell’incontro con Cody Garbrandt, nel dicembre del 2016, Dominick Cruz era considerato come uno dei più grandi fighter pound for pound in attività, con un record di 22 vittorie e solo 2 sconfitte. Era anche considerato un fighter sfortunato, per via degli infortuni che lo avevano tenuto fermo per più anni, intaccando l’impressione di dominio assoluto che aveva dato nei incontri migliori. Un fighter che ha dominato soprattutto con l’intelligenza (quello che si chiama fight IQ) un maestro dell’elusione difensiva, con uno stile unico e anticonvenzionale, finalmente tornato a combattere con continuità e pronto a difendere la cintura contro tutto e tutti. L’incontro con Garbrandt è stato scioccante sotto tutti i punti di vista, una sconfitta tanto netta quanto inaspettata. E da allor Cruz non ha più combattuto.
Avrebbe dovuto combattere a UFC 219, lo scorso 30 dicembre, contro Jimmy Rivera (un avversario considerato da molti non alla sua altezza) ma per via di un braccio rotto il suo ritorno nell’ottagono è slittato ancora, facendogli passare tutto il 2017 senza combattere. A 33 anni Cruz ha già avviato la sua carriera di cronista e contro Garbrandt è sembrato leggermente (poco, ma quanto basta per un fighter che gioca con i millimetri come lui) rallentato nel footwork e nei movimenti di testa, senza riuscire a mettere a segno molte combinazioni pericolose. Vista l’assenza di contender nei Bantamweight che possano piacere al campione in carica TJ Dillashaw (che vorrebbe a tutti i costi un superfight con Demetrious Johnson), non è escluso che il 2018 possa essere l’anno in cui Dominick Cruz non possa tornare (via una vittoria convincente con qualcuno più in basso nel ranking) a giocarsi la cintura. Sarebbe interessante anche vedere un re-match con Garbrandt, capire le capacità di adattamento del suo cervello e scoprire magari se non si è trattato di un caso. Insomma, in ogni caso, per Dominick Cruz ci sarà da puntare la sveglia.
Joanna Jedrzejkczyk
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Mike Stobe / Stringer
Joanna Jedrzejkczyk ha affrontato due match nel 2017. Il primo a maggio, contro la durissima Jessica Andrade: match sofferto, paziente, nel quale Jedrzejkczyk ha messo a segno ben 215 colpi totali contro i soli 74 della sua avversaria. Dopo quella vittoria, proprio quando sembrava che nessuno fosse in grado di spodestare la regina della categoria Strawweight, è arrivato UFC 217, dove è stata sconfitta da Rose Namajunas, perdendo il titolo per KO. Joanna ha quindi licenziato il suo nutrizionista, accusato di averla portata in un pessimo stato di forma al peso.
Joanna Jedrzejkczyk non è una fighter comune. La sua Muay Thai eccelsa le permette di eseguire delle combinazioni lunghe e precise, con un volume di colpi eccezionale accompagnato da una difesa dei takedown efficacissima (82%). Jedrzejkczyk è una fighter completa, che è solita prendere l’iniziativa, ma che agisce benissimo anche da counterstriker. La sua comunicazione aggressiva e, in apparenza, poco umile, non piace a molti: il 2018 per Joanna sarà l’anno della rivalsa. Quello in cui dovrà dimostrare che alle parole, i campioni, fanno seguire le prestazioni nell’ottagono: perché i veri campioni sanno imparare anche dalle sconfitte più dure.
Chris Weidman
Di Gianluca Faelutti
Foto di Michael Reaves / Stringer
Chris Weidman è l’uomo che ha strappato la cintura al leggendario Anderson Silva, in quello che è stato uno dei più grandi colpi di scena che siano mai avvenuti dentro un ottagono, e che poi ha respinto il suo tentativo di riconquistarla, anche se il finale drammatico di quella notte ha tolto un po’ di dolcezza al sapore di quella vittoria.
È un wrestler di altissimo livello, bravissimo a trovare l’atterramento (ha una media di più di 4 takedown ottenuti ogni 15 minuti) e a passare la guardia fino alla full mount; ma è anche uno striker potente. In molti prospettavano un lungo dominio per lui tra i Middle, magari addirittura longevo quanto quello del suo predecessore, e le successive vittorie su Lyoto Machida e Vitor Belfort sembravano dover rafforzare queste convinzioni. Poi, improvvisamente, qualcosa si è inceppato in quella che sembrava una macchina perfetta: le sconfitte contro Luke Rockhold e Yoel Romero sono state brutali, e al contempo circostanziali. In entrambi i match il risultato era in bilico, prima che Weidman compiesse un errore fatalmente compromettente.
Nel primo caso è stato uno scriteriato spinning back kick, quando erano ormai entrambi troppo stanchi, che ha dato la possibilità a Rockhold di invertire l’inerzia dell’incontro, prendendogli la schiena e dando inizio ad un’impressionante e sanguinaria grandine di colpi. Nel secondo caso è stato un troppo ripetitivo e prevedibile one leg takedown a permettere a Romero di incrociare magistralmente con una violentissima ginocchiata volante, all’inizio della terza e ultima ripresa.
Poi è arrivata anche la terza sconfitta consecutiva, ancora una volta ad opera di un contendente di altissimo livello come a Gegard Mousasi, stavolta meno brutale, ma anche meno circostanziale. Anche se la sconfitta è arrivata solo in seguito a una ginocchiata al volto dal clinch che è stata ritenuta irregolare solo in un primo momento dall’arbitro, commutata poi in legittima dopo aver rivisto le immagini, e in seguito alla quale è stato stabilito che Weidman non potesse continuare a combattere, perdendo quindi l’incontro. Quest’ultima sconfitta è stata la più preoccupante, perché se le prima due raccontano di un Weidman non sempre in controllo e non così lucido, ma pur sempre vitale, contro Mousasi la prestazione opaca di Weidman ha palesato un calo mentale, oltre che una certa monodimensionalità tecnica.
Così, nel giro di un paio d’anni, si è passati dal domandarsi quanto sarebbe durato il suo regno, a riflettere sulla sua inarrestabile caduta. Non avevamo però fatto i conti con il cuore di un redivivo Chris Weidman che lo scorso luglio ha sconfitto con un arm-triangle choke un lanciatissimo Kelvin Gastelum, dopo aver rischiato molto nella prima ripresa. Il 2018 potrebbe essere l’anno della redenzione per Weidman che nella corsa al titolo potrebbe ancora dire la sua.
