
Ci chiediamo spesso: qual è il miglior film sul calcio? Sinceramente: è una guerra fra poveri e io ci ho rinunciato.
Penso, su questa testata, di trovarmi in mezzo a molta gente che la pensa come me quando dico che è impossibile trovare qualcosa che ci renda davvero contenti: semplicemente, guardiamo partite a getto continuo da tempo immemore e abbiamo sviluppato una finezza imbattibile.
Certo, possiamo godere del gesto atletico di Pelé in Fuga per la vittoria, ma obiettivamente non è una bella partita. Tolti un paio di momenti da circo dovuti al fatto che c’erano un pugno di giocatori professionisti in campo, non sembra quasi mai una partita vera, e questo prima ancora che Sylvester Stallone in porta vi faccia esclamare: «il mio vicino di casa a 12 anni era più forte».

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Non ce la possiamo fare. Pure se vedessimo l’ultimo Inter - Juventus diremmo cose tipo «ma figurati se due squadre top pareggiano 4-4», «ma figurati se una difesa di Serie A lascia queste voragini», «si vede troppo che al posto di Danilo c’è Denzel Washington».
Fatta questa doverosa premessa, volevo quindi fare luce su cinque film sul calcio di cui non si parla abbastanza ma che secondo me, nel bene e nel male, ogni appassionato dovrebbe conoscere.
La lista per pura coincidenza inizia con un “tiro caldo” e finisce con un “tiro lungo”, ma non vi emozionate più del dovuto. Pronti via:
HOTSHOT (1986, DI RICK KING)
Da non confondere con la nota saga demenziale Hot Shots! con Charlie Sheen, che anticipa di quattro anni, Hotshot è il film che tutti vogliono che dimentichiate, raccontandovi “ma certo, Pelé ha fatto Fuga per la vittoria, basta, nient’altro, che altro serve? Che gran rovesciata, eh?” e invece no. Pelé ha fatto anche altro, specie in Brasile, dove nel ‘72 è stato persino protagonista di un dramma storico sulla schiavitù. Nell’83 ha fatto un altro film americano intitolato A Minor Miracle, in cui John Huston interpreta un prete che vuole salvare un orfanotrofio in debito, e per questo si rivolge a Pelé – di cui ci raccontano che fu guida spirituale quando era un giovane missionario in Brasile – e gli chiede di aiutare la sua squadra di calcio. È imbarazzante anche per un film per bambini, ma se non altro è talmente povero che hanno fatto prima a ingaggiare ragazzi che sapessero davvero giocare a calcio piuttosto che perdere tempo a cercarne che sapessero recitare. È vagamente basato sulla storia vera di un orfanotrofio di San Diego che Pelé aiutò con delle donazioni.
Hotshot è invece il più divertente. È Karate Kid, ma con il calcio, e fin qui ok. Ma che storia decide di raccontare precisamente, su quello schema? Qui è dove il film sembra dimenticare che la gente tende a tifare per i perdenti e sfortunati, gli underdog, ed elegge a protagonista il figlio 25enne del proprietario della squadra che, tecnicamente buono ma caratterialmente imprevedibile, è messo ai margini della squadra per (onesta, se chiedete a me) scelta tecnica. E quindi che fa? Decide che: «ora vado in Brasile, busso alla porta di Pelé in persona ormai ritirato dal calcio, e gli chiedo di diventare il mio personal trainer. Perché mai dovrebbe rifiutarsi? Io voglio imparare il calcio. Che altri motivi/incentivi dovrebbero mai servirgli?».
