Sarebbe bastato vederli a metà campo, mentre si scambiavano un rapido abbraccio e un “in bocca al lupo”, per capire chi era uscito vincitore dallo scontro tra i migliori numeri 12 della storia del gioco. Tom Brady, vincitore come quasi sempre in carriera, con ancora indosso il casco, è rilassato, ci ha fatto l’abitudine nel congratularsi con avversari che ha battuto poco prima. Lo sconfitto, Aaron Rodgers, è frastornato dall’accaduto e lo sguardo perso nel vuoto di chi non ha ancora processato quanto è appena successo.
Nel post partita lo scarto tra le emozioni dei due si è fatto ancora più largo, come se Brady e Rodgers fossero rispettivamente l’allegoria della Vittoria e della Sconfitta. Il primo, tirato a lucido e abbronzato dal sole della Florida, gongolava su Instagram insieme al fido Gronk. Il secondo compare in conferenza stampa sciupato e un po’ trasandato, mentre deve raccogliere i cocci dell’ennesima eliminazione al Championship. La sconfitta per 31-26 sembra averlo invecchiato di dieci anni. Domenica a Green Bay si sono incrociate per la quinta e forse ultima volta carriere e parabole esistenziali che non potrebbero essere più diverse. Tom Brady è spesso raccontato come un personaggio da Disney+, la sua è una storia americana, da guardarsi sul divano con la famiglia, la feel good story del perdente che diventa vincente grazie al duro lavoro e all’abnegazione. Brady è sposato con la donna più bella del mondo, ha tre figli bellissimi ed è legato ai genitori da un rapporto di affetto viscerale. Al contrario, Aaron Rodgers è un personaggio da HBO, contraddittorio, spesso incompreso, impossibile da ridurre ad una sola chiave di lettura. Da anni A-Rod ha chiuso qualunque rapporto con la propria famiglia. L’unico anello che porta al dito è quello del Super Bowl, perché nessuna delle sue relazioni è mai arrivata al matrimonio. Domenica 7 Febbraio a Tampa Tom Brady giocherà il suo decimo Super Bowl. Il sabato precedente, Aaron Rodgers verrà nominato MVP della stagione per la terza volta in carriera, raggiungendo Brett Favre, Johnny Unitas, Jim Brown e proprio Tom Brady in questo club esclusivo. Per quanto la sua stagione sia finita in modo crudele, non dobbiamo dimenticarci che nel 2020 Aaron Rodgers è tornato ai livelli che gli competono, quelli di un perenne MVP.
Rodgers aveva vinto il premio già nel 2011 e nel 2014 ma quest’ultimo è il riconoscimento più inatteso. Fino a pochissimi anni fa Aaron Rodgers era l’incontestato bad man della NFL, il volto più riconoscibile e il braccio più temibile della lega. In quegli anni ci si aspettava, si dava quasi per scontato, che Rodgers finisse almeno sul podio dell’MVP voting. A inizio 2020, però, quell’alone di onnipotenza si stava dissipando. Rodgers aveva 35 anni, un delta di rughe a solcargli gli zigomi, qualche chiazza bianca sulla barba e un infortunio in più alla clavicola. Il braccio era ancora quello di una volta, ma il livello complessivo del suo gioco era in progressivo calo ormai da qualche anno. La sua squadra, pur non avendolo scaricato, aveva iniziato a pianificare il dopo A-Rod. Per la prima volta da dieci anni, il suo nome era fuori dalla top 10 per MVP odds. E invece, proprio quando la mistica del 12 di Green Bay stava iniziando a dissolversi, è arrivata una terza stagione da leggenda. In questa regular season Rodgers ha lanciato per 4299 yard, 48 touchdown e soli 5 intercetti, registrato il secondo passer rating più alto della storia e trascinato al record di 13-3 una squadra che tutti davano in regressione dopo il 2019.
Sarebbe facile parlare di un ritorno al passato, come se Rodgers avesse magicamente riavvolto il nastro di cinque o sei anni, come fecero a loro tempo Brett Favre nel 2009 e Peyton Manning nel 2013, ma i remake avvengono troppo spesso al cinema e molto raramente nel football. La storia di questa MVP season è più ingarbugliata, perché Rodgers non è tornato al passato. Per realizzare questa stagione memorabile, A-Rod ha dovuto vedersela con vecchi fantasmi, nervi scoperti e ferite mai del tutto suturate. Rodgers quest’anno ha fatto i conti col suo passato di uomo e quarterback, a partire dalla sera del 23 aprile.