Mara Borella
Di Gianluca Faelutti
Mara Romero Borella è la prima donna italiana ad aver strappato un contratto alla federazione di MMA più importante al mondo; il suo match d’esordio, contro Kalindra Farla, è stato accettato con poco più di una settimana di preavviso (è subentrata ad Andrea Lee) e Mara, di origine hondureña, si è trovata catapultata nel giro di pochi giorni davanti ad un palazzetto gremito, a Las Vegas, nella card principale di un evento numerato UFC.
Nonostante non fosse abituata a palcoscenici di quella portata, è stata lucidissima e fredda nell’affrontare il match: ha sfruttato immediatamente l’aggressività della sua avversaria, ha trovato l’atterramento mediante un fulmineo body lock, ha stabilizzato con pazienza, poi ha passato la guardia trovando la monta e infine ha preso la schiena e con una facilità davvero impressionate ha messo a segno la rear naked-choke che gli ha regalato la vittoria.
È stato un esordio eccezionale perché oltre ad aver palesato un grappling di eccezionale fattura, ha dimostrato le qualità psicologiche di Mara che nella nuova categoria dei pesi mosca femminili potrà certamente dire la sua nella categoria Flyweight nuova di zecca (al momento è in posizione #9). Ancora più eccezionale se si pensa che Mara, come ha raccontato in un’intervista, ha scoperto le MMA pochissimi anni fa. Il 2018 sarà l’anno della sua possibile conferma ad alto livello per lei, e noi non possiamo non seguirla con interesse e partecipazione, considerando anche quanto le MMA siano ancora ghettizzate in Italia e quanti pregiudizi ci siano sui combattimenti tra donne. Il prossimo 27 gennaio combatterà contro Katlyn Chookagian.
Stephen Thompson
Di Gianluca Faelutti
Foto di Steve Marcus / Stringer
Guardia fortemente verticale ereditata da un background di altissimo livello nel taekwondo, colpi d’incontro eccezionali, un gioco di gambe rapidissimo con cui entra ed esce dalla guardia avversaria e una varietà incredibili di calci uno più sublime dell’altro.
La velocità, la perfezione tecnica delle esecuzioni di Stephen Thompson, abbinate all’incredibile fantasia e a delle leve notevolmente lunghe, lo rendono probabilmente, con Edson Barboza, il fighter con i migliori calci di tutto il roster UFC.
Thompson ama combattere da counterstriker e lasciare che sia l’avversario a prendere l’iniziativa (non è un caso che abbia sofferto più di tutti proprio il campione Tyroon Woodley, che come lui ama attendere e cercare il colpo d’incontro). Rory MacDonald, Johny Hendricks, Jorge Masvidal, sono alcune delle vittime di quello che è un autentico fenomeno, un fighter sempre molto complesso da affrontare perché difficile da colpire grazie al suo dinamismo e alla sua perfetta gestione delle distanze (una qualità da karateka che condivide soprattutto con GSP) e sempre pronto a pungere e fuggire finendo per irretire gli avversari, spingerli ad esporsi e punirli con una sistematicità quasi disumana.
Inizialmente aveva sofferto un po’ le fasi di grappling, ma complice anche forse l’aiuto di un compagno di team come Chris Weidman, non soltanto è migliorato in questo aspetto, ma è divantato addirittura difficilmente atterrabile anche da wrestler d’elite come alcuni citati. Con Woodley ha pareggiato la prima sfida e perso, forse immeritatamente, la seconda. Per la noia profusa in abbondanza dai due match titolati combattuti sarà difficile che la promotion offra a Wonderboy un’altra possibilità titolata in tempi brevi, ma se il campione dovesse cambiare, sarà probabilmente il primo ad ottenerla. GUai a dimenticarsi di lui nel 2018, potreste ritrovarvelo anche con la cintura sulla spalla prima della fine dell’anno.
Rafael dos Anjos
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Ronald Martinez / Getty Images
Quando ha annunciato di voler combattere nei Welter, era facile immaginarsi l’ex campione dei Lightweight Rafael dos Anjos non del tutto a suo agio, avendo perso gli ultimi due incontri nella categoria inferiore, contro Eddie Alvarez (contro cui perse il titolo Lightweight) e Tony Ferguson (match che gli ha fatto maturare l’idea di salire di categoria). Invece, RDA ha sorpreso tutti, arrivando già alla soglia del top 5 con tre vittorie non banali: la prima, in cui ha surclassato l’ex campione Strikeforce, Tarec Saffiedine; la seconda, nella quale ha praticamente annientato Neil Magny; l’ultima, e ancor più importante, è la dimostrazione di netta superiorità sull’ex mattatore di categoria Robbie Lawler, dello scorso dicembre.
Dopo la sconfitta con Khabib Nurmagomedov, RDA ha deciso di allenarsi alla Evolve MMA per parte dei suoi camp, oltre che alla Kings MMA, in modo da migliorare il suo striking. Oggi è un fighter più completo e nonostante sia passato alla categoria superiore è ancora in possesso di una straripante fisicità, un notevole cardio e una grande potenza nei colpi. Non è dotato di un footwork eccezionale, ma vanta un ottimo grappling, che non è dovuto solo alla sua esperienza nel BJJ. Il suo wrestling è davvero asfissiante e, se si esclude Nurmagomedov, è raro vedere fighter riuscire ad imporsi contro di lui in questo campo, come hanno dimostrato anche i match contro Magny e Anthony Pettis.
In molti dubitavano dell’efficacia di dos Anjos nei Welter, ma la sua prestazione dominante contro Robbie Lawler, nella quale ha messo in mostra le indubbie qualità nello striking e nel clinch, ha diradato anche le ultime ombre. Che ormai sono proiettate solo dalla figura di Tyron Woodley e degli altri nobili della categoria, e proprio per l’eventualità che la sorprendente seconda vita di Dos Anjos si faccia ancora più sorprendente il suo 2018 sarà tra i più interessanti.
Amanda Nunes
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Codie MacLachlan / Stringer
Sei vittorie di fila, le donne più letali della propria divisione sconfitte, la cintura Bantamweight strappata a Misha Tate, la fondatrice stessa, Ronda Rousey, pensionata in pochi secondi, trattata come un sacco privo di coscienza, e poi una seconda vittoria su Valentina Shevchenko (anche se in questo caso per giudizio non unanime). Amanda Nunes non sembrava il prototipo di campionessa quando è entrata in UFC, eppure in nove incontri in UFC ha raccolto ben otto vittorie, a fronte di una sola sconfitta nel 2014, contro l’allora title contender Cat Zingano.