Armato della sua arroganza e antipatia rara, “Jimmy” rompe le balle a Pelé (il cui personaggio si chiama “Santos”) e lo convince. Seguono allenamenti assurdi appunto in stile Karate Kid e, come formula richiede, Pelé gli insegna la mossa segreta, il tiro imprendibile, il gesto a tutt’oggi conosciuto negli Stati Uniti come “Pelé kick”: la rovesciata. Jimmy torna in America e usa il suo privilegio di figlio del padrone per forzarsi il posto in squadra, meritandoselo poi a suon di prestazioni finalmente degne di nota. Ovvio che poi vince la finale segnando in rovesciata, ma il vero capolavoro è che la squadra avversaria era passata in vantaggio con un incredibile colpo da giocoliere in cui l’attaccante aveva bloccato la palla con entrambi i piedi e, sollevandosela da dietro, aveva fatto un pallonetto al portiere con una specie di colpo dello scorpione. Illegale, dite? Ma ammesso che sia legale: mi spiegate chi diavolo se la ricorderebbe una rovesciata in una partita in cui si è visto un numero del genere? Chi si esalterebbe per un colpo che è riuscito cinque volte a Mauricio Pinilla quando si è appena vista una mossa che manco gli Harlem Globetrotters?
Ciliegina sulla torta: quella che dovrebbe essere la partita più importante della stagione viene giocata su un campo da football americano in cui non hanno manco avuto il permesso di cancellare le righe delle yard con annessa numerazione. Vero colpo di scena finale: questo è il film che il regista/sceneggiatore Rick King ha girato dopo aver venduto un altro soggetto che avrebbe in realtà voluto realizzare lui, un’idea bizzarra su surfisti che rapinano banche. Esatto: è a lui che dobbiamo la prima stesura di Point Break (per cui è ancora accreditato).
THE CHAMPIONS (1983, DI BRANDY YUEN)
Eh no, Shaolin Soccer non è stato il primo film cinese a unire calcio e kung fu. C’era ad esempio questa chicca con Yuen Biao, leggenda di Hong Kong e co-protagonista di diversi classici con Jackie Chan. Qui l’idea non è tanto unire calcio e kung fu esplicitamente, come parte integrale della trama, quanto di piegare la classica commedia alla Jackie Chan a una storia sportiva, e utilizzare le incredibili abilità marziali/circensi di Yuen Biao per fargli fare il giocoliere con la palla. E in queste cose, Yuen era secondo solo a Jackie Chan.
Ora: che il calcio in Cina non sia a chissà quali livelli lo si capisce dalla scena in cui Yuen, in cerca di rifugio/nascondiglio per circostanze rocambolesche, fa un provino per la squadra professionista locale (che per qualche ragione ha la maglia del Brescia) che consiste nel tirare rigori a porta vuota a cui l’allenatore reagisce con commenti tipo: «6 su 10, non male!». La storia si concentra poi sulla acerrima rivalità che nasce tra Yuen, imprevedibile stella nascente del calcio, e il grande campione veterano “King”.
Il film è uno spasso composto da trovate a getto continuo, e ad essere sinceri la migliore non ha a che fare con il calcio bensì con una sfida di rock acrobatico in cui i due rivali si prendono a calci usando creativamente le loro partner come arma contundente. Le partite sono comunque spettacolari. Yuen si inventa dei dribbling surreali che oggi sfonderebbero su TikTok e spingerebbero Piqué a tempestarlo di telefonate per farlo entrare nella Kings League. E un’altra cosa che Yuen ha imparato da Jackie Chan è una disarmante modestia: non ricordo altri film sportivi dove il gol decisivo non è una prodezza dell’eroe né l’inaspettato guizzo del giocatore più sottovalutato, bensì un macchinoso e surreale autogol del villain. Applausi a scena aperta.
DON CAMILLO (1984, DI TERENCE HILL)
Don Camillo è un’istituzione: faceva ridere perché era un prete, ma era anche irascibile e faceva a botte, che da un prete non te l’aspetteresti! No? Giusto? E sì, anche per i litigi con Peppone, ma non voglio buttarla in politica. Il punto è: dovendone fare un remake, perché non prendere direttamente un famoso picchiatore come Terence Hill? È un’idea geniale. Sapete a chi è venuta? A Terence Hill. È il suo esordio alla regia.
