Questo articolo uscirà sul prossimo numero della rivista Il Calciatore, magazine dell’AIC.
Daniela, la ragazza del taxi, era rimasta in silenzio per qualche secondo. Dopo avermi chiesto “Dove andiamo?” e avermi sentito rispondere "Formello, il centro tecnico della Lazio", era rimasta per qualche secondo in silenzio. Stava cercando di capire quanto sarebbe passata per ficcanaso se si fosse lasciata andare alla curiosità di chiedermi “Cosa ci vai a fare, se mi posso impicciare?”. Poi l'ha fatto.
Daniela non aveva mai sentito nominare Acerbi. Abbiamo scherzato per tutto il viaggio di andata e per quello di ritorno sulla sua incapacità di memorizzarlo. Agerba, Acerri, Acervis. La sua totale estraneità al volto e al nome di uno dei difensori più forti della Serie A è stato il prologo più naturale al mio incontro con lui. Poi c’è stato il vocale di WhatsApp di Francesco, dieci minuti prima del nostro appuntamento: “Sto uscendo ora da Formello. Vado al bar dell'Agip, a duecento metri dal centro sportivo. Ti aspetto lì”.
Il calcio di alto livello, tanto per necessità quanto a volte per autocompiacimento, finisce spesso per percepirsi ed essere percepito come una bolla egoriferita. Uno spettacolo i cui attori tendono a prendersi troppo sul serio. Ho trovato Acerbi seduto sul tavolo del bar, chiacchierava con i gestori del bar mangiando una crostatina alla marmellata. Eravamo lì per parlare dei più duri, dei più sbagliati, dei più soddisfacenti momenti della sua carriera. Dunque della sua vita adulta.
«Francesco mi piacerebbe fare un'intervista un po' personale. Se finiamo a parlare di argomenti troppo delicati, mi fermi e cambiamo domanda, ok?», «Tranquillo, non c'è problema. Però la ragazza del taxi che ti sta aspettando fuori non la possiamo invitare a prendere un caffè con noi?». Acerbi è consigliere di Assocalciatori. Avremmo dovuto incontrarci a Milano al direttivo dei primi di febbraio, ma era troppo vicino al recupero di Lazio-Verona, quindi è dovuto mancare. L'ho raggiunto io la settimana dopo, quella di Lazio-Inter. Acerbi ci era arrivato in un momento di grande affermazione personale, dopo aver rischiato di mandare all'aria la sua carriera e addirittura la sua vita.
Giocavo per mio padre, non per me
La sua carriera in Serie A è iniziata relativamente tardi, a ventiquattro anni, all'inizio del 2012. «Al Chievo avevo iniziato a giocare a inizio febbraio. Già a metà aprile mi voleva il Milan. Appena l'ho saputo non ho voluto sentire nessun'altra offerta. Volevo solo il Milan, lo tifavo da bambino». Assieme al traguardo professionale era arrivata la morte del padre a cambiare tutto. O forse a lasciare tutto com'era, incancrenendo le sue debolezze. «Io giocavo per mio padre. Ci teneva molto, forse troppo. Sicuramente più di me. Forse a volte puntava talmente tanto su di me che volendo farmi bene arrivava a farmi male. A farmi perdere la passione. Fatto sta che una volta che lui non c'è più stato io non avevo nessuno per cui giocare. Di certo non per me».
Dalle sue parole esce il ritratto di un ragazzo che si accontentava. Sapeva che poteva dire la sua in campo senza rinunciare a qualche eccesso fuori. «Non avevo la testa da professionista. Non avevo rispetto per me, non avevo rispetto per il mio lavoro, non avevo rispetto per chi mi pagava. Spesso arrivavo al campo alticcio, senza aver recuperato dai superalcolici della sera prima. Mi andava bene perché fisicamente sono sempre stato forte. Mi bastava dormire qualche ora e poi in campo rendevo comunque. Le serate non sono sbagliate a prescindere, il problema è che allora io esageravo».
