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A che punto è la cultura del calcio in Cina
14 nov 2016
La Cina ha dichiarato di voler vincere i Mondiali del 2050, quanto manca?
(articolo)
14 min
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Lo scorso agosto, a Pechino, nel distretto di Chaoyang, ero seduto a un bar con Francesco Abbonizio, uno dei fondatori della scuola calcio internazionale Beijing Kickers e interprete al Wuhan Zall di Ciro Ferrara. Durante la cena cercavamo di allungare lo sguardo verso il televisore del pub, che stava trasmettendo Arsenal-Liverpool alla prima giornata di Premier League 2016-17. Il pubblico cinese era entusiasta, rapito dal potere ipnotico di quella partita che a loro doveva davvero sembrare di un altro pianeta per i ritmi infernali e per la grande atmosfera di Anfield.

Ho intervistato Francesco per capire meglio come era strutturato il calcio giovanile cinese. Quando gli ho chiesto se è possibile che la Cina vinca il Mondiale nel 2050, come si augura, Francesco mi ha dato una risposta meno netta di quella che si riceve di solito. «Se vogliono progredire devono creare una cultura calcistica, e per farlo ci vogliono vent’anni. Paesi come Corea e Giappone ci dicono proprio questo. Il Giappone per arrivare allo stato attuale è partito dai tempi di Zico, erano i primi anni ‘90, ora è il 2016 e vedi che la cultura calcistica giapponese è importante. Quando anche i cinesi riusciranno in questo intento, potranno ottenere risultati».

L’immenso ritardo che anche oggi esiste fra Cina e Giappone non è dato solamente dal fatto che negli anni 2000, il dragone è stato afflitto da continui episodi di corruzione e combine, che si sono risolti solo nel 2013 con l’operazione Black Whistle List. Il problema è a monte, da ricercarsi negli anni ’80, quando la Cina si stava aprendo al capitalismo. Come racconta Rowan Simons (allenatore inglese fondatore della scuola calcio China Football Club), nel suo libro Bamboo GoalPost, ai tempi non esisteva affatto il concetto di calcio amatoriale o dilettantistico. In questo modo la Cina negli anni ’90 si è approcciata al professionismo con un bacino d’utenza nettamente inferiore rispetto a quello nipponico.

I vari club volevano concentrarsi subito sulla formazione dell’atleta di alto livello, senza però concentrarsi sullo sviluppo del calcio di base. Quanto questa politica fosse sbagliata lo raccontano gli scarsi risultati della Nazionale e le innumerevoli delusioni. Il punto più basso il calcio cinese lo ha forse toccato il 19 maggio del 1985, quando al primo turno di qualificazioni per il mondiale azteco, la Cina fu battuta in casa al Worker Stadium di Pechino per 2-1 da Hong Kong. Una perfida vendetta, dato che l’anno prima Cina e Gran Bretagna avevano sottoscritto il trattato che avrebbe decretato la fine del dominio inglese su Hong Kong a partire dal 1997.

La riforma

Nel 1994 si disputò in Cina la prima lega professionistica, con un anno di ritardo rispetto a Corea e Giappone e un ventennio dopo rispetto a Hong Kong, che istituì la sua prima lega professionale addirittura nel 1968. Con la Chinese Jia-A League i club dovettero riformarsi: dapprima appartenevano tutti ai governi locali, ma con l’avvento di una nuova era si era creato lo spazio per l’intervento degli investitori privati, non solo nel calcio, ma in tutti i settori industriali in rapida ascesa. In quegli anni la Cina ha visto crescere il proprio PIL fino al+14%, grazie soprattutto al “New Socialist Market” di Deng Xiaoping.

In un contesto del genere il calcio diventava un ottimo mezzo per mettere in vetrina il proprio marchio. La Marlboro fu il primissimo main sponsor del campionato e le squadre furono acquistate da gruppi privati o statali (furono poche quelle che rimasero in mano ai governi locali): nacquero così gli attuali Beijing Guoan (Citic Group), il Shanghai Shenhua (società statale attiva nella produzione e la lavorazione del carbone) e il Guangzhou, che ai tempi era di proprietà della società Apollo. La particolarità del nuovo calcio cinese risedeva nei brand name che mettevano in risalto la società proprietaria della squadra, oppure lo sponsor.

Anche i loghi delle varie squadre sono stati influenzati nel corso del tempo dalle aziende, prendiamo come esempio le squadre già citate di Pechino e Shanghai. Il Guoan ha ben in evidenza il marchio della Citic al centro del proprio stemma, mentre i Blue Devils di Shanghai, hanno cambiato molte proprietà nel corso della loro storia e ora appartengono alla Greenland Group, società per il 51% statale che opera nel settore del Real Estate. Anche in questo caso il nome Greenland è evidente nel logo, affiancato da ambo i lati da una casa con un albero, a sottolineare la peculiarità ecosostenibile del marchio.