Ok, questo non è strettamente un film sul calcio, ma è un film in cui il calcio ricopre un ruolo molto importante: secondo me, qualsiasi film che finisce con un’epica partita di calcio il cui risultato determina la sorte del protagonista è considerabile un film sul calcio, altrimenti non dovremmo includere nemmeno Fuga per la vittoria, e se non consideriamo Fuga per la vittoria le vostre classifiche sui film più belli sul calcio vanno a farsi benedire (da Don Camillo). Comunque: Terence Hill rifà il primo film appoggiandosi alla rivalità tra la squadra di calcio della parrocchia (gli Angeli) e quella del partito (i Diavoli) come arma principale per risolvere il conflitto. La sua operazione non è diversissima da quella di Yuen Biao in The Champions: piegare lo sport al suo meno complesso, ma altrettanto distintivo e leggendario, stile di coreografo d’azione. E, ovviamente, gettare i semi per la futura creazione di Don Matteo. Ma soprattutto: barattando le finezze di Guareschi per una storia di rivali dall’opposta filosofia di vita alla guida di bande di ragazzini costantemente in rissa tra di loro, Terence Hill praticamente inventa Cobra Kai con 30 anni di anticipo. Nel dubbio poi, riempie i tempi morti con matrimoni in skydiving e sessioni di roller skating in chiesa.
Per quanto riguarda le partite di calcio l’approccio è a suo modo interessante: le allegre scazzottate surreali alla Trinità vengono mischiate alla slow motion di Fuga per la vittoria, con risultato qua e là apprezzabile. Nel match decisivo arrivano le guest star di lusso: Boninsegna gioca per Don Camillo, mentre Pruzzo, Ancelotti e Spinosi giocano per Peppone. La scena di Ancelotti che afferra il polso di un ragazzino e lo picchia col suo stesso pugno è memorabile. Il finale di pioggia e fango anticipa di 30 anni la megarissa in galera di The Raid 2 (sto scherzando, è agghiacciante).
UNITED PASSIONS (2014, DI FREDERIC AUBURTIN)
Ah, la storia dei Mondiali di calcio. È indubbiamente affascinante. È teatro di mille imprese e storie emozionanti. I calciatori che hanno scritto i momenti più memorabili. Gli allenatori che hanno ottenuto i risultati più impensabili. I tifosi che hanno vissuto avventure che hanno segnato la loro vita... Macché! United Passions vuole raccontarvi la storia di un pugno di incravattati che dissero «secondo me se organizzassimo per benino un torneo internazionale, la gente pagherebbe per vederlo» e si occuparono di telefonate e burocrazia varia. È la storia della FIFA.
Cosa c’è di interessante da sapere della FIFA al di là degli scandali sulla corruzione? Questa è una domanda a cui il film non sa ma soprattutto non vuole rispondere, perché – carramba! – è finanziato in prima persona proprio dalla FIFA sotto la specifica supervisione di Sepp Blatter, che ovviamente ha intenzione di dipingersi unicamente come una persona integerrima contro ogni forma di ingiustizia. Sul serio: la disperazione dello sceneggiatore che si chiede “e allora cosa racconto?” è palpabile per tutte e due le ore di durata, durante le quali vediamo un rassegnato Gerard Depardieu nei panni di Jules Rimet, un sottilmente sarcastico Tim Roth nei panni di Blatter, ma soprattutto l’australiano Sam Neill nei panni convenientemente sommessi del brasiliano Joao Havelange.
Il colmo: l’unica cosa di cui trovano interessante vantarsi è di come abbiano imposto al Sud Africa di superare i problemi dell’Apartheid prima di organizzare un Mondiale da loro, mentre oggi sappiamo che delle altrettanto importanti controversie sul Qatar se ne sono altamente sbattuti. Il vero colmo: costato ben 25 milioni di dollari, il film non trovò uno straccio di distribuzione fino a quando non scoppiò la bolla che fece arrestare diverse persone e costrinse Blatter alle dimissioni: a quel punto riuscirono a piazzarlo su qualche schermo, ma il primo weekend portò a un incasso di ben 600 dollari con una media di tre spettatori per sala al giorno. In Italia arrivò dritto in TV, e sinceramente non so cosa ci spinse a farlo visto che, in un film che si sforza di essere positivo e celebrativo, l’unica accusa esplicita che viene mossa è a carico dell'Italia ed è quella di aver rubato i Mondiali del ‘34.
