Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Stiamo imparando a conoscere Abraham
30 mar 2022
Il centravanti della Roma ha vinto il premio di Calciatore del mese AIC di marzo.
(articolo)
10 min
Dark mode
(ON)

Dopo la vittoria con l’Atalanta ha detto che la differenza l’ha fatta l’unione. «Stiamo imparando a conoscerci sempre di più ogni giorno che passa. Un paio di mesi fa avremmo subito il gol del pareggio all’ultimo minuto». La Roma aveva appena vinto il suo secondo scontro diretto stagionale, di nuovo contro la squadra di Gasperini, di nuovo dopo un periodo difficile (appena una vittoria nelle cinque partite precedenti, tra cui la netta sconfitta contro l’Inter in Coppa Italia) e di nuovo con un gol di Tammy Abraham. L’attaccante inglese aveva segnato dialogando con Zaniolo come fanno i calciatori che sembrano fatti uno per l’altro. Zaniolo aveva messo giù il lancio lunghissimo e altissimo di Karsdorp con l’interno del sinistro, girandosi su se stesso come un cane che si arrotola nella sua cuccia, e poi senza pensarci un momento aveva servito sulla corsa Abraham, che in quella frazione di secondo aveva fintato di andare sull’esterno mandando in confusione Demiral.

Come per gli innamorati si dice che uno possa completare le frasi dell’altro, per i giocatori che hanno una loro intesa si potrebbe dire più o meno lo stesso: che uno possa muoversi in anticipo nel punto in cui andranno i passaggi dell’altro (e viceversa). In realtà, guardando il gol contro l’Atalanta con più attenzione, si noterà che anche Zaniolo era cascato nella finta di Abraham e gli aveva servito un passaggio più orizzontale del dovuto in previsione di un suo taglio verso l’esterno. In quel caso l’attaccante inglese aveva dovuto compensare con la tecnica il gap di conoscenza che aveva con il suo compagno d’attacco: frenando per un attimo la sua corsa, controllando una prima volta con la punta del destro, superando con un ulteriore tocco il ritorno di Palomino e infine battendo sul tempo l’uscita di Musso con un fulmineo tiro di piatto. Ma al di là di questo dettaglio è indubbio che i due abbiano iniziato a giocare come una persona sola, a muoversi uno in funzione dell’altro, se pensiamo che circa due mesi prima, sempre con l’Atalanta, avevano confezionato un gol persino più complesso di questo (tacco di Zaniolo, appoggio di Abraham, lancio di prima nello spazio di Zaniolo: tutto con un difensore dell’Atalanta attaccato alle spalle).

Rimane il fatto che conoscersi aiuta e forse con Abraham ce la siamo dimenticato troppo in fretta. L'attaccante inglese ha giocato al Chelsea da quando aveva sette anni con la promessa-sogno che un giorno sarebbe diventato la punta dei “Blues” e la scelta di cambiare squadra, campionato e Paese alla fine è arrivata poco più di sette mesi fa, e infatti ancora ne parla. «All’inizio era il mio pensiero fisso. Voglio davvero lasciare la Premier? È il miglior campionato dove tutti vogliono giocare», ha dichiarato in una recente intervista al Telegraph «È sempre difficile trasferirti e calarti in un nuovo paese e in una nuova cultura. Ho pensato che prima mi sarei adattato e prima avrei imparato differenti tipi e stili di calcio». Quanto ha contato nel suo processo di inserimento il fatto che a Roma fosse allenato da José Mourinho, una delle leggende del club in cui è cresciuto? Il senso di reverenza, la distanza che si viene a creare tra un giocatore ancora relativamente giovane e una figura che era abituato a vedere in televisione o a parlarne con gli amici, ha aiutato o rallentato la crescita delle prestazioni dell’Abraham calciatore? «Ogni volta che lo vedo è quasi uno shock anche se lo vedo ogni giorno. Quando ero piccolo e lui era al Chelsea l'avevo visto un paio di volte per qualche allenamento, sapevo un po' come era fatto», ha detto Abraham alla CBS prima del Derby, ammettendo che piano piano questa distanza si sta asciugando. «Adesso lo chiamo “il mio zio di Roma”».