L'arrivo al Milan aveva coinciso con il suo periodo di disorientamento. Non aveva sentito nemmeno la pressione di passare da una squadra piccola a una mediaticamente esposta ogni santo giorno. «Non avevo paura della grande squadra non perché fossi coraggioso ma perché non me ne fregava niente. Volevo solo divertirmi e giocare. Braida mi aveva detto che sapevano del mio stile di vita e per questo mi avevano trovato casa a Gallarate e non a Milano. Ma io uscivo lo stesso». Un paio di mesi prima della sua presentazione a Milanello, era stato il momento dell'addio della vecchia guardia. Anche Nesta aveva lasciato la squadra e la sua maglia numero 13. Un'eredità pesante raccolta da un ragazzo che, senza saperlo, stava lentamente scivolando tra le braccia dei propri demoni. «Non sentivo la pressione, non mi importava. Il numero 13 non l'avevo scelto io. Era stato Galliani a dirmi che l'avrei dovuto prendere. A me faceva piacere ma non davo la giusta importanza a niente. Nemmeno ad essere al Milan, nemmeno al numero di maglia».
Acerbi è semplice ma senza buonismi e senza inni al calciatore-acqua-e-sapone. Una semplicità che è sempre stata per lui un'arma a doppio taglio. Lo ha reso vulnerabile, togliendogli le difese di fronte ai propri vizi e alle proprie debolezze.
Foto di Patrik Stollarz.
Volevo smettere di giocare a calcio
«Diciamo che in quegli anni ero un po' ignorantello. Pensavo a fare le mie due ore di allenamento, arrivavo tra i primi al campo, davo tutto e per me ero a posto così. Non pensavo minimamente a tutto il resto. A fare una vita da giocatore professionista anche oltre a quelle due ore». Pretendeva di fare le cose come voleva. Arrivato al Milan non giocava e si arrabbiava. «La mia idea era che avrebbero dovuto lasciarmi fare tutto come avevo sempre fatto. Mi dicevo Se mi avete preso allora fatemi fare come ho sempre fatto. Come facevo al Chievo, o alla Reggina. Invece non mi lasciavano del tutto libero di fare la mia vita e non mi facevano giocare. E allora di fronte alle difficoltà mollavo».
Uno stato d'animo di smarrimento non è certo la predisposizione più adatta a far fruttare una grande occasione professionale. Era in balia degli eventi e a gennaio è tornato al Chievo.
«Volevo smettere di giocare. Non mi interessava più, non trovavo più stimoli. Lo dicevo al telefono a mia madre quando ci sentivamo e lei poveretta non sapeva bene cosa dirmi. Lo dicevo anche a Paloschi, eravamo legati: Palo voglio smettere, non ce la faccio più.Dai Ace che cazzo dici? Tieni duro! mi rispondeva lui». Il trasferimento sulle colline modenesi, a Sassuolo, era stato se non altro una scelta nella direzione di proseguire con il calcio. La convinzione, tuttavia, era tutta un'altra cosa. «Non dico di essere andato lì tanto per fare, certamente però continuavo a fare tutto con la mia testa. Mi allenavo, giocavo, un minuto dopo staccavo e pensavo solo al mio tempo libero. Mai ad essere un professionista anche fuori dal campo».
Le difficoltà di rendimento al Milan e poi al ritorno al Chievo, non avevano intaccato la sua consapevolezza nei propri mezzi. Gli ho chiesto se gli fosse mai balenato il pensiero di aver azzardato un passo troppo lungo nel suo passaggio al Milan. Se avesse considerato di non essere un giocatore di quel livello. «No. Ero certo di essere forte. Di essere più forte di molti altri. Solo mi andava bene così e se non giocavo mi arrabbiavo con gli altri e mai con me stesso. Mandavo tutti a quel paese senza iniziare a curare ogni aspetto, la mia vita, tutti quei dettagli che fanno davvero la differenza».
