All’interno del calcio italiano sono pochissimi i club che riescono a rimanere riconoscibili nel tempo, al cambiare dei giocatori, degli allenatori e dei dirigenti. Tra questi, l’Empoli è forse il caso più peculiare. Non solo perché punta sulla capacità del proprio vivaio di rifornire di talento la prima squadra con continuità senza avere le capacità finanziarie dell’Atalanta - un’altra squadra con un grande settore giovanile che però ha ormai la possibilità di rinforzare la rosa con allenatori e giocatori di alto livello - ma soprattutto perché da circa un decennio si aggrappa a una serie di principi tattici che gli permettono di non venire inghiottito da quel mare in tempesta in cui di solito navigano a vista i club che fanno su e giù tra la Serie A e la Serie B. È almeno dai tempi di Spalletti che l’Empoli ha la nomea di essere un trampolino di lancio per giocatori e allenatori ambiziosi, ma dal 2012, cioè da quando Maurizio Sarri si è seduto sulla sua panchina, la nostra idea della squadra toscana si è definita ancora di più. È da circa un decennio che, anche senza sapere chi sia l’allenatore in panchina o i giocatori in campo, siamo sicuri di trovare l'Empoli con il 4-3-1-2 a rombo, almeno un paio di giocatori interessanti, la difesa a zona e un gioco che cerca di manipolare l’avversario con il possesso - qualsiasi sia la squadra che affronta o la categoria in cui gioca.
Dopo tre stagioni in cui, con Sarri e Giampaolo, pensavamo che la squadra toscana potesse sopravvivere per sempre nel deserto di idee del calcio italiano come un’oasi incontaminata, però, ci siamo resi conto che nella sua affermazione non c’era nulla di scontato. L’Empoli è retrocesso dalla Serie A una prima volta nel 2017 e da quel momento la sua posizione ai più alti livelli del calcio italiano non è stata più stabile come prima. È arrivata una nuova promozione (nel 2018, dopo un campionato di Serie B dominato) e una nuova retrocessione, per certi versi sfortunata visto il gioco propositivo e ambizioso. Dopo una stagione scialba, conclusa con il settimo posto in Serie B e l’eliminazione ai playoff per mano della Cremonese, quest’anno l’Empoli è tornato dove siamo abituati a vederlo. Con l’ultima convincente vittoria contro la Reggina per 0-3, la squadra toscana ha infatti consolidato il suo primo posto in classifica in Serie B mettendo quattro punti tra sé e il Venezia, e lo ha fatto a suo modo: con un allenatore giovane e promettente come Alessio Dionisi in panchina, il 4-3-1-2 in campo, e una serie di giocatori di cui già si parla molto anche in Serie A, come Samuele Ricci, Fabiano Parisi e Nedim Bajrami. Anche se i risultati hanno iniziato ad arrivare con meno continuità, insomma, l’Empoli non ha mai abbandonato l’idea di seguire dei principi tattici guida con giocatori giovani e uno scouting ambizioso.
La storia recente dell’Empoli, però, non si può sintetizzare facilmente con parole vaghe come “programmazione” e “progettualità”, ed è in realtà anche il frutto di scelte difficili e a volte di coincidenze che non sono garanzia di per sé contro la fragilità della posizione delle piccole squadre, la cui permanenza ad alti livelli spesso dipende da dettagli minuscoli. La coerenza tattica e manageriale dell’Empoli negli ultimi anni, ad esempio, nasce nel 2012 non solo con la scelta di Maurizio Sarri ma anche con il tesseramento a parametro zero di Pietro Accardi, ex giocatore di Palermo, Sampdoria e Brescia ormai a fine carriera. Dopo i suoi due ultimi anni da calciatore, Accardi è stato assunto dal club toscano come assistente dell’allora direttore sportivo, Marcello Carli, sostituendolo definitivamente nell’estate del 2017 con lo scopo di dare seguito al suo lavoro. Da quel momento, al netto dei risultati, per Empoli sono passati alcuni dei giocatori che vediamo più spesso in Serie A adesso: da Caputo a Bennacer, da Traoré a Di Lorenzo. Oggi Pietro Accardi ha poco più di 38 anni e l’Empoli rimane una delle squadre più interessanti da seguire, pur avendo appena il nono monte ingaggi della Serie B. Questa è l’intervista che abbiamo realizzato con lui pochi giorni fa, editata per favorire la scorrevolezza di lettura e la chiarezza.