Un calcio mutevole

La Cina dagli anni ’90 in poi è cresciuta senza limiti, a discapito della propria tradizione, sommersa dal nuovo cemento e da uno sviluppo dei settori delle telefonia mobile, piattaforme social e tutto quello che concerne il virtuale. Nella Cina globalizzata e che si pone come nuovo traino dell’economia mondiale si può parlare di Rivoluzione Culturale 2.0: il capitale prenderà il sopravvento sulla storia, e il virtuale sul reale. Secondo lo studio riportato nel saggio “Come vendere il riso ai cinesi” in media un cittadino cinese trascorre il 70% del suo tempo libero online.

Lo sviluppo dell’economia sembra poter fare a meno del passato, ma il calcio può permettersi di lasciare indietro il proprio pubblico? Quando parliamo della mancanza di cultura nel calcio cinese di oggi (in alcune aree) e di come la riforma professionistica sia da considerarsi un’occasione mancata, non dobbiamo solamente pensare al fatto che le squadre cambiano colori sociali e loghi a seconda degli umori dell’azienda proprietaria o per motivi di sponsor. Molto spesso si è assistito a cambi di città o addirittura di provincia, con squadre che nel corso della loro breve storia hanno percorso la Cina intera, senza mai mettere radici nel territorio per creare un forte seguito di pubblico.

Dal Guizhou….

A Beijing.

Merita una disanima il caso del Beijing Renhe, squadra del distretto sud occidentale di Fengtai che milita nella China League One, al suo primo anno a Pechino. Non si tratta di una squadra di nuova fondazione, visto che nella stagione 2015 militava nella Chinese Super League con il nome di Guizhou Renhe, nell’omonima regione ai confini con lo Yunnan (sud-ovest), nella capitale Guyang, a 2100km da Pechino, o se preferite, 22 ore di treno (alcune tratte indicano anche un giorno e 11 ore).

Ora provate a mettervi nei panni di un tifoso di Guizhou, che vede partire la propria squadra verso la parte opposta della Cina, consapevole di dover spostare il proprio tifo verso la seconda squadra della città che milita nella lega inferiore. Allo stesso tempo appaiono estremamente perplessi i tifosi di Pechino nel distretto di Fengtai, che vedono arrivare in città una quarta squadra professionistica, dopo il leggendario Bijing Guoan in CSL, il Beijing Enterprises nella League One e infine il Beijing Institute Technology FC in League Two.

Entrare al Fengtai Stadium

Eravamo in ritardo al Fengtai Stadium in occasione della partita fra il Beijing Renhe e il Qingdao Jonoon valida per la China League One. Alla fine dei gradini, scalati due alla volta, la vista che mi si è presentata ha scoraggiato il mio entusiasmo. L’impianto dl Beijing Renhe può ospitare fino a 40.000 persone, ma a vedere la partita quella sera eravamo in 2.800, senza alcuna passione.

Fra le fila del Beijing Renhe militano vecchie conoscenze del calcio europeo: Misimovic, Jelavic e Sun Jihai. Il trequartista serbo nel 2008 è stato uno dei protagonisti della grande cavalcata del Wolfsburg verso il titolo nazionale, assieme al connazionale Dzeko e a Grafite, sotto la guida di Felix Magath, anch’egli oggi in Cina, recentemente ingaggiato dallo Shandong Luneng. Misimovic dopo l’esperienza in Germania si è trasferito in Turchia al Galatasaray e in Russia con la maglia della Dinamo Mosca, per poi emigrare in Cina nel 2012, dove ha vinto una Chinese FA Cup e una Supercoppa, per poi ritirarsi momentaneamente dal calcio giocato nel 2015.

Il difensore centrale Sun ha un passato in Premier League e a 39 anni fa ancora la differenza grazie a una condizione fisica invidiabile. È stato uno dei primi cinesi ad affacciarsi al panorama europeo. Si è consacrato in patria con la maglia dello storico Dalian Shide, per poi passare al Manchester City dell’era pre sceicchi, dove ha collezionato 130 presenza fra Premier League e Championship, prima di passare allo Sheffield Utd nel 2008. Durante la visita del presidente Xi Jinping nel 2015 nel centro sportivo del Manchester City, Sun Jiahi era presente come ambasciatore del club e poco dopo, è stato inserito nella Hall of Fame del calcio inglese. Una scelta dettata dalla convenienza politica più che dai meriti sportivi.