Incubi da draft
Pochi mesi fa ci ha lasciati Alex Trebek, lo storico conduttore di Jeopardy, morto a 80 anni dopo una lunga battaglia con il cancro. Grazie al suo iconico game show, negli anni Trebek è entrato nei salotti di tutt’America, compreso quello di una villetta di Chico, nella California del Nord. In quella casa l’appuntamento con Jeopardy era rispettato con rigore liturgico da tutta la famiglia Rodgers, in particolare dal secondogenito, che nonostante la giovane età si dimostrava intelligente e ultracompetitivo in qualunque cosa facesse, dai trivia proposti da Trebek al football: il padre racconterà che a cinque anni il pupo sapeva riconoscere con facilità le formazioni offensive dei suoi 49ers e fiondava palloni da una parte all’altra del giardino dei vicini.
All’epoca nessuno si aspettava che Aaron sarebbe diventato un concorrente di Jeopardy e un vincitore della celebrity edition del programma. La sera dello scorso 23 aprile il televisore di Aaron non è sintonizzato su Jeopardy, ma sull’edizione 2020 del Draft NFL. Per quanto sia l’autoproclamato campione mondiale di trivia games, c’è una domanda a cui Rodgers non saprebbe mai e poi mai dare la risposta giusta. Se in quel momento Alex Trebek gli chiedesse «Chi sceglieranno i Packers con la ventiseiesima scelta?», Aaron con ogni probabilità risponderebbe un Wide receiver, magari Justin Jefferson da LSU, oppure un linebacker capace di puntellare la run defense della squadra. In ogni caso, metterebbe le sue fiches su un giocatore in grado di rinforzare il roster per puntare al Super Bowl. Mentre aspetta che il commissioner Roger Goodell annunci la scelta dei Packers, Rodgers sente il telefono squillare, lo sblocca e ci legge un messaggio criptico eppure chiarissimo allo stesso tempo: Quarterback. Con quella singola parola, il suo agente David Dunn gli ha appena suggerito la risposta corretta.
With the 26th pick, in the 2020 NFL Draft, the Green Bay Packers select Jordan Love, quarterback, Utah State.
«Quarterback». Quel messaggio deve aver colpito Rodgers come un pugno nello stomaco, una Madeleine indigesta, che gli ha riportato alla mente al giorno più traumatico della sua carriera, quello del suo Draft. Era il 2005, Aaron era un ventiduenne californiano bello e talentuoso, un po’ arrogante come tutti i quarterback belli e talentuosi, arciconvinto che la sua presenza al draft sarebbe durata giusto il tempo per posare con cappellino e jersey dei 49ers, la squadra che Aaron aveva sempre tifato e che deteneva la prima scelta assoluta in quel Draft. Il suo giorno da sogno si tramutò in un incubo appena i 49ers annunciarono di aver scelto un altro quarterback, Alex Smith da Utah. Sedotto e abbandonato dalla sua squadra del cuore, Aaron rimase ad aspettare per cinque interminabili ore, deriso o compatito da milioni di telespettatori, sempre più paonazzo a ogni nome chiamato che non rispondeva al suo, sorridendo nervosamente mentre dal suo Motorola chiamava il suo agente per sapere cosa diavolo stesse succedendo. Alla fine furono i Packer a porre fine a quel calvario, scegliendolo con la numero 24. Una scelta incredibilmente controversa, visto che Green Bay aveva già un titolare in Brett Favre, leggenda della franchigia ed eroe nazionale del Wisconsin.