Basta guardare gli ultimi match della campionessa per rendersi immediatamente conto sia dei miglioramenti effettuati, sia del fatto che si tratta di una fighter 2.0, completa sotto tutti i punti di vista: forte nello striking, seppur non velocissima data la forza fisica che la accompagna; dotata di un indiscutibile equilibrio nel clinch che le consente sempre, o quasi, di dominare la fase e di mettere colpi pericolosi; illeggibile da terra, dotata di un ottimo ground and pound, ma anche di un discreto submission game e della capacità di rimettersi velocemente in piedi, anche quand’è schiena a terra.
È anche ottima nel lavoro in counterstriking ed è capace di infliggere pesanti KO alle sue avversarie grazie al grande volume di colpi di braccia che riesce a tenere. Nell’evento di fine anno 2016, Nunes ha abbattuto, come detto con relativa facilità, l’ex regina Ronda Rousey, mettendo di fatto fine alla leggenda della judoka americana nelle MMA. Da allora, nel corso del 2017, Amanda ha combattuto solo una volta, battendo la Shevchenko nel mese di settembre. Cosa la attenderà nel 2018? Chi sarà la prossima avversaria che tenterà di strappare il titolo a una fighter così spaventosamente completa?
Brian Ortega
Di Gianluca Faelutti
Foto di Jayne Kamin-Oncea / Stringer
Ortega è un prodotto della "Gracie Jiu-Jitsu Academy", capitanata da Rorion Gracie, e possiede attualmente uno dei migliori BJJ applicati alle MMA di tutto il circuito. È forte fisicamente, ha una predisposizione alle sottomissioni fantastica ed è un fighter giovane (27 anni da compiere) ed estremamente imprevedibile. Aveva esordito in UFC con un’ottima vittoria per sottomissione su Mike De La Torre, nel 2014, ma era stato fermato per positività al doping dalla commissione atletica. È rientrato nel Giugno 2015 finalizzando dal ground and pound Thiago Tavares, poi i successivi tre incontri hanno avuto la medesima narrazione: Ortega soffre le prime due riprese e sembra avviato a sporcare il suo record da imbattuto, poi alla terza ripresa cresce e improvvisamente trova una soluzione estemporanea e ribalta le sorti di un incontro che sembrava destinato a perdere. Al momento è arrivato a 14 incontri da professionista senza sconfitta (con un solo No Contest, appunto quello di De La Torre).
Ha finalizzato Diego Brandao con un triangle choke, Clay Guida con una splendida ginocchiata al volto quando mancavano soltanto 20 secondi al termine dell’incontro e infine Renato Carneiro grazie ad guillotine choke stavano già pregustando la vittoria, ma non avevano fatto i conti con le sue magie. Queste vittorie gli sono valse, legittimamente, l’occasione di combattere con uno dei migliori Featherweight come Cub Swanson, e Ortega non se l’è lasciata sfuggire: ha sofferto un po’ nello striking, fase dove concede ancora qualcosa, ma appare sempre più in controllo, ha sfiorato la ghigliottina al termine del primo round, venendo interrotto dalla sirena, per poi ripetersi nel secondo non appena i due sono entrati in clinch. Una ghigliottina in piedi impreziosita dal salto con cui Ortega ha chiuso i ganci dietro la schiena di Swanson, portandolo a terra.
È letale in ogni fase di grappling, basta talvolta un breve clinch per finire nelle fauci del suo stellare BJJ, ma anche nelle fasi in piedi è capace di stupire con esecuzioni improvvise. Ortega entra nel 2018 come l’astro nascente dei Featherweight, è ancora imbattuto ed è già alla posizione #3 del ranking UFC e nei prossimi mesi cercherà la propria definitiva consacrazione. Non è così semplice trovare altri atleti che vivono un momento così eccezionale…
Cody Garbrandt
Di Daniele Manusia
Foto di Christian Petersen / Getty Images
A molti Cody Garbrandt non piace per come è fuoridall’ottagono. Ad altri non piace neanche dentro l’ottagono, ma solo in quelle pause tra uno scambio e l’altro in cui si prende il tempo per fare un inchino o addirittura dei piegamenti a terra. A tutti, però, è piaciuto il Cody Garbrandt che poco più di un anno fa ha eluso, con un senso della distanza millimetrico, il re dell’elusione Dominick Cruz, diventando campione Bantamweight a soli 25 anni, da imbattuto, e con appena 11 incontri da professionista.
Difficile non restare impressionati dalla sua freddezza, dal controllo (con il 69% dei colpi evitati e il 100% nella difesa dei takedown) e al tempo stesso dalla violenza del suo destro (prima dell’incontro con Cruz solo in tre occasioni i suoi incontri erano andati oltre al primo round). A molti è piaciuto persino il Cody Garbrandt della prima ripresa e dell’inizio della seconda contro TJ Dillashaw, prima che finisse knockdown per un calcio alla testa, perdendo il suo primo incontro e al tempo stesso la cintura. L’incontro era stato anticipato da una narrativa ricca di conflitto in cui Garbrandt aveva preso la parte, per lui naturalissima a quanto pare, di quello che parla troppo, polarizzando l’opinione in quel modo per cui solo in caso di vittoria ti verranno risparmiate le critiche più aspre.
Ci sta, fa parte del gioco, ma c’è una differenza sottile tra il tifare per uno dei due fighter in particolare, e ritenere che l’altro non abbia il suo posto nell’ottagono: e il posto di Cody Garbrandt è chiaramente contro i migliori della sua divisione. È difficile sapere che cosa sarà del suo futuro prossimo, visto che TJ non sembra minimamente intenzionato a offrirgli l’immediato rematch ma la sua voglia di rivincita lo rende uno dei fighter da seguire assolutamente nel 2018. Anche un rematch con Cruz sarebbe molto interessante per capire se qualcosa si è incrinato dentro di lui, ma guai a pensare che Garbrandt sia stato rimesso al posto che gli spetta (#2), perché se il curriculum e le qualità mostrate, tecniche e mentali, sembrano dirci che se Cody si mette in testa di riprendersi la cintura prima o poi TJ dovrà riaffrontarlo.
Tyron “The Chosen one” Woodley
Di Gianluca Faelutti
Foto di Victor Fraile / Stringer
Woodley è uno dei campioni meno amati dal pubblico perché ha uno stile conservativo e attento che non lo rende particolarmente carismatico, ma è solido da ogni punto di vista e soprattutto si adatta benissimo a qualsiasi tipologia di fighter che gli si mette davanti. Ha un'impostazione da counterstriker, preferisce posizionarsi spalle a parete e far sì che sia l’avversario a prendere l’iniziativa per far poi valere le sue eccezionali qualità di colpitore d’incontro, in particolare con l’overhand destro che riesce ad essere spesso decisivo.
