Il nostro viaggio nei talenti più interessanti da seguire nell'anno che si è appena aperto continua con la seconda decina di nomi. La prima è già uscita ieri e la trovate qua.
Ilaix Moriba, 2003, RB Lipsia (Guinea)
Dopo un periodo di relativa calma, la Masia sembra tornata a produrre talenti a getto continuo. Bruciando le tappe Ilaix Moriba - anche favorito del momento storico del Barcellona - era riuscito a guadagnarsi minuti importanti in prima squadra ancor prima di diventare maggiorenne. Insieme ad Ansu Fati e Pedri, e ad altri giovani interessanti in attesa del loro spazio, Moriba sembrava il futuro luminoso di una delle più grandi squadre al mondo. Nel Clasico di ritorno della scorsa stagione, all’ultima azione, aveva colpito una traversa dopo un controllo e un tiro che avrebbero meritato maggior fortuna.
In estate, però, Moriba ha rifiutato le offerte di rinnovo del Barcellona finendo ai margini della squadra, prima di essere ceduto all’ultimo al Red Bull Lipsia. Paradossalmente nella nuova squadra Moriba sta trovando molto meno spazio e finora ha giocato meno di 100 minuti. Ad appena 18 anni fare panchina non è un dramma e il Lipsia, che non sta vivendo una grande stagione, è una squadra molto peculiare, perfetta per lanciare i giovani ma che richiede anche un adattamento a uno stile di gioco quasi unico.
Quello che abbiamo visto fin qui, che non è molto, ci ha lasciato intravedere un centrocampista completo, che unisce un fisico potente e reattivo e una tecnica assolutamente non banale. Non è il tipo centrocampista di formazione blaugrana, che muove il gioco con una perfetta lettura degli spazi, ma inevitabilmente essere cresciuto nella Masia ne ha modellato lo stile di gioco. Moriba ha anche un passo rapido e delle gambe lunghe che gli permettono di far avanzare il gioco col pallone tra i piedi, ma anche di essere un centrocampista difensivo di livello. Insomma, le qualità sono importanti ed evidenti, anche se c’è ancora molta confusione nel suo gioco. Nelle poche occasioni avute in questa stagione si è visto quanto è poco a suo agio nel difendere in avanti, cosa che è invece necessaria al Lipsia. Forse lo stile di gioco forsennato dei tedeschi non è il suo stile, ma Moriba ha il tempo dalla sua parte. Passare da una accademia come quella del Barcellona all’universo Red Bull può essere uno shock, ma anche il modo migliore di diventare il giocatore più completo possibile.
Luka Romero, 2004, Lazio (Argentina)
Quando Sarri lo ha fatto esordire alla 2° giornata, certo sul risultato di 5-1 sullo Spezia, c’eravamo immaginati potesse esserci un minimo spazio per Romero. In una squadra con delle gerarchie non proprio stabilite per le ali, forse poteva emergere quello che è stato chiamato - con più insistenza di tanti altri - “il nuovo Messi”. Da quel momento Romero ha fatto solo qualche sporadica apparizione con la Primavera, convocato quasi per tutte le partite da Sarri, ma mai schierato. Non che sia una bocciatura: Romero non è ancora maggiorenne e sarebbe assurdo chiedergli di essere al livello di Pedro, Zaccagni o Felipe Anderson.
Da parte sua Romero conserva alcuni record di precocità (è il più giovane esordiente della storia della Liga e nella storia di Maiorca e Lazio) e il giudizio estremamente lusinghiero di Sarri, che ha detto di «non aver mai visto un sedicenne con questa qualità» e che Romero è molto determinato, «un ragazzo che si allena in maniera feroce». Per l’allenatore, per giocare già, gli manca solo qualcosa dal punto di vista fisico, dove inevitabilmente è ancora acerbo. Effettivamente c’è qualcosa di feroce nel suo modo di giocare, con un baricentro basso e una frequenza di passi altissima. Quando parte, con il pallone incollato ai piedi e la testa bassa, è difficile da fermare, anche se presenta un gap fisico evidente con gli avversari. La sua tecnica di dribbling e la capacità di coordinarsi e tirare in porta nello spazio di un fazzoletto lasciano sperare in una carriera di livello assoluto. Andatevi a guardare il suo primo (e finora unico) gol tra i professionisti, segnato nella Segunda Liga, dopo il quale si è anche messo a piangere. Certo deve imparare a giocare con i compagni, che ogni azione che fa non può essere quella decisiva, prima di tutto alzando la testa quando riceve. Da questo punto di vista è difficile trovare migliori maestri di Sarri, per cui, per quanto sarà difficile vederlo giocare, la sua permanenza in prima squadra potrebbe essere la miglior cosa che gli sia capitata.