Vorrei iniziare dal momento in cui è finita la tua carriera da giocatore ed è iniziata quella da dirigente. Tu sei stato tesserato dall’Empoli nella tua ultima esperienza da calciatore nell’anno in cui è arrivato Maurizio Sarri [il 2012, nda]. Lui ha avuto un qualche ruolo o un’influenza nella tua decisione di percorrere una carriera da dirigente? O è stato un caso?
Io arrivo ad Empoli da svincolato dopo aver finito il mio contratto con la Sampdoria. A ottobre ricevo una chiamata dell’allora direttore sportivo dell’Empoli, Marcello Carli, perché la squadra era penultima in classifica e c’era bisogno di gente un po’ più esperta. Quello era un gruppo molto giovane e con un allenatore che allora era una scommessa. Sarri fino ad allora aveva fatto solo la Serie C, forse anche qualche apparizione in Serie B [al Pescara e all’Arezzo tra il 2005 e il 2007, nda] - comunque tanta Serie C. E quindi cercavano una persona esperta, di carattere, che potesse aiutare la squadra da questo punto di vista. Devo essere sincero: non stavo più bene. Io ho smesso presto, a 31 anni, proprio perché ho avuto nel corso della mia carriera un problema al ginocchio che mi sono portato dietro per 10 anni. E quindi quando mi sono reso conto che non potevo più dare niente al calcio giocato ho cominciato a fare un po’ da trait d’union da dentro lo spogliatoio tra la squadra, l’allenatore e la società, sempre rispettando il mio ruolo. Non è che facevo la spia - cercavo di essere un collante. Questa cosa penso sia piaciuta a Maurizio, a Marcello e anche all’attuale presidente [Fabrizio Corsi, nda], che mi ha dato l’opportunità di affiancare il direttore sportivo e che in questi anni mi ha supportato e sostenuto. È chiaro che il rapporto di stima che si era instaurato con Maurizio ha fatto la differenza. E quindi ho iniziato a fare questo percorso da “braccio destro” di Marcello Carli, che da subito mi ha portato con sé ovunque, in tutte le trattative. Non ho nemmeno avuto l’opportunità di pensare che la mia carriera da calciatore fosse finita. Sai, quando smetti e chiudi un capitolo importante della tua vita - perché comunque ho fatto il professionista per 16-17 anni… tanti giocatori si fanno mille domande: “Adesso cosa succede? Cosa farò?”. Investi tanto tempo sul calcio, non pensi a costruirti altro - sai fare solo questo. Tanti giocatori quando smettono hanno un grosso punto interrogativo. Perché è vero che finisce un periodo ma è altrettanto vero che spesso finisce quando sei ancora molto giovane, e hai una vita davanti a te da inventarti. Io, invece, non ho avuto nemmeno la possibilità di pensare e quindi mi sono buttato in questo nuovo ruolo con grande passione.
Foto di Jennifer Lorenzini / LaPresse.
Ma c’è stato un allenatore nella tua carriera di calciatore che pensi ti abbia influenzato?
Nella scelta?
Anche nel modo in cui porti avanti il tuo lavoro, nelle tue idee, nel modo in cui vedi il calcio oggi insomma.
No, questo no. A me è sempre piaciuta la parte dirigenziale, anche quando facevo il calciatore. Ero sempre attratto da questa figura. Mi piace essere aggiornato anche sulle dinamiche tecnico-tattiche, guardo partite in continuazione, le studio perché poi mi serve anche per confrontarmi con l’allenatore. Però non ho mai pensato di fare l’allenatore o ricoprire un altro ruolo che non fosse dirigenziale, ti dico la verità. Ho sempre avuto le idee ben chiare da questo punto di vista.