Sottovalutiamo l’aspetto emotivo quando parliamo di calcio a questo livello eppure dovremmo ricordarci che con José Mourinho l’aspetto emotivo è quasi tutto. Magari è perché la sua carriera sembra avviata su una traiettoria calante, ma in un nostro longform a firma di Francesco Pacifico di qualche anno fa, quando ancora era lecito considerarlo uno dei più grandi allenatori al mondo, si ricordava giustamente come nel calcio di Mourinho nulla uscisse dalla sfera emotiva. “Gli allenamenti di JM muovono dall’idea che la mente conosca e capisca (gli schemi, il gioco) attraverso il corpo e attraverso l’emozione. JM è contrario a un tipo di allenamento schematico, astratto, alienante, perché nell’allenamento il calciatore prepara la combinazione di emozione, gesto atletico e decisione tattica che in partita produce una grande performance”. E ancora: “Gli allenamenti di Mourinho sono simulazioni della partita, durano novanta minuti, contro il concetto di carichi di lavoro. Mai isolato lavoro fisico e calcistico. Intensità più che quantità, perché l’intensità produce una risposta emotiva nel calciatore. L’esercizio deve durare novanta minuti al massimo di esercizi di squadra, perché l’esercizio deve preparare alla dimensione emotiva della partita”.

Abraham è sembrato calarsi fin dal primo giorno nella sfera emotiva di Roma, e questo significa che spesso è talmente coinvolto da sembrare pazzo. Prima della partita si mette assorto sul dischetto del centrocampo con lo sguardo basso e il pugno alzato a cantare l’inno di Venditti, come se fosse lui l’artista ad esibirsi, e poi nei novanta minuti fa tutta una sua commedia dell’arte: all’inizio sembra sempre che si infortuni gravemente, poi corre come un matto per tutta la partita, richiamando con ampi gesti i compagni al pressing, si lamenta con la squadra ad ogni passaggio sbagliato, esulta abbracciandosi in maniera fraterna con Lorenzo Pellegrini, che conosce da pochi mesi, il tutto con una mimica facciale che ha tutte le sfumature dell’emozione umana. Nell’intervista post-partita non dimentica mai di ringraziare i tifosi e di ricordare quanto siano fantastici.

Se parliamo della sfera emotiva della Roma, intesa come squadra, il discorso però cambia. Abraham nelle ultime settimane ha dovuto imparare a sopravvivere in un gioco che lo ha lasciato sempre più solo dalla metà campo in su, e per il tipo di giocatore che è non è stato facile. Abraham ha una tecnica da trickster (e non fa che ricordarcelo quasi ad ogni partita con un qualche giochetto a palla ferma) che gli permette di trovare soluzioni creative in momenti in cui la pressione avversaria è tale da non lasciargli altra arma dell’intuito. E questo spesso produce momenti spettacolari, per esempio quando al Derby è passato tra Milinkovic-Savic e Luis Alberto girandosi su se stesso con il pallone sotto la suola.

Ma è vero che Abraham non ha né una visione di gioco sufficientemente raffinata né un gioco spalle alla porta tale da poter pensare di trascinare da solo la Roma nella trequarti avversaria, e questo comporta che ha bisogno di almeno un compagno con cui associarsi per guidare le transizioni della sua squadra. E questo tipo di gioco, che comporta di attaccare l’avversario in velocità quasi sempre in inferiorità numerica, è tanto più efficace quanto più i giocatori si conoscono tra loro. Questo è stato particolarmente interessante al Derby, dove Mourinho ha deciso di spezzare la coppia d’attacco che aveva retto il gioco offensivo della Roma fino a quel momento, mettendo Zaniolo in panchina, e inserendo accanto al suo numero nove un giocatore più associativo e meno mitomane come Mkhitaryan. Prima della sfida con la Lazio, Zaniolo era apparso particolarmente involuto, schiacciato dalla volontà di caricarsi da solo la Roma sulle spalle e questo aveva avuto delle ripercussioni anche sul gioco di Abraham, che prima del gol all’Atalanta in campionato aveva segnato il suo ultimo gol su azione contro l’Empoli, il 23 gennaio (contro Spezia e Sassuolo aveva segnato su rigore). Con accanto un giocatore più disposto a dialogare con lui, anche Abraham è sembrato rinascere.