Isak Bergman Johannesson, 2003, Copenaghen (Islanda)
Ísak Bergmann Jóhannesson ha tutto quello che serve per essere il classico nome hipster da spendervi con orgoglio e altissimo rischio di fallimento: una nazionalità calcisticamente curiosa, l’Islanda; la parentela diretta con un ex calciatore (il padre Jóhannes Karl Guðjónsson giocava in Premier League, per questo Isak è nato in Inghilterra, come un altro giovane molto interessante); un fisico acerbo ma promettente e un sinistro fatto per mettere in porta i compagni.
Cresciuto nel IFK Norrkoping, dove ha disputato due stagioni piene tra i grandi ancora prima di diventare maggiorenne (44 presenze, 5 gol e 13 assist nell'Allsvenskan), in estate è stato comprato dal Copenaghen per 4.5 milioni di euro, nel primo salto di quelli che potrebbero essere molti. In Svezia veniva impiegato principalmente come ala, sia a sinistra, per sfruttare la qualità del suo mancino nei cross, che a destra, per farlo entrare dentro al campo ad associarsi con i compagni o tirare fortissimo, ma già da questa stagione sta cambiando ruolo, e forse uno spostamento al centro del campo è uno sviluppo inevitabile in contesti più competitivi, visto che manca di velocità.
In questa stagione - dove non è sempre titolare, ma il Copenaghen è pur sempre una squadra che si sta giocando il titolo e spera di fare bene in Conference League - viene schierato principalmente tra i due centrocampisti davanti alla difesa. In questa posizione può far valere la precisione del suo sinistro, con lanci lunghi e filtranti, ma forse perde un po’ di quella che è la sua caratteristica migliore, ovvero l’assist nell’ultimo quarto di campo (comunque già 3 assist in stagione).
Deve ancora migliorare fisicamente e, probabilmente, non sarà mai di quei giocatori carro armato in grado di trascinare il pallone per il campo. Il Copenaghen, una squadra che ha puntato molto sui giovani negli ultimi anni, sembra il posto perfetto per crescere in tranquillità, imparare a fare nuove cose e prendere confidenza con quelle che sa già fare, in attesa di capire che giocatore potrebbe diventare.
Pape Sarr, 2002, Metz (Senegal)
Pape Sarr è stato una delle più belle sorprese della scorsa Ligue 1. Nato nel 2002 a pochi kilometri da Dakar, è l’ultimo prodotto della Genérátion Foot, la squadra senegalese affiliata al Metz in cui sono fioriti anche Sadio Mané e Ismaïla Sarr. A settembre 2020 si è trasferito in Francia e, dopo appena un anno, quest’estate si è guadagnato il trasferimento al Tottenham, che ha deciso di lasciarlo in prestito per un’altra stagione nella Lorena. Il Metz ad oggi non vive una situazione tranquilla, è diciottesimo e Sarr è anche partito per la Coppa d’Africa: un motivo in più per seguire una squadra ricca di talento come il Senegal.