Pensi ci sia stato qualcosa dalla tua carriera di calciatore che ti sei portato dietro poi nella tua carriera dirigente?
In realtà cambia tutto. Quando ho smesso pensavo di conoscere il calcio perché dici: “Ho giocato per 15 anni, si parla di una cosa che so”. Quando passi dall’altra parte ti rendi conto che è tutto completamente diverso. Una delle cose che cambia è che quando sei calciatore pensi sostanzialmente a te stesso, quando passi dall’altra parte la prima cosa che devi fare è pensare agli altri. In sostanza non esisti più. Già questa è una differenza sostanziale: vengono prima gli altri. Cambia il modo di affrontare e di vivere le situazioni.
Tu sei passato da un ruolo in cui avevi un rapporto molto diretto e amichevole con i giocatori a un altro in cui invece credo tu debba avere un po’ di distanza, magari prendere anche decisioni difficili umanamente. Hai avuto delle difficoltà in questo cambio di prospettiva sia professionale sia umano all’inizio?
All’inizio no perché avevo un ruolo diverso per la società e per l’allenatore. Cercavo sempre di filtrare: più avevo un rapporto con i giocatori più riuscivo a mediare determinate situazioni o a gestirle, sempre in maniera costruttiva. Quando poi invece sono passati gli anni e il mio ruolo si è definito sempre di più è chiaro che il modo di comportarmi è cambiato. Ma non mi sono mai posto dicendo: “Comando io, faccio io, tu sei il giocatore, non puoi dire la tua”. Cerco sempre di instaurare un rapporto con i calciatori, anche perché oggi la mentalità del calciatore è cambiata rispetto a prima. I calciatori hanno bisogno di persone vicine a loro.
Dici a livello tecnico, psicologico… figura più specializzate, professionalizzate?
Assolutamente sì. La figura del direttore sportivo è cambiata totalmente rispetto a prima. Se faccio il paragone tra me e i direttori sportivi che ho incontrato nella mia carriera…
Cosa pensi sia cambiato?
Il direttore sportivo deve avere competenze non solo più tecniche ma anche gestionali, manageriali, conoscere i bilanci: è una figura più ampia rispetto a prima. Anche il modo di operare è diverso. Ovviamente parlo per me, perché non so precisamente come operano gli altri direttori sportivi. In ogni caso, il calcio è cambiato rispetto a prima: i ragazzi adesso hanno molto più bisogno di sostegno, di supporto. Prima il direttore sportivo si vedeva pochissimo al campo, era molto più in giro - rapporto diretto con i calciatori ne aveva poco. Io, invece, sono un direttore sportivo ultra-presente, tutti i giorni al campo. Ho delle persone che girano per me. Sono una presenza costante, mi confronto tutti i giorni con l’allenatore. Se un ragazzo ha un problema cerchiamo di capire, di aiutarlo, di stargli vicino e di spronarlo. Poi ognuno di loro ha una chiave d’accesso. Non si può trattare tutti allo stesso modo, devi avere la sensibilità di toccare i tasti giusti. Magari uno ha bisogno un po’ più di coccole, l’altro ha bisogno un po’ più di “bastone”. Fa tanto il rapporto, l’esperienza, il bagaglio che ti porti dietro, il continuo aggiornarti, il volerti migliorare.
Com’è cambiato il tuo lavoro ora con la pandemia? Ad esempio: com’è cambiato il vostro sistema di scouting? Avete aumentato l’utilizzo di strumenti che vi permettono di fare scouting a distanza, come Wyscout?
È cambiato molto da questo punto di vista. Prima viaggiavamo tanto, soprattutto negli ultimi anni. Oggi bisogna fare di necessità virtù. Utilizziamo molto Wyscout, ma cerchiamo comunque di andare a vedere tutte le partite che si possono vedere dal vivo tramite i rapporti che abbiamo. Ma sostanzialmente lavoriamo molto con i video.