Ha un volume di colpi abbastanza limitato (va a bersaglio in media con 2.48 colpi significativi al minuto) e raramente si fa aggressivo, eppure vanta ben 4 finalizzazioni per KO tecnico in UFC. Questa sua moderata aggressività si riflette anche nel grappling: nonostante le sue straordinarie doti da wrestler, infatti, raramente cerca di accorciare la distanza per poi cambiare livello e cercare il takedown; preferisce attendere che sia l’avversario a commettere qualche imprecisione (magari un calcio sferrato senza la necessaria intensità com’è accaduto a Thompson nella prima ripresa del loro primo match) per poi essere davvero devastante in ground and pound, e non è un caso che porti a compimento soltanto 1.4 atterramenti ogni 15 minuti.
È praticamente inatterrabile (difendendo il 95% dei takedown tentati ai suoi danni) e con lui i fighter esperti di BJJ hanno grandi difficoltà ad imporre il proprio gioco, come si è palesato nel match contro Demian Maia, che ha provato per ben 21 volte il takedown senza mai riuscirci. Woodley ha mostrato alcuni limiti solo nell’ultimo match perso contro Rory MacDonald (che è anche l’unica sconfitta in UFC), che lo ha schiacciato per tre riprese restando sempre a corta distanza e facendo valere la precisione del suo jab, disorientandolo con numerose finte e martoriandolo con la sua pressione costante e la velocità dei suoi colpi.
Potrebbe essere l’anno della sua consacrazione definitiva non solo come campione Welter ma come uno dei campioni più dominanti di tutte le divisioni, ma la concorrenza non è mai così stata così alta al limite delle 170 libbre con il rientro di Carlos Condit, il ritorno di George St-Pierre (ammesso che sia intenzionato a combattere ancora), il salto di categoria di Rafael Dos Anjos e la comparsa di diversi nuovi grandi talenti come Darren Till e Kamaru Usman (ne parleremo più avanti...). A 35 anni Woodley vuole scoprire in che posto collocarsi nella storia delle MMA. Una buona ragione per guardare i suoi incontri anche se li trovate noiosi.
Kamaru Usman
Di Gianluca Faelutti
Foto di Brandon Magnus / Zuffa LLC
“The Nigerian Nightmare” è uno dei migliori prospetti del roster UFC: ha una forza fisica impressionante che si palesa in particolare nella fasi di grappling, ma anche un’eccezionale fluidità di movimenti nelle fasi di striking. È un fighter completo, elusivo in virtù di un buonissimo gioco di gambe e di altrettanto validi movimenti di corpo e di testa, che colpisce forte ma anche in modo sorprendentemente preciso, e quando il match si sposta sul grappling il suo wrestling è spaventoso.
Colpisce l’eleganza con cui combatte, che quasi stride con la forza fisica brutale che lo caratterizza, un’eleganza che lo accompagna persino quando colpisce in modo anomalo, talvolta contemporaneamente con entrambi i pugni (cosa che non avevamo mai visto). Ha un curriculum corto, con 6 vittorie e nessuna sconfitta in UFC, ma tutte le sue apparizioni hanno coinciso con un dominio totale sugli avversari, che pure sono stati di ottimo livello, come Warlley Alves oppure Sean Strikland. È proprio l’enorme discrepanza mostrata contro fighter di questo livello, oltre alle costanti evoluzioni mostrate match dopo match, a far pensare che Usman è un possibile campione di domani. In ogni caso ogni suo incontro è stato spettacolare e non c’è ragione di pensare che non sarà così anche nel 2018, l’anno della sua possibile definitiva esplosione. La concorrenza nei Welter è molto alta, ma Usman sembra non temere nessuno.
Luke Rockhold
Di Gianluca Faelutti
Foto di Steve Marcus / Stringer
Luke Rockhold è forse il Middleweight più completo in circolazione. L’indolenza con la quale ha affrontato Michael Bisping, che gli ha strappato il titolo appena conquistato, però, ha evidenziato quanto la stella dell’AKA debba ancora crescere nell’approccio mentale. Ci sono dei dubbi anche sulla sua mascella, già violata da un splendido spinning high kick di Vitor Belfort all’esordio UFC, e contro Bisping è risultata per la seconda volta vulnerabile.
Detto questo, Rockhold è un fighter eccezionale in ogni fase del combattimento, fisicamente è un Light-Heavyweight prestato ai Middle (e ha anche pensato di salire), enorme per la categoria, con uno striking preciso, un buon pugilato e dei calci potenti e fantasiosi (come il question mark kick, suo vero marchio di fabbrica). Anche se l’incontro si sposta a terra sa essere devastante, in particolare nella facilità con la quale prende la schiena, e una volta messi i ganci diventa implacabile prima con i colpi, poi con la rear naked choke. Si trova molto a suo agio con i wrestler, in virtù di un bjj stellare, ma può andare in difficoltà contro striker estrosi.
Sono passati più di due anni dalla conquista del titolo nel match brutale con Chris Weidman e in questo lasso di tempo, oltre ad aver perso con Michael Bisping (che aveva già battuto in passato e che, per questo, ha sottovalutato) ha combattuto e vinto contro David Branch, senza però impressionare. Probabilmente ha ancora qualche ruggine da togliersi di dosso e deve riconquistare la nostra totale fiducia (nelle sue indubbie qualità): il 2018, in cui compirà 34 anni, potrebbe diventare molto presto il suo anno, visto che l’11 febbraio ha già in programma una nuova title chance contro Robert Whittaker.
Darren Till
Di Gianluca Faelutti
Foto di Dean Mouhtaropoulos / Getty Images
Con quella guardia southpaw molto laterale, la ricerca costante del check con la mano destra e del diretto con quella mancina, il ragazzo proveniente dai sobborghi di Liverpool non può non ricordare Conor McGregor. Darrenn Till, imbattuto nei 16 incontri disputati da professionista, sa essere anche devastante anche attraverso la sua Muay Thai, ad esempio con le gomitate dalla posizione in piedi che porta a segno con un’efficacia sbalorditiva, e che gli sono molto utili anche nelle fasi di ground and pound.
Ha una stazza imponente per le 170 libbre e gestisce alla perfezione le distanze, colpisce con eccezionale precisione e tempismo d’incontro e quando attacca non prolunga mai le sequenze, entra bene con il jab e se fa partire il diretto mancino sa essere devastante. È aggressivo senza essere sfrontato, non ha un volume di colpi particolarmente alto ma mette grande pressione ai suoi avversari e quando va a bersaglio ha una straordinaria potenza e una pulizia nell’impatto della mascella avversaria che lo rende spesso letale.