Sarr infatti è un giocatore del tutto in divenire, con caratteristiche che lasciano immaginare diversi tipi di impiego durante la sua carriera. Può giocare sia in una coppia di mediani che da mezzala di un centrocampo a tre e per caratteristiche può incidere in diverse fasi di gioco. Il primo aspetto che salta all’occhio è il suo fisico longilineo, da mantide religiosa: conta 1,84 cm per circa 70 chili, con delle gambe di una lunghezza spropositata. Il corpo di Sarr incide in ogni aspetto del suo gioco. In fase difensiva, ad esempio, usa la falcata per coprire tanto campo, risolvendo spesso le transizioni difensive con lunghe corse all’indietro e verso le fasce che coprono le spalle ai difensori e portano aiuto ai terzini. Nonostante l’altezza, poi, gli piace andare a terra in scivolata, senza irruenza e con buona pulizia negli interventi.
Le gambe lunghe diventano un vantaggio anche col pallone. Se Sarr individua uno spazio in cui condurre, parte palla al piede e collega centrocampo ed attacco. Il senegalese, al momento, è soprattutto un centrocampista verticale, anche nei passaggi. Il suo primo pensiero è servire le punte. Stupisce in particolare la sua propensione ai filtranti sulla corsa, sia rasoterra che alti. La distanza da far percorrere al pallone non è un problema, i filtranti li prova anche quando gioca più vicino alla difesa. Il fatto è che a volte Sarr esagera e cerca di verticalizzare troppo in fretta. La ricerca del passaggio risolutore potrebbe suggerire di avanzare di qualche metro il suo raggio d’azione, anche perché ha un ottimo tiro dalla media distanza, sia di potenza che ad effetto. A dimostrazione delle sue qualità balistiche, in Senegal batteva le punizioni e si era guadagnato il soprannome di Roberto Carlos, nonostante le calciasse di interno. Conte apprezza sempre le mezzali in grado di occupare tanto campo e potrebbe essere l’allenatore adatto a sfruttare il tiro dalla distanza di Sarr. La salvezza del Metz quest’anno passa anche dai suoi piedi, ma c’è già curiosità di vedere cosa potrà fare la prossima stagione tra le mani del tecnico leccese.
Nuno Mendes, 2002, PSG (Portogallo)
Esiste al giorno d’oggi un talento più precoce di Nuno Mendes? Dopo una singola stagione da fenomeno allo Sporting Clube (fenomeno in senso letterale, come qualcosa che appare, si mostra), il terzino portoghese è stato rapinato nelle ultime ore del mercato estivo dal PSG in quella che inizialmente sembrava una semplice operazione di accumulazione di talento. E invece Mendes si è da subito ritagliato uno spazio da protagonista in una squadra che sembra un film della Marvel: per adesso sono quasi mille i minuti giocati tra campionato e Champions League (dove, come a dimostrazione di quanto sfacciato sia il suo talento, è sempre partito titolare se si esclude la prima trasferta contro il Bruges). La cosa più stupefacente, in questo senso, è che Mendes abbia non solo confermato le sue qualità in un contesto decisamente più competitivo rispetto a quello dove si era affermato la scorsa stagione, ma che abbia lasciato la sensazione che ci sia ancora molto da scoprire del suo talento. Un talento che abbina un incredibile equilibrio in velocità nel lungo, soprattutto palla al piede, a un’abilità già navigata (nonostante i 20 anni ancora da compiere) nell’uno contro uno in difesa. Mendes lascia a bocca aperta non solo quando prende velocità e sembra bruciare l’erba sulla fascia sinistra, insomma, ma anche per la maturità con cui difende in uno contro uno, quando diventa duro come uno scoglio. Forse il picco delle sue prestazioni in stagione è arrivato nella partita di ritorno contro il Manchester City (seppur persa dal PSG) quando, costretto a difendere per quasi tutta la partita contro una delle squadre che attacca meglio in Europa, non è mai stato saltato in dribbling né da Mahrez né da Bernardo Silva, vincendo quattro contrasti su quattro. Il 2021 ha portato anche l’esordio in Nazionale maggiore, dove ci ha messo pochissimo a diventare titolare sull’out basso di sinistra.