LONGSHOT (1981, di E.W. SWACKHAMER)
Ok qua ho leggermente imbrogliato, ma secondo me ne vale la pena. Si tratta sempre della solita formula del film sportivo alla Hollywoodiana, ma… sul biliardino. Sul calcio balilla, chiamatelo come volete. Sì, quello lì con le manopole, gli omarini che si muovono a pendolo (vietato frullare), e così via. Inizia con un ragazzo e il suo migliore amico che, in contrasto alle pressioni dei loro genitori bacchettoni, vogliono rinunciare al college per andare in Europa a diventare giocatori professionisti di biliardino. Lui è Leif Garrett, che due anni dopo si distinguerà per essere l’unico dei Ragazzi della 56a strada di Coppola a non diventare famoso neanche per 5 minuti.
La nozione di giocatore professionista di biliardino mi ha mandato in crisi. Ho dovuto indagare. Ho scoperto che i Mondiali esistono, ma li fanno negli Stati Uniti (!) e hanno iniziato nei tardi 2000. Per cui nel 1981, tecnicamente, questa trama era persino più surreale di adesso. Ora immagino che la vostra domanda sia “come si fa a rendere cinematografico il biliardino?”. Se pensate che il film lo sappia, il vostro ottimismo è invidiabile. La regia ha solo tre mosse: 1) campi larghi in cui non vedi manco dove sta la palla; 2) rapide riprese strette ad altezza omarino mentre fa una mossa assolutamente basica; 3) primi piani sulle reazioni emotive dei giocatori a suggerire cose che non vedi. Le musiche belle pompate fanno quello che possono, il montaggio è alla disperata. Quasi tutti i gol sono fuori quadro. In compenso, almeno capiscono di dover raccontare di un underdog sognatore, e lo infilano in una specie di triangolo romantico che gli movimenta la gita e potrebbe complicare i sogni di gloria.
Il gol decisivo è demenziale: la palla si ritrova di colpo inspiegabilmente sospesa tra portiere piegato in avanti e difensore piegato all’indietro, e parte una lenta catapulta che si infila mestamente nella porta avversaria mentre sembra di sentire il regista che dice: «raga tenete le mani lontane dagli altri omarini se no non torniamo più a casa». Capolavoro.
BONUS: I MIEI CINQUE MOMENTI DI CALCIO CINEMATOGRAFICO PREFERITI
5- Mean Machine (2001, di Barry Skolnick): Vinnie Jones costretto a interpretare il ruolo del regista/fantasista (a pari merito con Sergio Brio che palleggia un’arancia in Boris, S3E11, 2010, di Davide Marengo).
4- Shaolin Soccer (2001, di Stephen Chow): il portiere, prima del rigore, telefona a sua moglie per dirle che l’ama.
3- Battleship (2012, di Peter Berg): in una partitella internazionale tra marines, il protagonista Taylor Kitsch si procura un rigore e il suo avversario Tadanobu Asano gli fa: «Esistono due tipi di idioti: chi guarda dove sta per tirare, e chi guarda dove NON sta per tirare. Tu che tipo di idiota sei?». Taylor Kitsch tira alto. Una delle rare volte in cui ho avuto l’impressione che Hollywood avesse davvero, finalmente, capito il calcio.
2- Goal II: Living the Dream (2007, di Jaume Collet-Serra): durante il match finale, a un certo punto il Real Madrid schiera insieme i due protagonisti fittizi (la mezzale Gavin Harris e la punta Santiago Nunez) più Beckham, Zidane, Ronaldo, Raul e Guti. Nessun mediano. Difesa a tre Roberto Carlos, Gravesen e Cicinho. Non fatela vedere ad Allegri che gli viene un infarto.
1- Fantozzi (1975, di Luciano Salce): Fantozzi fa autogol direttamente da rimessa dal fondo. Imbattibile.