Mi chiedevo perché il cancro non mi stesse cambiando
La sua foto profilo su WhatsApp lo ritrae assieme a un bambino. Sono seduti a tavola, Acerbi con il telefono in mano proteso verso il bambino, forse per fargli vedere una foto o un video. «Si chiamava Elia. Non c'è più. L'ho conosciuto a Udine, nel reparto di oncologia pediatrica dell'ospedale. Dopo una partita lì con il Sassuolo, un genitore mi ha avvicinato e sapendo della mia storia mi ha chiesto se mi andava di andare a trovare i bambini ricoverati. Ho accettato e da lì sono nate delle belle amicizie. Elia per esempio mi ha insegnato tanto. Chiedevo a suo padre se davvero sapesse che gli restavano pochi mesi da vivere e lui mi rispondeva di sì. Mi sembrava impossibile che riuscisse a ridere e giocare come faceva».
L'esperienza della malattia è la chiave per la vita di Acerbi. Mi ero preparato le domande Ti ha migliorato? La consideri una cosa positiva? provando a capire quale sarebbe stato il momento giusto per farla, andando con i piedi di piombo, misurando le parole. La sua risposta è immediata. La ripete più volte con la stessa convinzione entusiasta con cui dopo venti chilometri di corsa diresti che l'acqua è una cosa dissetante. «Il cancro è stato la mia fortuna. Ringrazio il Signore per averlo avuto». Sarà quindi la classica storia della malattia combattuta sull'onda di un'epifanica riscoperta di sé? No. Per Francesco è stata un po' più complicata di così.
«Ho scoperto di essere ammalato a luglio del 2013, appena arrivato a Sassuolo. Operazione e dopo tre settimane ero di nuovo in campo. Non me ne sono nemmeno accorto e dunque non era cambiato niente. Continuavo a comportarmi da non professionista fuori dal campo». A novembre era arrivata una ricaduta e questa volta la soluzione era stata meno indolore. I cicli di chemioterapia non gli permettevano più di scendere in campo, se non per qualche allenamento portato a termine con fatica immane. Aveva perso i capelli. Aveva iniziato a convivere con la nausea e tutti i classici effetti collaterali delle cure. «Non volevo dargliela vinta, questo sì. Battevo i pugni sul tavolo, mi mettevo a gridare in casa da solo esci dal mio corpo, vai via! però in sostanza continuavo a fare la vita di sempre. Le serate, le bevute. Reagivo così alla malattia, stando fuori fino alle 7 del mattino». Una domanda continuava a rimbalzargli in testa. «Continuavo a chiedermi perché la malattia non mi stesse cambiando. Perché non avessi paura. Mi stupivo di restare sempre lo stesso».
Il cambiamento era arrivato qualche mese più tardi, quando ormai il cancro era già stato sconfitto. «Durante la malattia mi ero convinto del potere della mia mente. Un giorno avevo finito la confezione delle pastiglie contro la nausea. Avevo chiamato il medico per farmene prescrivere altre. Francesco quello è il lassativo, non hai preso il farmaco corretto. Il mio errore mi aveva fatto capire che se con il lassativo sentivo la nausea andarsene, allora significava che fino a quel momento l'avevo fatta passare con la mia mente. Autoconvincendomi». La stessa mente che lo aveva sorpreso a fine campionato quando Simone Lorieri, figlio dell'allora preparatore dei portieri nello staff di Di Francesco, gli aveva chiesto se in estate gli andasse di allenarsi con lui. «Avevo risposto di sì e, sentirmi dire che alle serate a Milano Marittima preferivo allenarmi, mi aveva stupito. Forse qualcosa stava cambiando. La certezza l'ho avuta quando uscendo a cena con lui, la sera, sentivo il bisogno di bere poco alcol. Mi ricordo anche che facevo una cosa strana: ad ogni bicchiere di vino o birra facevo seguire un bicchiere d'acqua, come se sentissi di dovermi depurare». Una depurazione che era proseguita anche nei rapporti umani, troncando i rapporti con una serie di persone discutibili che lo circondavano. «C'era chi mi stava attorno per secondi fini, facendomi del male. Ho capito che andava allontanato. Che dovevo tenere attorno a me solo chi mi voleva davvero bene».