Cosa aspettarsi da un giocatore che a 19 anni sembra aver già raggiunto tutto in carriera? La verità è che per Nuno Mendes adesso arriverà il difficile (cioè l’ancora più difficile, perché non c’è nulla di facile nella carriera che ha avuto fino ad adesso). Perché se la solidità del talento è ormai data per scontata, adesso arriveranno le verifiche sulla continuità delle prestazioni, e sulla crescita in quegli ambiti del gioco in cui sembra ancora acerbo - verifiche che, credo, farà in primo luogo il PSG, che da qui a fine stagione dovrà decidere se spendere altri 40 milioni di euro (oltre ai 7 già spesi) per acquisirlo in via definitiva. Ad esempio sulla creatività nell’ultimo quarto di campo, che lo vede ancora un giocatore piuttosto meccanico nelle scelte, o sul coraggio nel prendersi responsabilità in fase di costruzione (attualmente, secondo Fbref, è appena nel 24esimo percentile per passaggi progressivi).
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Stiamo comunque parlando di un giocatore capace di queste cose nell’ultimo quarto di campo.
Nuno Mendes è tutto fuorché un giocatore completo in tutti gli aspetti del gioco di un terzino del 21esimo secolo, ma sarebbe assurdo chiederglielo a questa età e con così poca esperienza. Proprio per questa ragione sarà eccitante vedere la sua evoluzione nel 2022: perché se questo è il punto di partenza, bè, sky is the limit.
Joe Gelhardt, 2002, Leeds (Inghilterra)
Con quel nome sembra un personaggio di Unglorious Bastards, mentre con quel fisico starebbe bene nei panni di un eroe proletario di un film di Ken Loach. Gelhardt gioca in attacco e ha una durezza un po’ bovina, di quelle che sembrano avere i talenti precoci del calcio inglese come Rooney o Milner nei loro giorni di fioritura. Come Milner, Gelhardt gioca nel Leeds, ma è stato paragonato a Rooney (d’altronde è nato a Liverpool e tifa Everton). Come lui ha il baricentro basso, il corpo tozzo che mostra un’esplosività sempre un po’ inattesa. Un modo di farsi spazio fra i difensori avversari intenso e brutale. Come Rooney, e come marchio di fabbrica della scuola calcistica inglese, calcia molto bene in porta, con una tecnica pulita.
Gelhardt è mancino e quando si avvicina ai venti metri è un essere umano col chiodo fisso. Lo vedi da come si muove, che smania per trovare lo spazio per il tiro. La preparazione alla conclusione, il modo pazzo e lucido con cui riesce sempre a trovare un varco per tirare, è una delle sue migliori qualità. Predilige i tiri violenti che assecondano le parabole infami dei palloni contemporanei, che si alzano a ridiscendono prima di oltrepassare la traversa. Ma sa calciare anche a giro, in modo secco e senza fronzoli. È cresciuto nel Wigan, dove ha messo insieme quasi venti presenze appena maggiorenne. Lo volevano in tanti e alla fine lo ha preso il Leeds. A metà dicembre ha segnato il suo primo gol tra i professionisti, contro il Chelsea, attaccando rapido il primo palo su un cross basso. Dopo il gol era così fuori di testa che gli hanno dovuto dare istruzioni di come si esulta, magari godendosi il settore proprio davanti ai suoi occhi.
Enes Sali, 2006, Farul (Romania)
Fra i nomi di questa lista, nessuno vi sembrerà più bambino di Enes Sali, e in effetti nessuno lo è, visto che Sali ha appena 15 anni. Ad appena quindici anni, però, con un fisico che non ha vissuto nessuno sviluppo precoce, ha già esordito tra i professionisti e segnato il suo primo gol.
La sua è una storia strana. Nato in Ontario, ha iniziato a formarsi nelle accademie canadesi, prima di essere stato notato dal Barcellona in un torneo giovanile. Dopo due anni in Catalogna Gheorghe Hagi ha convinto il padre di Sali, nato in Romania, a tornare nel paese natale per giocare nel Vitorul Costanza. A settembre è diventato il giocatore più giovane della storia a segnare nel campionato rumeno.