Sei un amante del video? Perché c’è anche chi dice che certe cose si possono vedere solo dal vivo.
Il video ti dà la possibilità di conoscere ancora di più nei dettagli il calciatore, perché hai la possibilità di vederlo, rivederlo, selezionare le cose che vuoi andare ad analizzare. Ma la sensazione che ti dà un giocatore quando lo vedi dal vivo è completamente diversa. Ci sono degli aspetti che il video non ti trasmette, a partire dall’emozione che ti dà un calciatore quando lo vedi dal vivo. Dal video puoi riconoscere le caratteristiche ma poi il giocatore lo devi sentire, ti deve in qualche modo emozionare, trasmettere qualcosa caratterialmente nei momenti difficili di una partita, se subisce o non subisce un errore.
A questo punto devo chiederti anche se fate più affidamento sulle statistiche proprio per compensare la mancanza della percezione dal vivo che vi è venuta meno con la pandemia.
Purtroppo il mondo sta andando verso questa direzione, dove gli algoritmi e le statistiche stanno prendendo il sopravvento. Io, pur essendo un giovane, da questo punto di vista sono uno vecchio stampo. Le statistiche le guardo ma bisogna dargli la giusta importanza. Non dico che non servono a nulla, ti danno delle indicazioni. Però così come ti ho detto del video ti dico anche delle statistiche. Le statistiche mi danno dei numeri ma poi il calciatore lo devi vedere, sentire. Ti deve trasmettere qualcosa che i numeri non ti danno, anche perché i giocatori non sono delle macchine. I giocatori sono delle persone, e in quanto persone hanno il loro carattere, le loro fragilità, le loro idee, le proprie convinzioni. E tutto questo va gestito. Se io mi baso solo sui numeri, chiunque può fare questo lavoro, chiunque non sbaglia mai. Dice: ma io ho preso il giocatore con più assist, con più percentuale di duelli vinti. Poi magari vedi che il giocatore non rende pur avendo delle statistiche eccellenti. Perché poi c’è tutto il resto.
Mi chiedevo però se per guidarvi nelle scelte seguite anche delle indicazioni statistiche. Per esempio se vi serve una mezzala più creativa o meno creativa, più diretta o meno diretta. C’è qualcosa che vi guida per restringere il campo? Perché immagino che avete una rosa di nomi abbastanza ampio per ogni ruolo.
Abbiamo tanti nomi ma è il frutto della continua ricerca nel vedere le partite. Noi abbiamo un software dove all’interno ci sono tutti i giocatori visionati. Poi, in base all’allenatore che scegli, individui il giocatore più adatto. Abbiamo dei parametri fisici e tecnici anche sui nostri calciatori, che sono monitorati in tutto e per tutto, dagli Allievi alla Prima Squadra. In ogni caso non vediamo prima le statistiche e poi cerchiamo il giocatore, ma il contrario.
Un’altra cosa di cui si discute è come affrontare il salto dalla Serie B alla Serie A a un livello manageriale. Tu hai già vissuto alcune promozioni quindi immagino ti sarai fatto un’idea. C’è una grande discussione ad esempio se tenere l’allenatore che ha ottenuto la promozione o cambiarlo, puntare su giocatori più esperti per il salto di categoria o tenere un gruppo giovane, e così via. La tua idea qual è? Quale pensi sia la strategia migliore per affrontare il salto di categoria?
