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A modo nostro
29 giu 2015
Sassari ha vinto il suo primo Scudetto giocando un basket non bello, ma coerente con se stesso. Storia di un successo immaginativo e imprevedibile.
(articolo)
9 min
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«Giocando così non puoi vincere mai».

Coach Lou Carnesecca, che a marzo ha compiuto 90 anni e che negli anni '60 ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del basket in Italia, involontariamente raccolse in una frase gran parte dell'analisi sulla finale Scudetto tra Sassari e Reggio Emilia: «La pallacanestro è un gioco immaginativo e imprevedibile, dove c'è solamente una parola che non dobbiamo pronunciare mai: la parola Mai». Immaginativo e imprevedibile, proprio come il Banco di Sardegna. Ecco: con Reggio sopra 2-0 e poi 3-2 con palla in mano due volte per vincere gara-6, Sassari è di riffa o di raffa rimasta in corsa fino a far saltare il fattore campo all'ultimo respiro. Facendo impazzire di gioia una città (e a ruota un'intera regione) firmando una stagione memorabile vincendo tutto quello che si poteva vincere nel nostro Paese — Scudetto, Coppa Italia e Supercoppa Italiana. Con un allenatore, Meo Sacchetti, diventato tutt'uno con l'ambiente da quando nel 2009 ha preso per mano la squadra e l’ha portata prima in A, poi subito ai playoff, infine ai primi trofei. Il suo basket controcorrente e, per l'appunto, immaginativo & imprevedibile, può non piacere ma è innegabile che sia impregnato di idee interessanti, a partire da quella del “Giochiamo sempre a modo nostro, non importa chi o cosa abbiamo di fronte” che è spesso condizione fondamentale per una squadra di successo. In questi anni Sacchetti ha avuto — insieme al ds Federico Pasquini e all'attivissimo presidente Stefano Sardara — il merito di trovare di anno in anno gli interpreti ideali per la sua visione, modificata peraltro nel corso delle stagioni. E se è vero che il minutaggio degli italiani è ridotto, è altresì indiscutibile che il ruolo di Vanuzzo, Sacchetti junior e Devecchi va al di là delle mere cifre. Un capolavoro da annali, insomma. Cerchiamo di capire come Sassari ci sia riuscita.

In gara 3 Logan ha visto la Luce

Partiamo da un dato statistico. David Logan — uno che ha vestito le maglie di Panathinaikos e Maccabi Tel Aviv e che sa bene cosa significhi giocare sotto pressione — ha segnato 0.26 punti al minuto nei primi tre quarti, faticando a entrare in ritmo e sembrando uno passato di lì per caso. Nei 66 minuti di quarto periodo e supplementari, il nativo di Chicago ha segnato 55 punti, ovvero 0.83 al minuto. Qui abbiamo la sublimazione della principale filosofia tattica della Dinamo 2014-15: totale e assoluta fiducia nel talento individuale (spesso debordante rispetto alle rivali) prevedendo la “depenalizzazione dell’errore”, per dirla alla Trinchieri. Un metodo in totale controtendenza rispetto a quanto vediamo in altre squadre. Senza avere giocatori dalle spiccate capacità di lettura, Meo Sacchetti ha dato carta bianca ai suoi: in pratica il concetto è «Percepite il momento della partita e decidete voi cosa è giusto fare e a chi tocca farlo; agli altri lasciamo la preoccupazione di inseguire le nostre invenzioni». In questo senso è evidente come la squadra avesse stabilito che Logan fosse l'uomo di riferimento nei finali di partita anche a discapito di ciò che (non) aveva combinato nei precedenti 30 minuti. Decisione non certo maturata la settimana scorsa.

Diverso invece il discorso per Jerome Dyson, l’altro giocatore capace di inventare canestri dal nulla. Nelle quattro vittorie, Dyson ha segnato 21.8 punti di media, con il 61% da 2 e 6 assist a partita; nelle tre perse ha viaggiato a 6.7 punti di media (compresa la virgola in gara-2) con il 47% da 2, senza segnare neanche un canestro da 3 e fermandosi a 1.7 assist. Nessun giocatore sassarese ha avuto cifre così up & down e nessun giocatore ha inciso così tanto nei successi delle gare playoff (il differenziale resta notevole anche se allarghiamo l'analisi ai quarti e alle semifinali). È peraltro il motivo per cui Dyson, decisivo soprattutto negli ultimi due minuti di gara-7, non ha vinto il titolo di MVP, andato invece a Rakim Sanders, di gran lunga più continuo di lui e dei compagni, per di più senza essere al 100% delle condizioni fisiche.