Sali gioca ancora come quei bambini iperdotati che riescono a manipolare con sensibilità estrema una sfera quasi più grande di loro. Mentre corre per il campo sembra portarsi dietro il pallone come un piccolo pianeta satellite che non si allontana mai troppo dal suo piede, quando riceve defilato sulla sinistra e inizia a convergere verso il centro. È davvero troppo veloce per i difensori del campionato rumeno, riesce a frazionare lo spazio troppo minuziosamente per permettergli l’intervento. Che sia piccolo non significa che sia semplice da spostare, quando accelera palla al piede dimostra una certa resistenza al contatto avversario. Per segnare il suo primo gol si è esercitato in un’azione alla Lionel Messi, andando più veloce di tutti gli altri, attraversando tasche di spazio che gli avversari non riescono a controllare.
Fare previsioni su un ragazzo di quindici anni è semplicemente impossibile. Fra le variabili più interessanti, di certo, quella fisica: non essendo ancora del tutto sviluppato, è difficile capire cosa diventerà il corpo di Sali, e come quindi lo costringerà a cambiare tecnicamente. Ora è praticamente un calciatore-bambino.
Gianluca Busio, 2002, Venezia (Stati Uniti)
Il 7 settembre, quando ancora non sapevamo nulla di lui, Emanuele Atturo scriveva: “Gioca trequartista e prova a far scomparire la dimensione fisica del calcio dietro la sua tecnica. Ha il gusto dell’ultimo passaggio raffinato e per il calcio di punizione tirato sopra la barriera. Dalla prospettiva falsata dei video su YouTube, sembra Marcelo: non solo per un’approssimativa somiglianza fisica, anche per la rilassatezza da spiaggia con cui gioca la palla”. Dopo un girone d’andata in cui è stato quasi sempre titolare abbiamo capito che Gianluca Busio è un giocatore molto più concreto di quanto il suo stile efebico non dicesse. Partito giocando da play, è migliorato costantemente nella prima metà di stagione quando è stato spostato a fare la mezzala e a fianco gli è stato messo Ampadu, che lo ha sgravato dai compiti difensivi più pesanti e dall’incombenza di giocare troppo spalle alla porta. Con la possibilità di alzare il suo raggio d’azione, sia con la palla che senza, Busio è diventato un giocatore meno banale anche se sempre essenziale: le sue giocate spesso si riducono a unico tocco ma hanno sempre qualcosa da dire. È il tipo di giocatore che sembra sentirsi più con l’assenza che con la presenza: quando non c’è il Venezia sembra giocare immediatamente peggio.
Il girone d’andata ha portato anche il primo gol in Serie A - un tiro senza pretese contro il Cagliari, deviato in porta dalla deviazione fondamentale di Caceres.
Pur non eccellendo statisticamente in quasi niente, Busio rientra tra i migliori del Venezia in molti parametri diversi, a conferma della quantità di gioco che mette in ogni partita: dai contrasti vinti (2.2 per 90 minuti) ai passaggi chiave (0.9 per 90 minuti). In poco tempo, insomma, è entrato a far parte della colonna vertebrale della squadra di Zanetti, ed era tutt’altro che scontato. Non solo perché Busio non ha nemmeno 20 anni e viene da un calcio completamente diverso da quello della Serie A, ma anche perché affermarsi in una squadra che lotta per non retrocedere - lo sappiamo - è ancora più difficile. Il suo 2022 si apre con l’incognita se saprà salire ulteriormente di livello, diventando un giocatore appetibile anche per piani più alti della Serie A. Qualche settimana fa ha dichiarato che l’avversario più difficile incontrato è stato Barella, che forse ha in mente anche come modello a cui aspirare (e adesso sappiamo che il paragone, almeno per caratteristiche tecniche, non è così infondato). La strada è ancora lunghissima, ma se il buongiorno si vede dal mattino i primi passi di Busio sono stati più che incoraggianti.
Aaron Hickey, 2002, Bologna (Scozia)
Alla sua seconda stagione in Serie A, Hickey ha iniziato a correre e a calciare senza paura, e la cosa gli riesce piuttosto bene. Del resto con più di cinquanta presenze a meno di vent’anni Hickey deve avere qualcosa di speciale, ed è uno dei veterani di questa lista. A Sinisa Mihajilovic Hickey piace potete immaginare perché - «Perché ha le palle».