È un ragazzo estremamente ambizioso, dice e pensa di essere uno dei migliori di sempre nella storia dello sport, ed ha anche una storia particolare alle spalle: a diciannove anni ha rischiato di perdere la vita dopo essere stato accoltellato in una rissa, e su consiglio del suo allenatore ha cambiato aria volando in Brasile, dove si è formato come fighter di MMA. La vittoria su Cerrone dello scorso ottobre gli ha dato ulteriore risalto mediatico e salvo sorprese nel 2018 lo aspetta un salto importante nel ranking dei pesi Welter.
Demetrious “Mighty Mouse” Johnson
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Jamie Squire / Getty Images
Demetrious Johnson sembra non avere rivali, su nessun piano, almeno nei Flyweight. Adesso che ha eliminato ogni potenziale avversario c’è solo un’opzione a disposizione per accrescere il proprio stato di #1 pound for pound e iniziare a costruirsi l’aura da leggenda necessaria per rientrare a pieno titolo (ammesso che non ci rientri già per il record di 27-2-1 e quello delle 11 difese consecutive del titolo) nel discorso per il Greatest Of All Time.
L’opzione è il cambio di categoria: Demetrious Johnson aveva deciso di scendere di categoria dopo l’ultima sconfitta subita in carriera, contro Dominick Cruz nell’ottobre del 2011, partecipando al torneo che avrebbe decretato il nuovo campione dei Flyweight UFC. Dopo un pareggio e una vittoria, entrambi contro Ian McCall, è iniziata una serie di vittorie con quella valida per il titolo contro Joseph Benavidez. Da allora, un crescendo evidente di qualità nelle prestazioni ha accompagnato le apparizioni di Mighty Mouse, sempre più dominatore. Salire nuovamente e scontrarsi con TJ Dillashaw in un supermatch tra campioni di categorie diverse significherebbe correre il rischio più grande possibile, vero, ma i rischi aiutano a costruire le leggende.
Johnson ha già rifiutato il match contro Dillashaw in passato, preferendo l’incontro contro Ray Borg che gli è valso il record assoluto di difese titolate in UFC (superando Anderson Silva). Adesso che Dillashaw ha battuto Garbrandt e Johnson non ha veri e propri contender alla cintura, molti fan vorrebbero vederli finalmente sfidarsi nell’ottagono. L’alternativa, restare nei Flyweight e difendere a oltranza la cintura, è senz’altro meno affascinante, anche se la creatività e il talento di DJ rendono ogni suo incontro una performance meritevole di essere guardata. Il contrario delle MMA brutali e sanguinose, un compendio di intelligenza tattica e abilità nell’eseguire velocemente movimenti molto complicati (DJ è anche un e-gamer e questo probabilmente lo aiuta nell’avere una coordinazione occhio-mano fuori dal comune).
Johnson è un fighter letale e velocissimo nelle fasi di striking, con un footwork inimitabile e semplicemente irraggiungibile. L’equilibrio e la gestione sono le sue qualità maggiori in fase di grappling, oltre a quella capacità innata di mettere fine al match con le sue sottomissioni fulminee. Nei Bantamweight ha sempre sofferto non tanto la qualità tecnica dei suoi avversari, quanto la loro fisicità, il suo unico limite. “Mighty Mouse” è alto 160 cm e probabilmente per questo motivo non accetterà di salire di categoria. Se invece accettasse, con un’offerta economica magari particolarmente irrinunciabile, diciamo pure faraonica, il match con Dillashaw a 125 libbre sarebbe senz’altro uno degli incontro più interessanti di tutto 2018. In caso di vittoria poi, la storia delle MMA gli spalencherebbe le porte.
Rose Namajunas
Di Daniele Manusia
Foto di Mike Stobe / Stringer
Rose Namajunas ha avuto un 2017 fantastico. Ad aprile ha sottomesso Michelle Waterson conquistandosi la chance per il titolo e a novembre ha semplicemente ribaltato il tavolo dei Pesi Paglia femminili UFC piegando le gambe - due volte, la seconda arrivando al TKO - alla campionessa in carica, imbattuta fino a quel momento e regina assoluta dello striking, Joanna Jedrzejczyk.
Le MMA sono uno degli sport più difficili da prevedere in assoluto: anche nel caso di atleti con parecchi match in curriculum è impossibile essere certi dello stato di forma in cui si trovano al momento dell’incontro. Ma per prevedere un upset come quello di Namajunas ci sarebbe voluta veramente la sfera di cristallo, se non altro perché nessuno avrebbe potuto immaginare Jedrzejczyk subire così nettamente in piedi, senza mai trovare la distanza né il tempo giusto. Si sapeva, invece, che Namajunas era cambiata dopo la sconfitta del 2016 con Karolina Kowalkiewicz, che aveva trovato una calma interiore nuova, che le permetteva di usare il suo passato di violenza (una triste storia di abusi simile a quella di molte altre donne più fragili di lei) e la rabbia accumulata come una base solida per darsi la spinta, e non più come un carburante che ne consumava l’energia. La nuova campionessa Strawweight dice di combattere per rendere il mondo un posto migliore, per condividere un messaggio d’amore: un messaggio in contraddizione con il dono che le è stato dato, il combattimento.
Rose Namajunas ha il grande pregio di essere trasparente, di non nascondere le emozioni in uno sport in cui si confonde spesso la durezza con la freddezza. E tecnicamente non le manca niente, basta pensare che nell’incontro con Jedrzejczyk non ha avuto neanche bisogno di sfruttare il suo ottimo BJJ. La verità, però, è che già dal giorno dopo l’incontro ci si sta chiedendo quanto durerà, se si è trattato di un caso, di un momento di grazia passeggero, o se Rose è salita in cima per restarci (e considerando che ha solo 25 anni potrebbe farlo a lungo). Non sappiamo ancora con chi combatterà il prossimo incontro, né quando, ma vederla difendere quella cintura appena conquistata - contro Joanna o magari Karolina Kowalkiewicz per lavare l’onta della sconfitta precedente - sarà senza dubbio una buona ragione per seguirla il prossimo anno.
TJ Dillashaw
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Mike Stobe / Stringer
TJ Dillashaw is the man, direbbero gli anglofoni. Nel 2017 è riuscito a riprendersi la tanto agognata cintura dei Bantamweight e lo ha fatto nel modo più spettacolare, contro il suo acerrimo nemico Cody Garbrandt, ex imbattuto, steso con un gancio perfetto che ha seguito un headkick da cineteca. Con uno stile elusivo, fatto di colpi secchi e veloci, un gioco di gambe fulmineo, cambi di livello immediati e secchi, TJ Dillashaw è senza ombra di dubbio uno dei migliori fighter pound for pound in circolazione.