Io non penso che ci sia una strategia migliore o peggiore. Tutto sta dove si lavora. La differenza la fa capire le ambizioni e gli obiettivi dei club dove stai lavorando in quel momento. A Empoli tutte le volte che abbiamo affrontato la Serie A abbiamo sempre dato continuità a quei giocatori che erano stati determinanti per la promozione. Perché avevano della prospettiva su cui lavorare e per noi è determinante l’aspetto motivazionale che hanno questi calciatori alla loro prima esperienza in Serie A. Di sicuro non dormono di notte, di sicuro hanno una voglia di stupire e stupirsi che nel calcio fa la differenza. L’ultimo anno dove siamo retrocessi [dalla Serie A, nella stagione 2018/19, nda] abbiamo abbandonato un po’ questa mentalità cercando giocatori un po’ più esperti. Avevamo una squadra più strutturata però alla fine siamo retrocessi. Non dico che sia stata quella la ragione - quell’anno siamo retrocessi anche per sfortuna. Abbiamo chiuso con 38 punti, con un calcio chiacchieratissimo in tutta Italia, e con quell’Inter-Empoli all’ultima giornata che ancora oggi se la ricordano tutti.
Però oggi non lo rifaresti di puntare su giocatori più esperti.
Io penso che tra la Serie B e la Serie A ci siano 10 categorie di differenza, non una. La Serie A è tutto un altro livello, quindi cercherei di fare un mix [tra giovani ed esperti, nda]. Certamente non smantellerei il gruppo che ci ha portato o ci porterà in Serie A. Andrei a puntellare la rosa con giocatori un po’ più esperti, ma la base sarebbe quella delle motivazioni che i calciatori hanno al primo anno. Empoli è una realtà particolare. Quando vai alla ricerca di un giocatore esperto, se questo non viene con grande motivazione poi fa fatica. Empoli deve essere vista come un trampolino di lancio: non come un fine carriera ma come un passaggio. Empoli vive di plusvalenze e di vendite, deve ricreare. Se il giocatore esperto non viene con questa mentalità stai sicuro che non rende per come potrebbe rendere.
Mi interessava anche perché nelle ultime stagioni mi sembra che stiate puntando sempre meno su giocatori che hanno avuto delle stagioni alle spalle in Serie A e state facendo più acquisti direttamente dalla Serie B, penso a Leonardo Mancuso, a Stefano Moreo, a Leo Stulac. Non so se è effettivamente un cambio di strategia da parte vostra, e se vogliate mantenerla anche in futuro, o se è semplicemente un caso.
No, non è un caso. Noi pensiamo che in Serie B ci vogliono i giocatori mentalmente pronti per la categoria perché spesso quando scendono dalla Serie A fanno fatica se non si calano in questa categoria. Si ritorna sempre lì: è la testa a fare la differenza. Non è detto che con dieci anni di Serie A alle spalle un giocatore faccia automaticamente la differenza in Serie B. Come vedi, [in Serie B, nda] ci sono squadre che magari spendono poco ma che hanno una fame e una determinazione che poi mettono in difficoltà tutte - anche squadre più blasonate, squadre che hanno speso. Se non ti cali mentalmente nella categoria fai fatica.
Ma risalendo in Serie A pensi sia possibile pescare ancora dalla Serie B?
In questo momento di Serie A non ne voglio parlare perché il campionato è veramente molto lungo. Questa credo che sia la Serie B più difficile degli ultimi dieci anni - lo dimostra anche la classifica, i pochi punti che ci sono tra le squadre. È molto competitiva e molto bella per gli appassionati di calcio. In Serie B ci sono sempre dei giocatori molto interessanti e ce ne sono anche quest’anno.
Da quando sei arrivato all’Empoli sono passati diversi giocatori che poi hanno fatto il salto nel cosiddetto grande calcio: penso a Bennacer, Zajc, Dimarco, Di Lorenzo, Traoré, la lista è abbastanza lunga. Qual è il giocatore che ti ha reso più fiero? Non per forza tra questi.
Io sono molto legato al gruppo che ha fatto la storia di questo club quando tre anni fa, prima con Vivarini e poi con Andreazzoli, ha vinto un campionato straordinario facendo un calcio anche molto bello, propositivo e spettacolare [la Serie B 2017/18, nda]. In quel gruppo c’era Di Lorenzo, che avevo preso dal Matera, Bennacer, Krunic, Zajc, Caputo, Donnarumma, Luperto, Maietta, prima Provedel, poi Gabriel e Terracciano. Se tu vai a vedere sono quasi tutti giocatori che giocano in Serie A. Quel gruppo me lo porto dentro. È stata un’annata straordinaria anche per me, perché era il mio primo anno da direttore sportivo in prima squadra.
Anche quest’anno ci sono alcuni giocatori dell’Empoli per cui già si parla di grandi squadre in Serie A, parlo per esempio di Samuele Ricci e Fabiano Parisi. Visto che da un punto di vista finanziario il tuo lavoro consiste anche nel sapere quando vendere, volevo sapere se secondo te è più saggio vendere subito, cioè una volta che un giocatore esplode e arrivano tante offerte, oppure rischiare e puntare sul talento di quel giocatore per aspettarsi una crescita ulteriore. Non parlo per forza di anni ma magari una, due stagioni in più e aspettarsi una crescita ulteriore delle offerte che arriveranno in futuro.
Questo in realtà non lo puoi pianificare. Dipende innanzitutto dalle esigenze del club: se ha esigenze di vendere sei costretto a perdere qualche pezzo. Poi dipende anche se credi che quel giocatore possa rimanere con la stessa mentalità con cui è arrivato. Perché quando arrivi magari vedi nell’Empoli una grossa opportunità per la tua carriera, soprattutto quando sei giovane. Nel momento in cui raggiungi una crescita e già cominciano ad esserci delle richieste molto più importanti, invece, difficilmente rimani con le stesse motivazioni. Dipende anche dalla categoria perché magari se sei in Serie A le motivazioni di cui ti sto parlando ce l’hai perché sali di livello. E per questa ragione continui ad avere quella voglia con la quale sei venuto perché è una categoria nuova nella quale non hai mai giocato - pensi che l’Empoli sia una nuova opportunità di crescita, che posto migliore non c’è. Dipende da tanti aspetti, insomma. Prima ti ho parlato della squadra che ha vinto il campionato: quell’anno abbiamo tenuto quasi tutti, a parte Donnarumma perché c’era un’opportunità sia per il ragazzo che per il club. Abbiamo deciso di continuare il processo di crescita dei calciatori per poi vendere al secondo anno. Perché una società che vive di vendite e plusvalenze un giocatore al massimo se lo tiene due anni.
Tu sei DS di una società che è una delle pochissime in Italia che lavora con i giovani da sempre, segue determinati principi anche di gioco, penso anche all’adozione del 4-3-1-2, del rombo a centrocampo, della difesa a zona, il controllo del possesso… Abbiamo visto anche come questo tipo di filosofia abbia influenzato allenatori che poi sono diventati importanti, abbiamo detto Sarri, ma anche Giampaolo. Poi quando sei arrivato tu da DS avete continuato su questo solco scegliendo Martusciello. Ti chiedo: nella pratica esiste veramente questa filosofia? La società ti chiede di scegliere allenatori con queste caratteristiche? E se sì, volevo sapere in che modo specifico ti guida o magari ti limita questa filosofia.
In realtà noi non scegliamo gli allenatori perché sanno fare bene il 4-3-1-2. Il 4-3-1-2 nasce con Sarri. Perché se è vero che la società ha dato tanto a Sarri, è anche vero che Sarri ha dato molto a questa società. Credo che la crescita dell’Empoli negli ultimi otto anni sia dovuta molto a lui, come in parte anche a tutti gli altri professionisti che sono passati per questa società. Noi in realtà non abbiamo un modulo prestabilito. Ma è vero che prima di Sarri l’Empoli non giocava con il 4-3-1-2. Poi c’è da dire anche che si è arrivati a giocare con il 4-3-1-2 perché le caratteristiche dei giocatori erano adatte a quel tipo di modulo.
A proposito di questo esiste un dibattito se sia stato Sarri a cambiare l’Empoli o il contrario.