L'Acerbi attuale nasce in quelle settimane d'estate del 2014. Lì la sua testa diventa la testa di un professionista: il piacere di allenarsi, il piacere di valorizzare le proprie doti, il piacere di curare il proprio fisico. «Non mi sono mai imposto nulla. In realtà non ho proprio fatto nulla per arrivare alla svolta. È stata la mia testa ad aver fatto tutto». Lì inizia a capire che se non può più giocare per far felice suo padre, può giocare per far felice se stesso.
Foto di Marco Luzzani / Getty Images.
Mi sentirò arrivato solo quando smetterò
L'edredone è una particolare anatra che vive in Islanda. La cosa curiosa è che nelle condizioni di freddo estremo in cui nidifica, stabilisce un rapporto ancestrale di fiducia con l'uomo. L'edredone costruisce il nido in cui covare le uova; l'uomo difende quel nido dai predatori. Lo fa per trarne un beneficio. Una volta schiuse le uova, quando gli uccelli abbandonano il nido, gli islandesi possono raccogliere le preziose piume con cui era stato foderato. Sono piume che hanno uno sbalorditivo valore di mercato. Gli islandesi non sanno quanti nidi riusciranno a proteggere e dunque quante piume ricavarne. Se si avventurano in un business tanto estemporaneo è per la loro attitudine fatalista di chi da secoli vive di pesca. Pensare giorno per giorno, non fare troppi calcoli.
Acerbi non è islandese eppure sembra avere la stessa attitudine. «Nella mia testa questo non è il mio punto d'arrivo e l'Acerbi di oggi non è il miglior Acerbi possibile. Se così fosse vorrebbe dire sedersi. Non voglio avere nessun punto d'arrivo. Voglio solo pensare a migliorarmi, a ragionare giorno per giorno. Il mio punto d'arrivo sarà quando smetterò di giocare. Ora devo solo pensare a fare il meglio possibile in ogni minima cosa. Poi si vedrà alla fine. Alla fine della stagione, alla fine della carriera».
Mi spiega da dove viene questa fame a non tralasciare nulla del presente senza sprecare troppe energie a pensare al futuro. «A un anno dalla malattia mi è successa una cosa. Sono andato a dormire una sera come niente fosse, la mattina mi sono svegliato assalito dal terrore. Avevo paura della mia ombra». Di colpo lo avevano raggiunto le ansie per i rischi e i passi falsi degli anni precedenti. «Pensavo alle preoccupazioni date ai miei, alle occasioni che avevo buttato all'aria, agli anni sprecati, alle serate di eccessi. Tutto assieme, tutto all'improvviso». Il peso dei pensieri gli era sembrato insostenibile e aveva capito che avrebbe dovuto farsi aiutare. «Dovevo andare da un analista per superare le paure. Così ho iniziato un percorso che mi ha portato a migliorare come uomo. Limando gli aspetti del mio carattere che potevano farmi naufragare, sbloccando certi miei limiti».
I blocchi per Francesco sono fasi di crescita che ancora gli mancavano. Mi racconta di tutte le offerte, anche molto importanti, che ha rifiutato negli anni al Sassuolo. Lo volevano Galatasaray, Leicester, Zenit. «Avevo sempre rifiutato. Stavo bene lì, avevo un bel rapporto con la famiglia Squinzi. E in fondo mi andava bene così». Un altro blocco era venuto a galla nel 2016, alla vigilia degli Europei dell'Italia di Conte. «Avrei potuto esserci e sembra che sia stato quasi io inconsciamente a tirarmi indietro. Mi era dispiaciuto, sì, ma tutto sommato mi andava bene così. Il mio analista ha scavato e ha sbloccato certi step. Adesso voglio tutto». Non è però tipo da rimpianti. Riconosce che con una testa differente sarebbe arrivato in Serie A molto prima e avrebbe raggiunto prima gli standard di prestazioni delle ultime stagioni, senza però struggersi troppo per ciò che non è stato. «Sto accettando che sia andata così. Senza la malattia sarei finito a fare una carriera in Serie B, o magari avrei smesso. Per fortuna lassù qualcuno mi ha voluto bene e mi ha mandato la malattia. Senza sarei finito malissimo. Nessuno mi avrebbe salvato. Oggi sono soddisfatto della persona che sono diventato, nonostante tutti i miei difetti».