Verrà ricordato come uno dei principali esponenti di quella generazione di fighter che per prima si è distaccata dalla cosiddetta old school, per divenire fighter totali. Col 73% di colpi messi a segno, TJ è uno striker eccezionale, che non disdegna la fase a terra. Dotato di un’insolita capacità nel mettere a segno fulminei takedown (vedi il match contro John Lineker) e di cambi di livello eccezionali, sembra essere il presente e il futuro della categoria. Attualmente è ancora senza avversario, se l’UFC lo accontentasse organizzando il superfight da lui richiesto con Demetrious Johnson il 2018 potrebbe offrire a TJ Dillashaw l’incontro con cui scolpire il proprio nome nella pietra dello sport. In caso contrario, però, quasi certamente gli toccherebbe combattere di nuovo con Garbarandt o Dominick Cruz, e qualsiasi altro incontro sarebbe ancora meno interessante. Il suo 2018 può essere glorioso ma è dietro l’angolo ci sono comunque parecchie insidie.
Robert Whittaker
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Rey Del Rio / Stringer
A soli 27 anni, Robert Whittaker ha messo a segno una serie di vittorie da sogno che gli hanno permesso in breve tempo di sbarazzarsi, in una maniera che è sembrata fin troppo semplice, dei migliori fighter nei pesi Medi. Una striscia che ha visto vittime illustri (Brad Tavares, Uriah Hall e Derek Brunson) e che lo scorso aprile lo ha portato alla vittoria più importante della sua carriera, mettendo a segno una prestazione stellare contro Jacare Souza, vincendo addirittura per KO tecnico contro il brasiliano che in quel momento era più quotato.
L’impresa lo ha portato a contendersi il titolo ad interim contro Yoel Romero e ad arrivare alla vittoria in un match durissimo che lo aveva visto perdere le prime due riprese e infortunarsi poi al ginocchio. La risalita nel match di Whittaker è stata incredibile, nel senso letterale del termine: ha difeso tutti i takedown dello spaventoso wrestler cubano, e ha messo a segno colpi veloci e potenti. Whittaker ha atteso con pazienza che Romero si stancasse, per sopraffarlo nelle tre riprese finali e portare a casa il match per decisione unanime. Aveva ricevuto la sfida in diretta da Michael Bisping che invece, come ben noto, ha perso il titolo contro Georges St-Pierre. Il canadese ha reso vacante il titolo e Whittaker è stato incoronato campione indiscusso.
Whittaker è salito nei Middleweight dopo delle prestazioni non brillanti nella categoria inferiore. L’australiano stava ancora migliorando il proprio stile e la propria condizione, che oggi è al massimo della maturità: è un counterstriker eccezionale, dotato di una velocità di braccia incredibile per la categoria e di una takedown defense pari all’87%, con un footwork più unico che raro nelle 185 libbre. Whittaker è quello che più incarna lo spirito del dominatore in una categoria in cui era assente una figura simile da diverso tempo. Dovrà comunque confermare quanto di buono appena detto il prossimo 10 febbraio, difendendo il titolo per la prima volta da Luke Rockhold. Puntate la sveglia da ora, così non vi dimenticate.
Max “Blessed” Holloway
Di Giovanni Bongiorno
Foto di Gregory Shamus / Getty Images
Max Holloway è il campione dei Featherweight e dopo aver patito l’ultima sconfitta per mano di Conor McGregor, nell’agosto 2013, ha messo insieme un’incredibile striscia di 12 vittorie consecutive, culminata con la doppia vittoria per KO tecnico, sempre durante il terzo round, sull’ex campione Jose Aldo. Col 76% dei suoi colpi che finiscono a segno, il talento eccezionale e la crescita incredibile di Holloway è sotto gli occhi di tutti.
Inizialmente soffriva nel ground game, ma è diventato sempre più difficile costringerlo a combattere da terra: ha infatti difeso l’83% dei takedown che sono stati tentati contro di lui. Il suo allungo non è esagerato (175 cm), ma l’hawaiano compensa con la frequenza e la potenza nei colpi, specie di braccia. Anche se supportato da un gioco di gambe non eccelso, Holloway è una bestia nera per chiunque voglia tentare oggi di conquistare il titolo Featherweight, soprattutto per via della sua capacità di tagliare le distanze e di costringere i suoi avversari spalle alla gabbia per finirli poi con ottime combinazioni.
Le 9 finalizzazioni nelle ultime 12 vittorie confermano lo status attuale di quello che con tutta probabilità è il più forte Featherweight al mondo. L’unico vero avversario ancora da affrontare è Frankie Edgar, che mira alla sua corona. Il 2018 con tutta probabilità ci regalerà questo match, nel quale sarà in gioco l’eredità di Holloway: con un paio di difese titolate potrebbe iniziare ad essere considerato uno dei migliori Featherweight di sempre.
Conor McGregor
Di Gianluca Faelutti
Christian Petersen / Getty Images
“Ogni fottuto anno è il mio anno” è una delle tante boutade con cui Conor McGregor si è fatto amare/odiare in questi anni. Il 2017, però, sportivamente parlando non lo è stato di certo: ha combattuto un solo match, di pugilato, perdendo come tutti sanno nonostante una prestazione più che dignitosa contro il gigante della boxe Floyd Mayweather. Il suo ultimo match di MMA risale al novembre 2016 quando, con una prestazione epocale si prese gioco di Eddie Alvarez, diventando l’unico figher nella storia UFC ha detenere contemporaneamente due cinture (la prima, quella Featherweight, la strappò a José Aldo in quei fatidici tredici secondi). Che piaccia o meno “The Notorious”, come umilmente si fa chiamare, è uno dei talenti più cristallini che siano mai saliti su un ottagono, con un pugilato fantascientifico per le MMA e uno stile anomalo con quella guardia laterale aperta e il mancino che parte da una posizione molto più bassa del consueto; con un footwork verticale, costante e veloce, e una gestione delle distanze perfetta al millimetro.
Preferisce il colpo singolo alla combinazione prolungata e questo lo rende sempre in controllo sul match, ma la sua predisposizione al KO è impressionante se pensiamo che su 21 vittorie 18 sono arrivate appunto per TKO/KO e ben 14 alla prima ripresa. Ma i pericoli non si limitano a quando attacca perché, forse, nessuno oggi colpisce d’incontro con l’efficacia di McGregor, cosa che rende sempre molto complesso riuscire ad aggredirlo (Alvarez e Aldo, appunto, ne sanno qualcosa). Inoltre, McGregor fa parte di quella generazione di fighter che punta ad incanalare il match nei binari a lui più congeniali attraverso un’ottima e sottovalutata difesa ai takedown (ne difende il 74% di quelli tentati e negli ultimi due match ne ha difesi 9 su 10).