Lo si è visto fin da subito. La transizione da cui nasce il calcio d’angolo che gli permetterà di segnare di interno coscia o pube il gol d’apertura (ve l’avevo detto che i gol con parti del corpo inusuali erano la sua specialità) parte proprio da un suo dialogo con Mkhitaryan. Calcio d’inizio: c’è la solita palla lunga della Lazio lanciata sull’esterno verso Milinkovic-Savic ma il suggerimento in avanti verso Marusic viene intercettato da Zalewski, che la butta in avanti un po’ a casaccio. La palla viene toccata altrettanto a casaccio da Cristante, che la indirizza verso il centro della mediana, e a quel punto Abraham si è già staccato dalla linea difensiva avversaria per venire incontro sulla trequarti, come se sapesse cosa sta per succedere. Quello che succede è questo: Mkhitaryan vede o forse sa già che il suo attaccante gli è vicino, davanti a lui, e gli basta toccare il pallone con la punta di prima per servirlo, e a quel punto Abraham, a sua volta di prima, non fa altro che fermargli la palla con il piatto, mettendogliela precisamente sulla traiettoria di corsa da treno che corre sui suoi binari che da sempre contraddistingue il trequartista armeno. Con l’aiuto di Pellegrini, che seguirà la transizione sull’esterno sinistro, la Roma arriverà fino in area e poi al calcio d’angolo.

In tutta la partita ci sono stati diversi momenti in cui questa intesa si è ripetuta, anche se con effetti meno decisivi di questo. Una sponda di prima intenzione a centrocampo, un colpo di tacco per servirlo alla cieca sulla trequarti, il movimento in profondità con cui attira Acerbi dentro la sua stessa area, permettendogli di tirare libero dal limite dell’area e prendere la traversa: in tutti i casi Abraham sembrava sapere dove fosse Mkhitaryan, quali fossero le sue intenzioni, dove pensava di restituirgli la palla (avrete notato che anche nel numero di prestigio in cui passa tra Milinkovic-Savic e Luis Alberto, da una posizione di spalle si gira istintivamente verso il trequartista armeno e poi gli lascia il pallone). Questo tipo di conoscenza epidermica tra i giocatori - puramente istintiva e forse addirittura inconscia - che viene dalla memoria muscolare degli allenamenti più che da quella mentale della lavagnetta tattica, e che li fa muovere senza il bisogno di pensare, come se fossero animati ad un unico strato energia invisibile sospeso a pochi metri dal campo, è ciò che storicamente rende grandi le squadre di Mourinho, che infatti dopo il Derby, soddisfatto, ha dichiarato che «sembrava che tutto quello che avessimo pianificato riuscisse alla perfezione».

Per un attaccante come Abraham - un attaccante cioè che non ha né la forza né la tecnica per imporre il contesto intorno a lui, ma che gioca perennemente al confine tra il visibile e l’invisibile, in quella zona grigia tra un innocuo rimbalzo in area e il gol, dove a fare la differenza non è tanto come si calcia o come si controlla un pallone ma il farsi trovare pronto al posto giusto al momento giusto - questo tipo di conoscenza è necessaria per esprimersi ad alti livelli. Quanto è casuale e quanto è voluto il suo primo gol, nato facendosi rimbalzare addosso il cross di Pellegrini respinto dalla traversa? Forse non è un caso che tra tutte le occasioni avute al Derby, l’unica che ha sbagliato clamorosamente è quella in cui ha dovuto pensare di più, facendo entrare il razionale all’interno di quella intelligenza collettiva sommersa che un attimo prima aveva permesso a Cristante di servirlo senza alcuna esitazione con un lancio di una quarantina di metri dolce come il volo di un gabbiano sul pelo dell’acqua, e a lui di controllare il pallone con la coscia nonostante Acerbi gli fosse saltato davanti coprendogli la visuale.

Abraham ha vinto il premio AIC di calciatore di marzo nonostante la concorrenza fosse più che agguerrita. In nomination c’erano infatti i due registi più convincenti del campionato, Lucas Torreira e Ismail Bennacer, diventati ormai vere e proprie colonne portanti di Fiorentina e Milan, e soprattutto Victor Osimhen, che aveva segnato due doppiette consecutive contro Verona e Udinese affermandosi come uno dei migliori attaccanti del campionato. Abraham se l’è giocata con l’attaccante del Napoli fino all’ultimo e se alla fine l’ha spuntata per una manciata di voti (dei suoi colleghi professionisti iscritti all’AIC) forse non è solo per i suoi gol ma anche perché mai come in questo mese è sembrato a suo agio. Come se avesse finalmente capito che è esattamente dove vuole essere.

Appena arrivato in Italia, José Mourinho aveva incendiato le aspettative dei tifosi romanisti sull’attaccante inglese pronunciando una frase che da quel momento a Roma è diventata quasi un mantra: wait and see. Quasi tutti si erano concentrati sul see, fantasticando su quello che avrebbero visto in futuro, e quasi nessuno aveva fatto caso al wait, saltato a piè pari per impazienza. Adesso che abbiamo visto cosa ci era stato promesso, abbiamo capito perché c’era bisogno di tanta attesa: per conoscersi ci vuole tempo.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura