Caro Ultimo Uomo,
qualche anno fa, leggendo proprio uno dei vostri articoli, mi rimase impressa una frase molto iconica che, stando al vostro Giacomo Detomaso, venne pronunciata per la prima volta da Eddie Erdelatz: "pareggiare è come baciare una sorella".
Io il calcio lo seguo religiosamente sin da quando ero piccolo quindi per me il pareggio è sempre stato un dogma, tuttavia crescendo mi sto accorgendo che il pareggio non mi piace, mi infastidisce. Ci sentiamo sempre ripetere che nella vita non è solo questione di bianco o nero ma ci sono infinite sfumature e questo ci fa sentire meno sicuri, più titubanti. Almeno nel magico mondo del calcio, dove spesso un uomo si rifugia dalle difficoltà della vita, c'è bisogno di certezze; oggi ho vinto o ho perso?
Anche per un discorso di spettacolarità e adrenalina, non sarebbe più bello eliminare il pareggio dal calcio? Magari inserendo un overtime cestistico.
grazie mille, Antonio.
Risponde Dario Saltari
Caro Antonio,
non sei di certo il primo a proporre l’abolizione del pareggio. Anzi, mi sembra che sia un discorso ricorrente, che ritorna ciclicamente nel discorso calcistico come una bottiglia che appare e scompare sull’orizzonte di un mare mosso. In tempi recenti, il primo ad averlo proposto fu il tanto vituperato Sepp Blatter. Era l’aprile del 2004 e le motivazioni non erano poi così diverse dalle tue. «Ogni partita», disse Blatter in quell’occasione «dovrebbe avere una squadra vincitrice. Una partita è fatta di emozioni. C'è passione. Può essere drammatica. Alla fine è quasi sempre una tragedia». La proposta (reiterata poco prima dei Mondiali sudafricani del 2010) era di decidere il vincitore con i rigori, come d’altra parte succede già da molto tempo per le sfide ad eliminazione diretta, ma senza supplementari.
Che il calcio debba essere divertente e spettacolare è uno dei cavalli di battaglia di chi propone l’eliminazione del pareggio, sostenendo un nesso causale (pareggio=noia) che però non riesco ad afferrare del tutto. Certo, ci sono grandi possibilità che uno 0-0 sia il risultato di una partita più noiosa di una che si conclude con un 3-2, ma lo stesso si può dire con un pareggio per 3-3 e una vittoria di 1-0. Insomma, non c’è bisogno di arrivare alla profondità di pensiero di Gianni Brera, secondo cui la partita perfetta sarebbe finita 0-0, per sapere che ci sono vittorie e vittorie, così come ci sono pareggi e pareggi (quante volte hai sentito modi di dire come “un pareggio che sa di sconfitta” o “un pareggio che vale come una vittoria”?). Con questo non voglio certo sminuire il valore del gol, che rimane il momento più viscerale e significativo di una partita di calcio, anzi: se ci pensi, ci sono più possibilità di vedere molti gol in un pareggio che in una vittoria perché, ad esempio, è più facile che due squadre segnino tre gol a testa che una sola sei.
Forse è proprio la fragilità di questa posizione che ha costretto i critici del pareggio a raffinarsi. Circa tre anni fa, ad esempio, Felix Magath propose di non assegnare alcun punto alle squadre che avrebbero pareggiato 0-0, trasformando questo risultato in una sorta di doppia sconfitta. Una proposta che forse spingerebbe le squadre verso un atteggiamento più spregiudicato, soprattutto nei minuti finali, nel caso in cui non si fosse segnato ancora alcun gol. Ma che avrebbe l’effetto paradossale di sanzionare a livello regolamentare non solo una delle qualità fondamentali della prestazione di una squadra – cioè la capacità di difendersi – ma anche alcune delle qualità individuali dei singoli giocatori – ovvero l’abilità di un portiere di evitare un gol o la possibilità che un attaccante sbagli un tiro. Insomma, credo che tu abbia visto abbastanza partite per sapere che ci sono mille modi diversi per arrivare a uno 0-0, e che tra questi ce ne siano molti che prevedono 90 minuti spettacolari. C’è davvero bisogno di equipararli a una sconfitta?
Ma capisco che questa spiegazione non possa bastarti perché, come hai detto, quella della spettacolarità è solo una motivazione circostanziale, e c’è qualcosa che ha a che fare con la stessa essenza del calcio e dello sport, qualcosa di ontologico, che ti ripugna quando pensi al pareggio, che ti fa pensare addirittura all’incesto. Forse è psicanalisi da quattro soldi – alla fine è quello che mi si richiede in una rubrica che si chiama La Posta del Cuore - ma non ho potuto fare a meno di notare che la citazione che ti è rimasta impressa parla di un tabù di natura religiosa, così comereligiosamente dici di seguire il calcio, e hai scritto dogma per riferirti al pareggio. E mi sembra ancora più significativo che anche Blatter, in quel lontano 27 settembre del 2004, addusse una motivazione religiosa per giustificare l’eliminazione del pareggio. Disse che «nella vita c'è uno scopo e anche nello sport», uno scopo che, mi sembra, per te sia quello di trovare nel calcio delle risposte, un significato.
E forse è questo che ti fa avvertire qualcosa di sbagliato nel pareggio. Perché il calcio ci offre un universo metaforico semplice ed immediato in cui cercare un senso è quasi naturale. Alla fine è così che funziona il linguaggio e la nostra stessa coscienza, per metafore, e quindi perché non cercare un significato anche in un gioco apparentemente così semplice come il calcio? È per questo, d’altronde, che c’è così tanta retorica nello storytelling sportivo (e così poca qualità nei suoi prodotti culturali) ed è sempre per questo che la politica è così ingolosita dal manipolare questo sport. Differenza, somiglianza, caduta, ascesa, vittoria, sconfitta, declino, futuro: è già tutto lì, di fronte ai nostri occhi, mentre si svolge la partita, e si potrebbe non aggiungere altro.
Questo è il momento della risposta in cui sono costretto a ricordarti che, in realtà, il pareggio nel calcio esiste solo per il tempo di una partita e che, anche nelle competizioni dov’è previsto, anch’esso non serve ad altro che a decretare un vincitore e decine di sconfitti. Il mondo del calcio, anzi, sembra sempre essere intento, in qualsiasi momento della sua esistenza, a dividere il bianco dal nero: non solo esistono campionati e coppe per le squadre, ma anche premi individuali per i giocatori. E basta aprire un qualsiasi giornale per trovare una classifica di qualsiasi tipo, o andare in un bar per accorgersi che le discussioni che appassionano di più sono quelle che mettono a confronto due giocatori, persino di epoche lontane, sempre con l’intento di trovare un vincitore e uno sconfitto. Perché il Pallone d’Oro l’ha vinto Modric e non Ronaldo? È più forte Messi o Maradona?
Eppure, se ci pensi, il pareggio è insito nella stessa essenza del calcio, è ineliminabile. Due squadre, quando scendono in campo, partono da una situazione di pareggio, e non esiste un modo per sradicarlo: l’overtime cestistico che proponi, ma anche la stessa sfida ai rigori (teoricamente il festival del gol), in linea puramente teorica potrebbero durare per sempre, senza che nessuna delle due squadre esca mai vincitrice dal campo. E lo stesso si potrebbe dire degli altri stratagemmi con cui abbiamo provato a eliminare il pareggio, come il golden goal o il silver goal, provati e presto abbandonati perché non avevano portato affatto a quell’aumento della spettacolarità tanto sperato. Ovviamente è solo una dimostrazione per assurdo, ma anche l’idea che il calcio abbia il compito biblico di dividere il bianco dal nero, il vincitore dal vinto, lo è. Vinta una partita ce n’è un’altra che potresti perdere, e alla conclusione di ogni campionatone inizia un altro.
Scusami se continuo a psicanalizzare le poche righe che mi hai inviato, Antonio, ma sono le uniche cose che so di te: perché il calcio dovrebbe essere un mondo magico o un rifugio dalle difficoltà della vita? Forse è perché sono un tifoso della Roma, ma a me sembra che il calcio, al contrario, non faccia che entrare nelle nostre vite reali, che ce le sconvolga in continuazione anche se non abbiamo nessun rapporto diretto con le squadre che seguiamo. Il calcio ha un’influenza diretta sul nostro stato d’animo e sui nostri pensieri, e a volte mi stupisco della quantità di energie mentali che impiego per riflettere su dei problemi che non potrò mai risolvere. Non bisogna essere un allenatore ossessivo per ritrovarsi nelle parole di Sampaoli, che una volta disse: «Non riesco a concentrarmi su un libro: lo inizio, leggo le prime pagine, poi mi appare Wayne Rooney e inizio a pensare a come posso fare per marcarlo». Ci siamo passati quasi tutti.
Una partita - che sia una vittoria, una sconfitta o un pareggio – ma anche un singolo momento di una partita può svoltarci o devastarci una giornata, con un’incidenza talmente profonda sulle nostre emozioni che diversi dei migliori scrittori sportivi della nostra epoca ne hanno descritto la capacità quasi unica di organizzare i nostri ricordi, di scandire la nostra memoria. Nick Hornby è riuscito a ricostruire tutta la sua vita solo attraverso le partite dell’Arsenal e anche Daniele Manusia, solo qualche tempo fa, ha scritto del gol di Pavard contro l’Argentina segnato quest’estate durante il Mondiale russo: «mi aiuterà a ricordare come stavo in quel momento, quando magari sarà passato qualche altro Mondiale e faticherò a ricordarlo».
Insomma, se il calcio è così reale perché gli dovremmo applicare delle categorie che nella realtà non esistono? E qui non parlo solo di risultati, perché una vittoria non è mai solo una vittoria, così come un pareggio non è mai solo un pareggio, ma del tuo stesso punto di vista. Forse ci viene naturale pensare al pareggio come qualcosa di confuso perché, come hai detto, lo associamo al grigio, cioè al mischiarsi indistinto di due colori diversi. Ma hai mai pensato al fatto che il bianco, in realtà, non è affatto quell’assenza di complessità per cui spesso viene scambiato e, anzi, contiene al suo interno tutti i colori dello spettro elettromagnetico?