McGregor ha sempre combattuto molto nei periodi in cui è stato attivo, al contrario di quanto si pensi, e anche se al momento si dice che abbia perso motivazioni e piacere nel combattimento non ci sarebbe da sorprendersi se invece nel 2018 dovesse arrivare a combattere anche tre match, come è accaduto nel 2015. C’è infine curiosità riguardo alle sue evoluzioni pugilistiche sulle quali ha lavorato tantissimo per preparare il suo match: chissà che il suo bagaglio tecnico non ne risulti arricchito, magari da un uso più frequente del jab.
Conor si odia o si ama, ma tutti vogliono vederlo combattere. Il suo match di rientro potrebbe essere la tanta agognata difesa del titolo dei pesi leggeri per l’unificazione della cintura con l’attuale campione ad interim Tony Ferguson, un match che promette dosi infinite di spettacolo e un livello tecnico davvero altissimo. Potenzialmente, in un 2018 che si annuncia ricchissimo di grandi incontri, L’Incontro da non perdere per nessuna ragione al mondo.
Stipe Miocic (ex aequo)
Di Gianluca Faelutti
Foto di Rey Del Rio / Stringer
Quella degli Heavyweight è senza ombra di dubbio la categoria tecnicamente meno elevata, però, si sa, negli sport da combattimento è endemicamente la più appetibile. Il campione in carica, Stipe Miocic, nato a Cleveland ma di origini croate, fa parte di una nuova generazione di Heavyweight, purtroppo poco numerosa, più leggeri, dinamici e completi. Miocic non fa niente in modo superlativo: ci sono pugili migliori di lui (Junior Dos Santos, Overeem), wrestler migliori (Cain Velasquez); ma pochi, forse solo Velasquez, sono completi quanto lui.
Miocic sa fare tutto benissimo: è molto veloce per essere un Heavyweight e il suo gioco di gambe è perpetuo e rapido, il suo cardio è ottimale e gli garantisce una perfetta tenuta sulle cinque riprese, ha un fisico asciutto (quasi una rarità per la categoria), mani discretamente pesanti (quattro TKO al primo round negli ultimi quattro match), un valida resistenza ai colpi (un solo TKO in carriera contro Stefan Struve) e un pugilato solido e tecnico che si aggiunge a un wrestling di tutto rispetto. Se riuscisse a difendere ancora una volta il titolo diventerebbe l’Hevyweight con più difese titolate (3). La concorrenza risiede in pochi contendenti , ma estremamente pericolosi, primo fra tutti Francis Ngannou che ha già ottenuto la chance titolata. Ma anche il ritorno di Cain e la possibile rivincita di Fabricio Werdum (scriteriato nell’atteggiamento nel loro primo match) potrebbero rivelarsi insidiosi per il suo 2018. Il prossimo anno potrebbe consacrare Miocic alla storia delle MMA, se ne uscisse ancora con la cintura diventerebbe il miglior Heavyweight UFC di sempre.
Francis Ngannou (ex aequo)
Di Daniele Manusia
Foto di Gregory Shamus / Getty Images
Ogni volta che qualcosa di unico, di grande e di spettacolare, si manifesta agli occhi di più uomini, ci sarà sempre qualcuno che proverà a sminuirlo, a banalizzarlo. Ma di uomini come Francis Ngannou non se ne erano mai visti nelle MMA. Un atleta che fino a quattro anni fa non sapeva neanche cosa fossero le arti marziali miste e che, a detta dei suoi allenatori ha una capacità di apprendimento eccezionale, capace di arrivare a guadagnarsi l’incontro per il titolo dopo appena 12 match più o meno da pro (i primi li ha combattuti in Francia, dove non è legale l’MMA), di cui solo cinque in UFC. Un fighter con un passato di povertà assoluta in Camerun, che ha fatto lavori pesanti da quando aveva 12 anni e che non ha quasi nessun background, se non un po’ di pugilato ma di un livello tale che quando è arrivato a Parigi e dormiva per strada l’allenatore ha preferito proporgli le MMA piuttosto che lavorare sui suoi difetti.
Ma i miglioramenti di Ngannou sono spaventosi. Chi pensava che avesse solo le mani pesanti si è dovuto ricredere quando ha sottomesso Anthony Hamilton piegandogli il braccio come fosse un pupazzo di gomma. Chi pensava che le sue mani, magari, non fossero cosìpesanti - e che lo stop contro Arlovski fosse arrivato troppo presto - è rimasto a bocca aperta quando Ngannou ha spento Overeem con un sinistro dal basso di una violenza impressionante. Quel pugno ha sinceramente scioccato molti degli addetti ai lavori, alcuni scherzando hanno buttato lì la possibilità di ispessire i guantini (e va detto che non era neanche la mano forte di Ngannou, che con il destro ha il pugno più potente al mondo, almeno tra quelli registrati ufficialmente).
Il suo 2018 è da tenere assolutamente d’occhio, a cominciare dal prossimo 20 gennaio, in cui incontrerà uno dei fighter più completi e tecnici tra i pesi massimi. Ngannou è persino cresciuto di volume da quando è arrivato in UFC (è meno definito, ma probabilmente anche più potente) e al momento della presentazione dell’incontro la differenza di stazza tra Francis in maglietta e Stipe in completo era impressionante. In teoria, sulla carta, razionalmente, Stipe Miocic dovrebbe rappresentare le Colonne d’Ercole per Francis Ngannou, la prima volta in cui potrebbe aver fatto il passo più lungo della gamba. Ma se non lo fosse? Se Ngannou addormetasse anche Miocic, quali diventerebbero i nuovi confini del suo regno?
Anche in caso di sconfitta Ngannou non sparirà di certo: in fondo non sarebbe una novità in una divisione dove è difficile costruire strisce di vittorie troppo lunghe, e di contender seri come lui ce ne sono pochi. Se vincesse c’è già chi parla di un superfight di pugilato con Anthony Joshua, ma sarebbe senz’altro più interessante vederlo difendere il titolo un pretendente dopo l’altro, old school, finché dura. Il 2018 potrebbe essere l’anno in cui Ngannou ripassa a penna il proprio nome nella storia delle MMA, che per ora è ancora scritto solo a matita. L’anno in cui forse il più grande Heavyweight di sempre sarà costretto a cedere la cintura a un fenomeno assoluto, a uno che potrebbe cambiare la categoria per sempre.