Sanders ha cominciato a mettere le mani sul premio di MVP qui.

Sassari ha quindi due giocatori capaci più degli altri di inventare da situazioni di 1 vs 1: Dyson ha bisogno di essere messo subito in partita, altrimenti è dannoso; Logan lo si può anche aspettare, tanto alla fine arriva. Il tutto in un sistema in cui la libertà di azione è massima e in cui la funzione di equilibrio è data dalla fiducia reciproca. Un sistema certamente rischioso, che non incontra i favori di molti, certamente poco incline a flirtare con i canoni baskettari, ma sicuramente accattivante nel momento di massimo splendore.

Fin qui la Sassari che conosciamo. Ma non è solo questa la Sassari che ha vinto. I trofei sono arrivati quando la squadra ha saputo aggiungere materiale al suo canovaccio fronteggiando i luoghi comuni (non del tutto campati in aria) che girano attorno al loro sistema almeno dal primo anno di A. La Coppa Italia, ad esempio, è arrivata dopo tre grandi prove difensive con quintetti bassi e cambi sistematici in abbondante quantità, possibile grazie alla straripante versatilità delle ali Sanders e Brooks. Lo Scudetto, invece, è arrivato al termine di una serie in cui Sosa e compagni hanno tirato con il 27.8% da 3 — la peggiore prestazione balistica di una squadra campione in finale. Ma come? Proprio Sassari che sembrava per tutti vivere e morire esclusivamente sull'abilità dall'arco? Eh sì: proprio Sassari.

La Mappa di Tiro del primo tempo di Gara 5: Sassari troverà il primo canestro da 3 con Sosa al 21esimo tentativo, chiudendo alla fine con 2/25. E comunque non andando lontanissimo dal vincere quella partita...

Come la Dinamo sia arrivata fino in fondo ovviando alle percentuali dall'arco sempre più basse ce lo fanno capire due confronti:

- tiri tentati in stagione regolare: 36.9 da 2 (50.6%) / 31.4 da 3 (35.6%)

- tiri tentati nei playoff: 40.7 da 2 (51.4%) / 26.9 da 3 (29.5%)

- tiri tentati nella sola finale Scudetto: 41.3 da 2 (50.5%) / 27.7 da 3 (27.8%)

- rimbalzi offensivi in stagione regolare: 13.4

- rimbalzi offensivi nei playoff: 15.2

- rimbalzi offensivi nella sola finale scudetto: 18.4

Non ci sono statistiche ufficiali sui punti da rimbalzi offensivi, ma possiamo facilmente immaginare che non siano pochi. La prima difesa del Banco di Sardegna è stata dunque l'attacco alle palle che i ferri sputavano. Sfruttando la potenza di Shane Lawal, l’esplosività di Rakim Sanders, l'agilità di Jeff Brooks (per rimanere ai primi tre in graduatoria di squadra), ma facendo pagare anche le scelte tattiche delle avversarie — vuoi per materiale umano a disposizione, vuoi per precise direttive dalla panchina. Chili, centimetri e senso della posizione in abbondanza sono stati fondamentali per raccogliere palloni e abbassare il numero di possessi degli avversari. E se la precisione dai 6.75 latita — per tensione, stanchezza o mille altre variabili — si ovvia con ancora più aggressività a rimbalzo, sfruttando la propria superiorità fisico-atletica. D’altronde sono stati due rimbalzi offensivi negli ultimi secondi di gara-7 contro Milano a far staccare il biglietto per la finale…

A 1'38'' toh! Un rimbalzo in attacco di Sanders...