Torniamo indietro nel tempo, al 1995, quando il Beijing Renhe nasceva a Shanghai con il nome di International. Nel 2005 a seguito dello scandalo combine e per l’impossibilità di mantenere certi investimenti che avevano portato il club a competere per il titolo, i proprietari (Cosco Real Estate) decisero di spostare il club nella confinante provincia di Shaanxi, rinominandolo Xi’an International, per poi vendere la totalità delle azioni alla Baorong investment.

I cambiamenti (per l’allora) Inter Xi’an sono all’ordine del giorno, e nel 2010 la Renhe Commercial Holding Company (Real Estate per centri commerciali, nonché gli attuali proprietari dell’Hull City), inizia a investire nel club diventandone il proprietario di maggioranza. L’anno successivo, a causa dei rapporti privilegiati della Renhe con la provincia di Guizhou e la promessa del governo locale di poter usufruire dell’impianto olimpico, la proprietà decide di trasferire il club per la seconda volta nella sua storia, lasciando Xi’an e un pubblico che si stava appassionando, senza squadra per la quale tifare.

Il nuovo Guizhou Renhe ottiene risultati ottimi, vincendo la CFA Cup nel 2013 e la Supercoppa l’anno successivo a discapito del Guangzhou Evergrande. È solo l’inizio di un’altra fine: nel 2015 il Guizhou inaspettatamente conclude il campionato al penultimo posto e retrocede in China League One. Per i tifosi oltre al danno la beffa: la Renhe in seguito ai nuovi progetti di centri commerciali a Pechino decide di portare anche il suo giocattolo nella capitale.

Così mi son ritrovato di fronte a uno stadio dove spiccava l’assenza del numero 12. Il pubblico non partecipava quasi in nessun modo alla partita, quasi non riuscivano a coordinarsi per lanciare cori dei quali non capivo il significato. Non è andata meglio nella seconda partita vista al Fengtai, contro il Wuhan Zall di Ciro Ferrara. A fino primo tempo il Renhe ha l’occasione di portarsi in vantaggio su calcio di rigore, ma il portiere avversario compie un grande intervento, mentre il pubblico non sembra davvero accorgersene, rimanendo completamente freddo.

Una reazione per certi versi logica: la squadra è giunta in città quest’anno, e come ho avuto modo di constatare, grazie alle traduzioni simultanee del mio amico di Pechino, le persone presenti sugli spalti quella sera provenivano dal distretto di Fengtai ed erano in primis supporter del Beijing Guoan. La vera anima della capitale.

Rivalità

Fortunatamente vi sono anche delle realtà più sviluppate del Beijing Renhe. La riforma pubblicata dal concilio di Stato nel marzo è stata implementata con una decisione molto importante, che impedirà ai club di cambiare località a partire dalla stagione 2017.

Nonostante gli esempi citati, l’interesse dei cinesi verso il calcio è in grande crescita. Il calcio, secondo il report pubblicato dal sito Yutang Sport, è stato lo sport più trasmesso e seguito dal pubblico cinese nel 2015. Solo la Premier League è stata capace di rivaleggiare e superare la Chinese Super League per ore di trasmissione. Il pubblico si appassiona e l’affluenza media agli stadi, con sempre più campioni che approdano in Cina, è fra le più alte al mondo. È una moda seguita a metà, perché il calcio non è praticato dalle masse: nel mio viaggio a Pechino ho visto solo campetti da basket, anche di fianco al Worker Stadium, impressione che è stata confermata dal già citato Yutang Sport, che ci dice che il rapporto campi da basket: campi da calcio è di 10:1. Dopotutto il ragazzo cinese sogna di diventare Yao Ming, non di certo Ma Mingyu.

Eppure il calcio è una cosa estremamente seria per i tifosi cinesi e il segno più evidente sono le rivalità molto sentite che convergono in scontri fuori dallo stadio. Anche questo fattore, seppur brutto da raccontare, può avere una sua utilità a creare un forte attaccamento alla propria maglia e ai propri colori. Recentemente uno degli scontri che ha infiammato le tifoserie è il Delta Yangtze Derby fra lo Jiangsu Suning di Ramires e Teixeira e lo Shanghai Shenhua di Guarin e Demba Ba.

Le due città, Nanchino e Shanghai sono divise da pochi chilometri e hanno una storia calcistica molto diversa: i Blue Devils allenati da Manzano erano una delle squadre più in voga all’inizio degli anni 2000, l’ultimo loro titolo è stato vinto nel 2003 ma lo scudetto è stato revocato nel 2013 alla fine delle indagini che hanno fatto emergere tutto il marcio del calcio cinese, con l’arresto del dirigente arbitrale e del vicepresidente federale. Lo Shanghai Shenhua aveva ingaggiato Anelka e Didier Drogba, ma la pesantissima revoca e la sanzione di 6 punti per la stagione del 2013, hanno convinto la dirigenza del The9Game a lasciare gli ormeggi in favore della Greenland Group.