Quindici anni dopo ha rivissuto quella stessa scena, seppur a parti invertite. Rodgers, 35enne come Brett Favre nel 2005, si trova in casa il suo sostituto scelto al primo giro. La rabbia per la scelta, i dubbi sul futuro e i fantasmi del passato devono formargli un groviglio di emozioni difficile da sciogliere. Quella Madeleine è davvero stopposa e per evitare che gli resti di traverso, Rodgers la sciacqua giù con quattro dita di tequila. Poi pensa al futuro; per la prima volta, lo fa con la consapevolezza che nel giro di qualche anno la sua esperienza a Green Bay finirà. Seppur doloroso, il Draft 2005, ha aperto il capitolo più bello della sua vita, i tredici anni spesi a guidare i Packers. Il Draft 2020 ne ha sancito in qualche modo la fine. Tra quanto? Un anno? Tre? Quattro? Chi lo sa, resta il fatto che scegliendo un QB al primo giro i Packers hanno messo una data di scadenza sulla sua permanenza a Green Bay.
Per Aaron non è una novità essere messo in dubbio. La sua è una storia di rivalsa, come quelle di tanti fenomeni entrati nella lega tra i dubbi di scout e tifosi e ne sono usciti con una giacca d’oro e un busto a Canton. Tom Brady ha alimentato il suo fuoco competitivo con il ricordo dei 198 giocatori che vennero scelti prima di lui al Draft. C’è un elemento che separa la storia di Rodgers da quella di Brady e tanti altri snobbati. A Brady nessuno ha mai promesso nulla, anzi, già al college doveva sgomitare per rubare snap al più atletico Drew Henson. Il suo draft lo ha vissuto dalla sua casa di San Mateo, con il terrore di non venire draftato e di doversi trovare un lavoro da agente assicurativo. A Rodgers era stato prospettato lo scenario dei sogni: prima scelta assoluta, quarterback della squadra del cuore. Brady, insomma, è quello che al ballo di fine anno temeva di arrivarci senza ragazza, Rodgers è quello che pensava di andarci con l’amore della sua vita e invece l’ha trovata con un altro, mentre tutta la scuola gli rideva dietro. Quella di Aaron Rodgers è una storia di umiliazione. È l’umiliazione che ha forgiato il suo carattere e il suo stile di gioco, nel bene e nel male. Da un lato gli ha bruciato dentro fino a spingerlo a diventare uno dei più forti di sempre, dall’altro ha affilato gli spigoli più acuminati del suo carattere, quelli dipinti da Tyler Dunne in un celebre pezzo uscito nel 2018, nel quale il giornalista di Bleacher Report dipingeva a tinte fosche la personalità di Rodgers. Ne veniva fuori il ritratto di una diva ipersensibile, arrogante, persino crudele con i rookie, incapace di prendersi responsabilità e, soprattutto, dotata di una capacità ineguagliabile di serbare rancore. «Nel mondo dello sport nessuno serba rancore come Rodgers » scriveva Dunne «il rancore in Rodgers non passa mai. Resta appiccicato. Cresce. Si rinforza».
Dunne forse ha calcato troppo su questi lati negativi, ma è innegabile che Rodgers abbia un carattere particolare, e che andando a pungolarlo nell’orgoglio i Packers si siano presi un rischio enorme, quello di gettare al vento questa Super Bowl window aumentando a dismisura i risentimenti di Rodgers verso dirigenza e coaching staff. Tuttavia, c’era anche un’altra possibilità paventata, quella che Rodgers interpretasse la stagione 2020 come una sorta di revenge tour personale con cui dimostrare ai Packers di aver sbagliato ad anticipare i piani di successione. In ogni caso, tutti davano per scontato che il carburante di A-Rod sarebbe stato il rancore. Che Rodgers l’affrontasse con serenità ed entusiasmo era un pensiero che nemmeno sfiorava la testa dei più, e invece è andata proprio così.
He’s back
Il dubbio su quale versione di Rodgers avremmo visto nel 2020 è durato giusto sessanta minuti, quelli necessari al quarterback dei Packers per demolire la difesa dei Vikings nella prima uscita stagionale. Quella domenica a Minneapolis A-Rod è stato preciso e spietato come un cyborg. Una volta entrato nella “zona”, Rodgers è capace di far apparire il football molto, molto più semplice di quanto non sia in realtà. Ai suoi occhi le finestre di lancio più strette diventano larghe come le vetrate di una cattedrale gotica. Il suo braccio inserisce il pilota automatico ed inizia a rilasciare, con quell’inconfondibile motion violenta come uno schiocco di frusta, una raffica di missili che finiscono per trovare sempre e comunque le mani di un ricevitore libero. Quando Rodgers gioca come quel pomeriggio a Minneapolis, le iperboli diventano understatements. Insomma, dopo una settimana era chiaro a tutti che il bad man era tornato.