Anche l’Empoli ha dato a Sarri, lo ha fatto crescere. Quando è arrivato, Sarri si portava dietro delle dicerie: che era un allenatore cupo, che aveva dei suoi schemi mentali e oltre non riusciva ad andare. Da questo punto di vista Marcello Carli gli ha dato tantissimo. Sarri, come ti dicevo, al 4-3-1-2 ci è arrivato poi tramite un processo, cioè capendo le caratteristiche dei giocatori. Perché inizialmente è arrivato volendo fare il suo modulo, cioè il 4-2-3-1 o il 4-4-2. Ogni allenatore si porta dietro le sue credenze, le proprie idee. Molto spesso si fa anche fatica a fargli cambiare idea. Ognuno di noi ha le proprie certezze.
E perché avete tenuto il 4-3-1-2 anche dopo Sarri allora?
Perché oltre a dare delle certezze a Sarri ha dato anche delle certezze alla società, che ha iniziato a costruire la squadra seguendo quelle caratteristiche. Quando è andato via Sarri noi parte della squadra ce l’avevamo. Il lavoro dell’Empoli è quello di capire le caratteristiche dei giocatori e di metterli nelle migliori condizioni per esprimersi. Se io ho una squadra in cui all’interno ho un trequartista forte, e allora avevamo Saponara, bisogna andare a cercare un allenatore che possa lavorare sulla prospettiva del trequartista. Non vado a prendere un allenatore che fa il 3-5-2 o il 4-3-3 perché ho un giocatore di proprietà in quel ruolo. Il modulo per noi lo fanno le caratteristiche dei giocatori. Tu hai detto giustamente che il 4-3-1-2 è un modello dell’Empoli, ma c’è da dire che nel tempo questo è diventato anche un nostro limite. Oggi quando parliamo con gli allenatori tutti ci dicono: “Io voglio fare il 4-3-1-2”, perché sanno che all’Empoli il 4-3-1-2 è un marchio. Quindi a prescindere se lo conoscono o meno cercano di dirci che è quello il loro modulo.
Anche Alessio Dionisi [attuale allenatore dell’Empoli, nda] gioca con il 4-3-1-2 a rombo.
Dionisi lo seguivamo da tempo. Lui ha iniziato facendo il 4-3-3 poi a Imola [all’Imolese, nella stagione 2018/19] ha cambiato e ha iniziato a fare il 4-3-1-2. Perché? Perché lì aveva dei giocatori con determinate caratteristiche e da allenatore bravo qual è li ha messo nelle migliori condizioni per esprimersi. Lì sta la capacità dell’allenatore. Noi in questo siamo molto rispettosi, i ruoli per noi sono determinanti. Io non dirò mai all’allenatore né chi deve far giocare né come deve giocare. Io non mi sostituisco all’allenatore: io sono di supporto all’allenatore, mi confronto, dico il mio punto di vista, ma le decisioni sono sue. Se no invece di fare il DS mi metto a fare l’allenatore.
Dionisi arriva dopo una stagione difficile dove l’Empoli cambia diverse volte l’allenatore [tre volte, passando da Bucchi a Muzzi a Marino, nda]. Con lui l’Empoli sembra un po’ tornata alle origini: una squadra molto giovane che segue determinati principi. Il ragionamento che ti ha portato a sceglierlo si è basato sul gruppo che avevate a disposizione oppure è il contrario? Cioè avete scelto Dionisi per le sue idee e poi avete plasmato il gruppo di conseguenza?
L’abbiamo scelto perché abbiamo intravisto in lui la capacità e la competenza per far esprimere il potenziale che gli abbiamo messo a disposizione. Noi avevamo già costruito la squadra l’anno scorso, perché tanti giocatori sono gli stessi della scorsa stagione - partivamo già da una base per noi molto importante. Noi non imponiamo mai all’allenatore come deve giocare. Se l’allenatore ci avesse detto che per lui le caratteristiche di questi giocatori avrebbero potuto esaltarsi con il 4-3-3 avremmo seguito l’idea dell’allenatore. In ogni caso, l’idea di calcio di Dionisi si avvicinava molto all’idea di calcio che ha l’Empoli. Cioè di una squadra organizzata, con le idee chiare, che sa cosa fare.