È nato a Glasgow e ha iniziato a giocare negli Hearts. Non è chiaro il motivo per cui un paese dalla scarsa tradizione calcistica recente come la Scozia riesca a produrre tutti questi terzini sinistri forti. Pochi centrocampisti, qualche difensore, nessun attaccante, nessun terzino destro, moltissimi terzini sinistri. Hickey ha giustamente detto di ispirarsi a quelli già più celebri e affermati di lui: Kieran Tierney e Andrew Robertson. Hickey ha quello stile lì: mancino, intenso, temerario palla al piede, con un istinto offensivo notevole e un piede sempre pericoloso, in fase di rifinitura e conclusione.
Quest’anno si sta consacrando, ha già segnato 4 gol e si è preso il posto da titolare sulla fascia sinistra del Bologna in maniera definitiva. Il cambio di modulo di Mihajilovic, passato dal 4-2-3-1 al 3-5-2, lo sta aiutando ad avere più libertà offensiva, di attaccare senza preoccuparsi troppo delle conseguenze. Anche perché alle sue spalle può contare su Theate, uno dei migliori difensori della prima parte del campionato. A fine anno ha segnato anche con un pregevole tiro di piatto col destro, il piede debole. Ma Hickey calcia bene con entrambi i piedi, «è una dote molto naturale» ha detto.
In difesa è ancora a volte disattento, e leggerino nell’uno contro uno, ma nel nuovo ruolo può cominciare a lavorare su questi difetti in tutta tranquillità.
Brandon Soppy, 2002, Udinese (Francia)
Ci sono calciatori di cui non conosciamo l’esistenza finché non compaiono davanti ai nostri occhi, e a quel punto ci sembrano i migliori calciatori mai nati. Dove lo nascondevano, Brandon Soppy, prima che comparisse in campo con la maglia dell’Udinese contro la Roma?
Una partita sembrata una grande rivelazione di un talento generazionale. Un calciatore dalle doti fisiche debordanti, e una tecnica niente male, la cui esuberanza, confinata nel ruolo del terzino destro, ci è sembrata francamente sprecata. Dopo la partita per Luca Gotti non c’erano che domande su Soppy, e il tecnico - generalmente un moderato - ha rilanciato la Soppy-Mania: «Ha potenzialità altissime, sia fisiche che tecniche: oggi ne avete visto un assaggio. Dipende da lui: è spavaldo e istintivo, deve maturare in alcuni aspetti senza però perdere questi. A 19 anni è sceso in campo all’Olimpico senza nessun problema».
In realtà Soppy non veniva dal nulla, anzi. Contro la Roma era il suo terzo ingresso a partita in corso in Italia, ma aveva già nove presenze con la prestigiosa maglia del Rennes - una delle squadre che negli ultimi anni ha lanciato più talenti.
In Francia ha giocato anche da difensore centrale, che poi sarebbe il ruolo in cui è cresciuto, prima di venire spostato sull’esterno per lasciarlo libero di correre e dribblare. La sua formazione da difensore, però, gli ha lasciato in eredità un’attenzione in copertura che gli tornerà utile per giocare un po’ di più con l’Udinese, dove finora è stato chiuso da Molina.
Non siamo stati gli unici folgorati da Soppy, dopo le sue prime comparse in Francia era uscito un articolo piuttosto entusiasta su France Football. Nell’articolo vengono citati i suoi modelli - Dani Carvajal, Aaron Wan-Bissaka - e ci si è interrogati sui suoi limiti - «Devo ancora migliorare nella concentrazione durante la partita, anche se sto già migliorando». Spesso questi calciatori che in una partita ci sembrano i più forti del mondo, poi finiscono nell’anonimato. Dopo quella mezz’ora contro la Roma Soppy ha messo insieme altre presenze, più che altro entrando dalla panchina per fare un po’ di casino, ma non ha ancora suggerito di potersi prendere il posto da titolare. Come si dice, calma e gesso.