Non se n’è accorto solo Stephen A Smith. Dello stato di grazia di A-Rod si sono resi conto ben presto anche i Detroit Lions, travolti nella seconda parte del match di Week 2. Dopo due avversari abbastanza arrendevoli, in Week 3 è arrivata finalmente la statement win, a New Orleans contro i Saints. No Davante Adams? No problem. Rodgers era privo del suo miglior ricevitore, ma è comunque riuscito a scardinare la difesa più forte della Conference con una facilità irrisoria. In una cattedrale insolitamente silenziosa e semi-deserta a causa delle norme anti-Covid Rodgers ha scherzato con i difensori dei Saints, facendoli saltare in anticipo grazie al suo celebre hard count e scaricandogli sopra la testa decine di passaggi, alcuni ridicoli.
Dopo altre due giornate e altrettante vittorie, i numeri recitavano: 1214 yard lanciate, 13 touchdown e 0 (!) intercetti. Numeri e prestazioni che sarebbero continuati su quei livelli fino a fine stagione, salvo il brutto passaggio a vuoto di Tampa Bay in Week 6. Erano anni che non si vedeva Rodgers su questi livelli di efficienza. I numeri di questo 2020 rivaleggiano con quelli delle altre due annate da MVP, ma chiunque abbia seguito la carriera di Rodgers non può non aver notato come questa versione di A-Rod abbia qualcosa di diverso. Ha guidato un attacco fondato sul quick passing game, un attacco che fonde corse e play-action in modo quasi scientifico e indecifrabile per gli avversari. Un attacco ritmico e armonico, aggettivi che mai si sarebbero usati per parlare del Rodgers del passato. Nella mente di tutti i fan di football Rodgers è sempre stato un quarterback sprezzante delle leggi del gioco, capace di dilatare i tempi frenetici delle azioni fino a 6-7 secondi e trovare lanci profondi che altri quarterback non avrebbero nemmeno immaginato. Il suo talento gli ha sempre permesso di distorcere le regole valide per i comuni mortali, di usare il suo braccio destro in modo totalmente ortodosso, come Jimi Hendrix che suona la chitarra dietro la schiena.
Nei primi anni da starter di Rodgers, il coach Mike McCarthy aveva ridotto all’osso la complessità schematica, in modo da permettere al talento e alle connessioni tra Rodgers e i suoi WR di svilupparsi nel modo più spontaneo possibile, senza costrizioni, come in una jam session di Jazz. McCarthy dava il ritmo, Rodgers e i vari Nelson, Finley e Jennings andavano d’improvvisazione.
Il lancio più indifendibile della storia.
Quell’attacco si basava su un equilibrio sottilissimo, che si è spezzato nel momento in cui il talento attorno a Rodgers è deperito. Con McCarthy incapace di trovare soluzioni tattiche innovative e Rodgers maldisposto ad accettare l’ingerenza di un coach che non stimava più, l’attacco dei Packers ha iniziato a stonare in modo sempre più evidente, causando sia alcuni degli anni peggiori di Rodgers sia il licenziamento di McCarthy, avvenuto durante la stagione 2018.
A quel punto è arrivato Matt LaFleur, un allenatore filosoficamente all’opposto del lassismo tattico che era stato la fortuna e la rovina dei Packers di McCarthy. In tanti hanno scosso la testa per questa scelta dei Packers: LaFleur è praticamente coetaneo di Rodgers, era alla sua prima esperienza da Head Coach e aveva il compito di far digerire a A-Rod un sistema più rigido del precedente. Se McCarthy era il Producer di una Jazz Band, LaFleur è più simile a un compositore di musica classica. Il suo schema facilita parecchio la vita al QB, offrendogli letture semplici e un running game esplosivo, ma in cambio gli chiede di limitare al minimo i virtuosismi e di seguire lo spartito fino all’ultima nota. Il rischio che Aaron rigettasse uno stile di coaching così invasivo, o che LaFleur non fosse abbastanza carismatico per “vendere” la sua visione a una Superstar come ARod era forte, soprattutto considerando la fama di diva mangia allenatori che Aaron si era costruito.