Dal punto di vista difensivo c'è stato naturalmente anche altro, a cominciare dai recuperi nati grazie all’altro tratto distintivo sassarese, ovvero i raddoppi. Però è nell'aggressività di cui sopra che Sassari ha costruito una buona fetta dello Scudetto, anche perché di fronte aveva una squadra che scontava un gap fisico in tutti i ruoli. Diciamolo subito: la Grissin Bon ha fatto una grande finale. Senza il play di scorta, Mussini; con una guardia tiratrice, Diener, reduce da un infortunio a chiamare il gioco in assenza del play titolare; con il lungo tecnicamente migliore di tutti, Lavrinovic, alle prese con problemi fisici enormi; con un 3 da Eurolega, Silins, anche lui acciaccato. Nonostante tutti i problemi, per lunghi tratti delle sette partite ha offerto un basket migliore degli avversari, con alla base una filosofia diametralmente opposta: meno isolamenti, meno creazione dal palleggio, più circolazione, più passaggi per arrivare a un tiro a percentuale più alta (non a caso, 20.1 assist di media contro 13.6 sardi). Reggio Emilia si è mentalmente persa sul più bello, dopo aver condotto gara-7 fino a 3’40’’ dell’ultimo quarto: a prendersi il successo è stata la squadra arrivata agli ultimi tre minuti della stagione con una visione più lucida di quello che stava accadendo e di quello che andava fatto.

«Possiamo dire di essere orgogliosi, ma la verità è che siamo delusi»: in queste parole di coach Menetti c'è il riassunto della serie e della stagione reggiana. Se volete un'altra immagine prendete le lacrime di un giocatore qualsiasi: quelle di Amedeo Della Valle (che fra dieci anni avrà la bacheca piena con il talento che si ritrova), di Achille Polonara (al quarto anno di fila oltre 16 punti di media in A e cresciuto tantissimo nell'applicazione difensiva), del capitano Cinciarini (sommerso dall'affetto dei tifosi a stagione finita: e ci mancherebbe altro!). Sono tutte lacrime che lasciano il segno, lacrime di chi ha lottato, creduto e infine è caduto.

C'è stato, soprattutto sui social, un fronte molto ampio di critici nei confronti della qualità complessiva di pallacanestro vista nella finale e nei playoff in generale. È innegabile che abbiamo assistito a tanti errori tecnici, a volte anche banali: rimesse senza pressione buttate via, comodi sottomano mandati al macero, difese quantomeno rivedibili in molte situazioni. Ma è altrettanto ragionevole individuare nel pathos, nei colpi di scena, nell'equilibrio fino alla fine, nell'imprevedibilità (appunto...) la bellezza di questa post season. Gara-6 della finale con tre supplementari è stata giustamente celebrata perché non capita tutti i giorni ed è stata l'emblema della differenza sottile che è corsa tra le due squadre per tutta la serie.

Ma soprattutto in 40 giorni Reggio ha giocato 19 partite e Sassari 18, spesso in palazzetti inadeguati (con il caldo protagonista man mano che si andava avanti), con lo stress dei viaggi e con un tasso di infortuni altissimo: almeno in quattro non sarebbero scesi in campo se Gara-7 Per Lo Scudetto non fosse stata Gara-7 Per Lo Scudetto. Se già il livello del nostro campionato non è più tendente verso l'alto – per una lunga serie di motivi, economici in primis —, come possiamo chiedere a questi ragazzi di alzare la qualità giocando con questa frequenza? Non sarebbe meglio concedere 24 ore in più di riposo ai giocatori e di analisi più dettagliate agli staff tecnici? Vale la pena sacrificare la (possibile) qualità del “prodotto” in cambio di tre-quattro prime serate tv e di altrettanti incassi? In Europa, tra i campionati di fascia medio-alta, solo Turchia, Polonia e Lituania fanno disputare una serie playoff al meglio delle sette: la finale. E il distacco tra una partita e l'altra può essere anche di tre giorni. Si può fare, quindi. E state certi che il pathos di una decisiva gara-7 in una serie equilibrata può esserci anche in una decisiva gara-5: per informazioni si consiglia, senza andare troppo in là nel tempo, la visione del quarto di finale 2014 tra Siena e Reggio Emilia. Come per molte altre cose, basta volerlo.

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