Lo Jiangsu Suning fino allo scorso anno portava il nome di Sainty, la cui proprietà era parte del Guoxin Investment Group Limited., specializzata nella lavorazione di metalli. Una squadra considerata “povera” che non poteva certamente permettersi gli investimenti sconsiderati dei rivali di Shanghai, fino alla stagione 2016, quando sono subentrati i nuovi padroni dell’Inter, i quali hanno allestito un calciomercato faraonico spendendo quasi 100 milioni di euro nella sessione invernale.

Jiangsu Sainty e Shanghai Shenhua si sono affrontate nella finale (andata e ritorno) della Chinese FA Cup del 2015, con la squadra di Nanchino, allenata allora dal rumeno Petrescu, che riuscì a prendere il sopravvento solo nella sfida di ritorno ai tempi supplementari, grazie alla rete del brasiliano-croato Sammir (oggi in prestito all’Hangzhou Greentown).

Un anno dopo le due squadre si sono ritrovate in semifinale, con lo Jiangsu “stavolta” Suning che ha prevalso a Shanghai nella sfida di andata per 3-2. La partita a Nanchino si è giocata in un clima infernale, sorto già fuori dall’Olimpico, con un tifoso dei Blue Devils che è stato circondato e umiliato dagli avversari. Anche la coreografia preparata dai tifosi della squadra di casa esprimeva tutto l’odio nei confronti della squadra di Shanghai. Sao Shua letteralmente significa “prostituta”, è così che viene storpiato il nome dello Shenhua. I “Fiori di Shanghai” diventano “Le prostitute di Shanghai”.

Tifare per resistere al cambiamento

Oltre alla rivalità del Delta Yangtze, lo Shanghai Shenhua disputa il derby di Shanghai contro le Metal Eagles del Sipg di Eriksson (Shanghai International Port Group) e il derby di Cina contro il Beijing Guoan. A loro volta le Imperial Guards di Pechino a partire dagli anni ’90 hanno dato vita a quella che è definita “la rivalità più violenta di Cina” contro la vicina municipalità di Tianjin rappresentata dal Teda.

Nonostante gli episodi negativi fra le tifoserie, alcuni di questi hanno aiutato a creare un forte sentimento identitario. Avrete notato che continuo a riferirmi ai “Blue Devils" di Shanghai come Shenhua, nonostante il fatto che la società produttrice di carbone abbia ceduto il club da più di 10 anni. Eppure si è mantenuto il culto dei Fiori di Shanghai, fino all’arrivo della Greenland Group, che ha subito mutato il nome della squadra per mettere in mostra il proprio brand, scatenando le ire dei tifosi. I supporter hanno fondato il comitato Anti-Greenland, Forever-Shenhua, convincendo la nuova dirigenza a reintegrare “Shenhua” nel nome del club che diviene ufficialmente, Shanghai Greenland Shenhua FC, anche se nessuno si riferisce ai “Blue Devils" con il nome dell’azienda proprietaria.

Uno dei tanti punti elencati dalla riforma riguarda l’abolizione dei brand name, step di estrema difficoltà, che va in totale controtendenza ai 22 anni di professionismo cinese, e forse non è nemmeno necessaria una svolta così epocale. Ragionando all’opposto, se i nerazzurri si chiamassero un giorno Inter-Suning?

Il particolare caso del nome del Shanghai Shenhua si inseriva in un contesto molto più ampio, nel quale la Greenland aveva palesato anche l’intenzione di trasferirsi in un altro stadio, sradicando i “Blue Devils" delle loro radici.

Quand’è che la Cina raggiungerà dunque Giappone e Corea? Nel calcio cinese si parla sempre di professionismo, dei grandi investimenti dei club, i quali possono certamente contribuire alla creazione di un movimento con la loro forte presenza, eppure questo non basta.

In Cina, come ha sottolineato Rowan Simons in una recente intervista, lo sviluppo è avvenuto a livello professionistico, e non di base, creando un forte squilibrio, data la mancanza di infrastrutture e una didattica adeguata. Hulk e Teixeira servono certamente a creare un nome, a costruire un brand, ma gli stessi club dovrebbero pensare di investire molte risorse nello sviluppo del calcio giovanile nelle scuole. La cultura calcistica parte dalle nuove leve, quando il bambino sa che giocare a calcio è una cosa effettivamente divertente.

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