Grazie a LaFleur l’attacco dei Packers 2020 è stato spietatamente efficiente. In questo contesto Rodgers si muove in ritmo, scarica il pallone al tempo giusto e per il ricevitore giusto, si assume responsabilità creative solo quando è necessario. Il Rodgers di oggi non è un giocatore di sistema, ma un giocatore che, forse per la prima volta in carriera, sa muoversi nei confini di un sistema metodico e codificato.
Paradossalmente, giocare un football più semplice è una delle cose più difficili che Rodgers abbia mai fatto in carriera, da un punto di vista tecnico e ancora di più umano, visto che a tutti gli effetti LaFleur aveva avallato la scelta di Jordan Love al draft. Mentre tanti si immaginavano Aaron intento a sorseggiare scotch e meditare vendetta per quell’affronto, Rodgers ha speso la scorsa offseason in interminabili chiamate zoom con LaFleur e Nathaniel Hackett. Rodgers è finalmente riuscito a capire il flow dell’attacco, assimilare le progressioni e il footwork previsti da ogni chiamata del playbook, ricalibrare il suo gioco sui dettami più stringenti richiesti da LaFleur, che dal canto suo ha ammorbidito alcune delle sue posizioni, concedendo a Rodgers un libertà di movimento inedita nel sistema Shanahan/McVay/LaFleur. Di recente Aaron ha dichiarato che «La relazione [con Matt Lafleur] è migliorata al punto che ora siamo a livello hashtag #FriendGoals», del tipo: “quando il tuo amico ti chiama la giocata e tu sai già che sarà una bomba quindi sorridi sotto i baffi #FriendGoals”.
Di #FriendGoals i due ne hanno raggiunti parecchi in regular season. Il principale è stato quello di portare Rodgers a fare le cose semplici senza far avvizzire il suo istinto per provare quelle complesse. Come due veri BFFs, Rodgers e LaFleur si sono elevati a vicenda: il primo non ha mai avuto un playcaller in grado di garantirgli un vantaggio schematico costante, il secondo non ha mai avuto un quarterback capace di cose del genere:
Durante quella stessa partita Davante Adams ha anche ricevuto il 400esimo touchdown pass della carriera di Rodgers.
Insomma, l’orchestra ha suonato a meraviglia, in questo sistema Rodgers non deve più sobbarcarsi responsabilità creative sovrumane e può conservare gli assoli per quando servono davvero. Proprio perché è un sistema coerente e coeso, l’attacco dei Packers ha saputo mantenere la sua efficienza per tutto l’anno. Rodgers non è mai stato il super favorito. È rimasto prima in scia a Russell Wilson, poi a Patrick Mahomes, e quando i due hanno arrancato ha messo la freccia e ha sorpassato tutti con una prova maestosa in Week 16.
«It starts with Love»
Per quanto LaFleur e il suo schema siano stati fondamentali, il vero segreto di questa stagione di Rodgers non è da ricercare sulla lavagna tattica e nemmeno filtrando tra i fogli excel delle statistiche. Il 2020 è stato l’anno in cui Aaron ha svoltato a livello emotivo, quello in cui è tornato a vivere - e di conseguenza a giocare - con serenità. Non con la furia vendicativa con la quale, secondo qualcuno, A-Rod avrebbe approcciato la stagione, ma con pura e semplice serenità, persino gioia di vivere, come ha detto lui stesso nel corso di una delle sue apparizioni settimanali al Pat McAfee Show: «Ho preso decisione ed effettuato cambiamenti che mi hanno portato mentalmente in un posto migliore. Negli ultimi mesi un sacco di cose sono andate al loro posto nella mia vita, tutte cose davvero belle che mi hanno dato prospettiva, nella vita e nel football, per vedere le cose nel modo più positivo possibile. È per questo che mi sto divertendo così tanto, inizia tutto con l’amore».