Tony “El Cucuy” Ferguson
Di Daniele Manusia
Foto di Alex Trautwig / Getty Images
La storia di Tony Ferguson sembra inventata per quanto ricalca lo stereotipo da film americano. È cresciuto in Michigan, con origini messicane (e un nonno scozzese da cui ha preso il cognome), con un padre che per divertimento aveva combattuto nel Toughman Contest, un evento per pugili dilettanti, e che per punirlo gli faceva tagliare il prato e spaccare la legna. Al college ha vinto i campionati nazionali di wrestling, ma dopo aver lasciato gli studi è finito a lavorare come barista, a bere, fumare sigari e ingrassare. Poi un amico che aveva continuato con il wrestling lo ha chiamato per aiutarlo nello sparring, per preparare un incontro importante, Tony sentiva di aver “bisogno di dare una direzione” alla sua vita e ha accettato. “Non ero sicuro del mio stato di forma, ma il giorno dopo ci sono andato e ho lottato bene, molto bene. Il mio avversario non ha fatto neanche un punto, subito dopo sono andato a vomitare in un secchio e ho fatto un altro incontro”. A 27 anni entra a far parte della UFC e partecipa alla tredicesima edizione del reality The Ultimate Fighter. Il suo primo incontro sotto le telecamere, ancora da amatore, si chiude con un calcio da terra che manda KO il suo avversario.
Fin da quel primissimo incontro è evidente che una delle più straordinarie abilità di Tony Ferguson sta nella lotta a terra. Il suo Brazilian Jiu Jitsu è di altissimo livello e schiena a terra pochissimi, forse solo Nate Diaz, sono attivi e pericolosi quanto lui, sia con i colpi, in particolare le gomitate, che con i tentativi di sottomissione. Sei degli ultimi 10 incontri vinti (di seguito: è la striscia di vittorie consecutive più lunga nei Lightweight in UFC) sono finiti per sottomissione e anche nell’ultimo match contro Kevin Lee, che è riuscito a metterlo in difficoltà nel primo round tenendo un ritmo altissimo, ha trovato la sottimissione nella terza ripresa dopo aver portato parecchie gomitate con la schiena a terra. Ma Ferguson è altrettanto pericoloso in piedi, con uno stile atipico estremamente creativo, ricco di colpi girati e combinazioni che arrivano da angoli inaspettati, con un ottimo footwork e un allungo che sfrutta benissimo con il jab.
Ferguson, va detto, ha anche un caratteraccio. Durante una festa all’interno di The Ultimate Fighter ha preso in giro un compagno di squadra a cui avevano tolto il figlio e anche nel preparare il match che lo ha portato alla cintura ad interim con Kevin Lee è stato molto sprezzante. Si fa chiamare “El Cucuy”, l’equivalente del nostro “Uomo Nero” per i Paesi latinoamericani e durante gli incontri, se si sente particolarmente a proprio agio, mischia il footwork a dei balletti e delle finte con cui esprime la sua superiorità che sente di avere sull’avversario. Una senso della superiorità (“Sono stati creato per la grandezza” è uno dei suoi claim) che però gli dà anche molta tranquillità e una forza mentale eccezionale anche nei momenti difficili dei match, grazie anche ad una mascella granitica che per non ora non lo ha mai tradito. Soffre comunque i fighter più aggressivi (tipo Vannata, con cui è stato molto in difficoltà) e ad incontrare i diretti dei suoi avversari anche per via di una distanza non sempre perfetta.
Se nel 2018 si scontrerà con Conor McGregor, unificando la cintura, metterà definitivamente alla prova la propria mascella, se invece il suo avversario fosse Khabib Nurmagomedov (anche se dopo i due precedenti incontri annullati in pochi credono ancora che combatteranno davvero) , vedremo il suo ground game alla prova del più fenomenale dominatore a terra che si sia visto nei Lightweight. Se è vero quello che dice Dana White McGregor ha fino a marzo per difendere la sua cintura, altrimenti Ferguson affronterà Nurmagomedov da campione. In ogni caso sarà un anno interessante per uno dei fighter più unici e completi di tutto il circuito UFC.
Khabib “The Eagle” Nurmagomedov
Di Giovanni Bongiorno
Micheal Reaves / Stringer
Nonostante i continui problemi con la bilancia, per cui ha anche accennato alla possibilità di salire di categoria prossimamente, che gli hanno fatto saltare il match titolato contro Tony Ferguson, Khabib Nurmagomedov è ancora una delle stelle dei pesi Leggeri. Il daghestano rimane uno dei prospetti più eccitanti della divisione, samboka di livello eccellente che può permettersi di essere totalmente monodimensionale, basando appunto sul sambo e sul grappling ogni sua azione.
Con uno striking scolastico e prevedibile, Khabib è rapido nel cambiare livello e nel portare a terra i suoi avversari, grazie a single-leg e double-leg takedown, oltre che dal clinch, prima di imporre pressione continua e colpi da terra. Khabib è come una colla potentissima, o un animale che cattura la preda e la immobilizza: una volta entrati in fase di grappling con lui è praticamente impossibile uscirne. Con una difesa impeccabile fatta del 71% di colpi schivati e dell’83% di takedown evitati, ha un record di 25 vittorie e nessuna sconfitta (di cui 9 in UFC) e tenterà sicuramente un assalto al titolo.
Contro Edson Barboza, nell’evento dello scorso anno, Nurmagomedov ha cementato e legittimato la sua posizione di primo contendente al titolo, dominando in lungo e in largo quello che probabilmente è lo striker più vario, abile ed estroso della categoria. Barboza all’inizio è riuscito ad evitare i takedown del russo, ma il risultato è stato effimero: poco dopo Khabib era sopra di lui e lo stava martellando col ground and pound.
Vedere combattere Nurmagomedov è un’esperienza unica e non del tutto piacevole, la violenza con cui controlla al tappeto sarebbe insopportabile se non esprimesse un livello tecnico altissimo. È ancora più sorprendente se si pensa che i suoi avversari sanno benissimo che tipo di fighter è (su YouTube ci sono suoi video in cui da bambino si allenava nella lotta con dei cuccioli di orso) e nonostante si siano preparati finiscano col subirlo. Nurmagomedov ha il potere di rendere impotenti i fighter più pericolosi al mondo. Ormai ha scalato i ranking e il prossimo incontro - se tutto va bene, perché finora l’unico avversario in grado di rallentarlo sono stati gli infortuni - non potrà che essere per il titolo. Conor McGregor e Tony Ferguson possono dire quello che vogliono, quando l’arbitro darà inizio all’incontro nessuno dei due sarà felice di combattere contro Nurmagomedov.
Khabib ha ampiamente dimostrato che, nella serata giusta, nessun Lightweight può resistergli. Per questo e per le grandi aspettative che riponiamo nel suo 2018, Nurmagomedov è il fighter che in assoluto non potete perdervi il prossimo anno.