Per Aaron la serenità parte dall’amore, «it starts with love». Nel frattempo, mano a mano che le W si accumulavano nel record dei Packers, del Love con la “L” maiuscola si è parlato sempre meno. Lo scenario migliore per la squadra, per il suo QB titolare e per l’erede al trono, che ha avuto la possibilità di maturare lontano dai riflettori e protetto grazie alla serenità di un ambiente vincente. Jordan Love è stato molto fortunato. Se avesse voluto, Rodgers avrebbe potuto distruggerlo. Avrebbe potuto definirlo arrogante e irrispettoso attraverso qualche insider, oppure renderlo un bersaglio indifeso per le minacce tifosi e per il nonnismo dei compagni. Di Jordan Love, invece, Rodgers ha sempre parlato bene, magari non come se parlasse di un fratello minore, ma almeno come di un alunno ancora acerbo ma nel quale intravede un futuro promettente. Questo non significa che Aaron abbia mia approvato la scelta dei Packers, significa però che l’ha compresa come una business move e non ne ha fatto una questione personale.
Aaron sa che Love non ha colpe, che la NFL è un business crudele in cui i giocatori, soprattutto i più giovani, vengono pesati, misurati e selezionati come capi di bestiame, senza voce in capitolo sulla propria destinazione. Un conto però è saperlo, un altro è applicare la lezione quando in gioco c’è il proprio trono.
Sul perché abbia deciso di tutelare colui che è stato scelto per fargli le scarpe, Aaron ne ha fatto una questione di legacy, sostenendo che «la tua legacy passa per come tratti gli altri e per come gli altri si ricordano di te». Dalle parole di A-Rod emerge come «Legacy» abbia anche un altro significato, più intimo e introspettivo, legato alle circostanze complicate degli inizi della sua, di legacy. Nei primi tre anni in Wisconsin Rodgers visse momenti d’inferno, anni nei quali spesso l’unico momento di conforto erano gli episodi di Jeopardy. I sudditi Cheeshead, fedeli all’unico re Brett Favre, lo avevano ripudiato ancora prima che mettesse piede a Lambeau. Tifosi e (alcuni) compagni lo vedevano come un fighetto californiano, troppo “cool” e “soft” per integrarsi nella tundra gelata di Lambeau. Insulti e minacce di morte erano all’ordine del giorno, peggiorati dal fatto che Favre aveva preso talmente male la scelta dei Packers da scaricare la sua frustrazione proprio su Aaron (che dal canto suo non fece granché per farsi volere bene, ma questa è un’altra storia), trattando il rookie con un gelido disprezzo che si sarebbe sciolto solo dopo qualche anno.
Aaron si ricorda quegli insulti, anche se oggi sembrano lontani decenni. Ancora di più, si ricorda la feroce sensazione d’ingiustizia provata nel subirli: più volte si è trovato a pensare «Perché sono io il cattivo? Non ho scelto io di venire qui». Aaron sa che nemmeno Love ha scelto il ruolo che la storia del football gli ha riservato. Nel gestire con maturità una situazione così spinosa, Aaron Rodgers ha fatto tesoro dei momenti più bui del suo passato. Se Love diventerà davvero il nuovo grande QB di Green Bay, tra qualche anno ci potrà raccontare quanto è stato importante per lui il fatto che Aaron non abbia mai scaricato su di lui la frustrazione per quella scelta.
Nel pezzo di Bleacher Report, Tyler Dunne riportava la testimonianza di una fonte interna secondo cui il libro perfetto per questi ultimi anni di Rodgers sarebbe stato «Come gli ego hanno distrutto i Packers». In questo scenario distopico, l’egocentrismo di Rodgers avrebbe raso al suolo la franchigia, riportandola indietro di trent’anni. La più grande impresa di Rodgers nel 2020 è stata ribaltare completamente questa narrazione tossica, nonostante le circostanze fossero così sfavorevoli. Per un uomo abituato dal talento e dalla venerazione dei fan a sentirsi un semidio, tradito a ripetizione dal coaching e dalle scelte del franchise, accettare di mettersi al servizio del sistema non era per niente scontato, così come non lo era stomacare la scelta di un quarterback al primo giro. La spirale autodistruttiva preconizzata da Dunne si è dissolta proprio quando sembrava sul punto di compiersi, Aaron Rodgers era riuscito ad un passo dal chiudere il cerchio. La stagione iniziata con Love poteva chiudersi con un Lombardi Trophy. Un finale perfetto, un lieto fine da Last Dance, con Rodgers che parte verso il tramonto felice, dopo essersi messo un secondo anello al dito, senza lo strascico di polemiche del dopo Favre. Domenica scorsa Aaron Rodgers sembrava ad un passo dal chiudere il cerchio.
Gli sceneggiatori avevano apparecchiato lo scenario perfetto. Rodgers si sarebbe giocato il quinto NFC Championhip game (il test d’ingresso per accedere al Super Bowl) tra le mura amiche di Lambeau Field. Nel testa a testa con i Buccaneers di Tom Brady, Rodgers aveva anche la possibilità di regolare i conti con l’unica difesa che lo aveva messo in difficoltà in regular season.
Nel corso della partita, tutti gli spettri delle sconfitte passate sono tornati ad apparire. La difesa che regala un touchdown a fine primo tempo, esattamente come contro i Giants nel 2011. La linea offensiva che collassa come contro i 49ers nel 2019. Errori di football situazionale che ricordano sinistramente il pasticcio di Brandon Bostick nel 2014. Rodgers e il suo attacco che si scoprono improvvisamente abulici nel secondo tempo, bruciando diverse occasioni di accorciare il vantaggio. Morale della favola, quando tutto sembrava pronto a cambiare, i Packers sono inciampati sullo stesso ostacolo di sempre, perdendo il quarto championship su cinque nell’era Rodgers. Ormai è una costante tragicomica della carriera di Aaron: ogni volta che qualcosa può andare storto, puntualmente lo fa. L’uomo che ha fatto della lotta all’umiliazione il senso della propria carriera è sempre stato eliminato in modo umiliante, dopo scene talmente schizofreniche e irrazionali da sembrare partorite dagli sceneggiatori di Boris. Dall'latra parte, sembra che a Brady tutto sia sempre andato per il verso giusto, specialmente ai playoff. I rarissimi scivoloni della sua carriera - dall’”Helmet catch” al Philly Special - possono essere declassati a piccoli espedienti infilati da uno sceneggiatore da Oscar, ostacoli del destino funzionali al loro stesso superamento, alla prossima vittoria, al prossimo anello.
Proprio quest’anno Rodgers aveva abbracciato una visione più spirituale dell’esistenza, cercando di imprimere un controllo mentale sugli eventi: «Io credo davvero che abbiamo l’abilità di manifestare le cose che desideriamo attraverso le nostre parole e i nostri pensieri». Domenica A-Rod ha scoperto che quello di piegare gli eventi è un lusso che spetta solo a Tom Brady, eterno trionfatore che ha imparato ad annullare la possibilità della sconfitta attraverso la forza di volontà. Ma a quale prezzo? Nel mondo di Tom Brady la sconfitta non è un’opzione, è un bug che manda in cortocircuito il suo processore nervoso, non a caso, nelle rare volte in cui ha perso, si è rifiutato di rendere omaggio al quarterback avversario. Prima o poi arriverà il momento in cui dovrà smettere di combattere contro il tempo, l’ultimo avversario al suo livello, e si troverà a sbattere la testa come tutti i grandi vincenti della storia, dal Michael Jordan di Lazenby all’Alessandro Magno di Pascoli, a dover esclamare sconsolato «Giungemmo: è il Fine».
Accettare la fine del percorso sarà difficilissimo per Brady. Saltare di vittoria in vittoria, senza contemplare l’idea della sconfitta è un’idea infantile e divina allo stesso tempo, l’idea di un percorso in lineare che passa da una vittoria alla prossima, e che per questo non può compiersi. Aaron Rodgers, stupendo perdente, divinità terrestre, avrà invece la possibilità di chiudere il cerchio, di trovare la sua versione del successo, che magari nemmeno è circolare come gli anelli del Super Bowl.
«Il successo non è vincere sempre, perché questo è praticamente impossibile. Il successo sta nel sapere che hai fatto tutto il possibile per prepararti, concentrarti e performare per ottenere la vittoria […] Credo che la nostra società glorifichi la vittoria come l’unica cosa che conta. Credo che sia una visione irrealistica, che spesso paralizza le persone che vedono l’opposto della vittoria come il fallimento, e che non si getteranno più nell’arena per paura di fallire di nuovo. Devi essere disposto a dare tutto te stesso, sapendo che a volte non sarà abbastanza» Il successo nella sconfitta, il senso dell’epica triste di Aaron Rodgers.