Quasi esattamente cinque anni fa - succedeva a metà aprile 2019 - al termine di un Milan-Lazio finito 1-0, due giocatori milanisti, Franck Kessié e Tiémoué Bakayoko, hanno mostrato la maglia di Acerbi alla loro tifoseria. Nei giorni precedenti c’erano stati piccoli screzi sui social e quella era una loro piccola ed evitabile vendetta che si gonfiò nel giro di poche ore a vero e proprio scandalo.
Il presidente della FIGC, Gravina, parlò di gesto «indegno dei valori dello sport» paragonandolo a uno «scalpo», chiedendo una squalifica che servisse a prevenire «qualche reazione antipatica». Anche il sottosegretario di stato, con delega allo sport, Giancarlo Giorgetti intervenne chiedendo provvedimenti e si tentò di utilizzare la prova tv. Alla fine non se ne fece niente.
Qualcuno, timidamente, disse che forse era esagerato parlare di “scalpo” (il cui primo significato in ogni enciclopedia rimanda a tribù guerriere e, nell’immaginario occidentale stereotipato, selvagge) e che non si sarebbero usati toni simili se a compiere quel gesto fossero stati due giocatori con la pelle chiara.
In quel caso Acerbi, su Twitter, scrisse di essere dispiaciuto, che lo scambio della maglia a fine partita sarebbe servito a chiudere la questione e certo non a “fomentare odio”.
Cinque anni dopo è un avversario a dare in escandescenze durante un Inter-Napoli altrimenti trascurabile, che avremmo già dimenticato, dopo che Acerbi gli ha detto qualcosa. Juan Jesus, brasiliano, va dall’arbitro e dal labiale si capisce che sta accusando Acerbi di aver usato offese razziste. Indica la scritta che ha sul braccio che recita "Keep racism out". In vista della settimana dell'azione contro il razzismo (18-24 marzo) la Serie A ha lanciato delle iniziative per la scorsa giornata di campionato e la prossima. Acerbi lì per lì si scusa e sembra iniziare dicendo: «scusa, non sono razzista».
A fine partita Juan Jesus non dice mai esplicitamente cosa è successo, sono cose di campo, ha esagerato, sì è scusato, eccetera eccetera. Poi però succede che Acerbi, escluso dal ritiro della Nazionale, prossima alla partenza per due deliranti amichevoli negli Stati Uniti, non ci sta e dice che «nessuna parola di quel tipo è uscita dalla mia bocca, ha frainteso lui». Juan Jesus allora ci torna sopra dicendo che invece ha capito benissimo e che quando in campo si è scusato Acerbi gli ha detto che per lui quelli erano insulti come altri. Per lui era chiusa in campo, con quelle scuse, ma, scrive: «Oggi ha cambiato versione e sostiene che non c’è stato alcun insulto razzista».
Certo, verrebbe da dire, molto più facile essere nei panni della vittima. Ma va fatta una riflessione più grande. Perché in cinque anni possono cambiare tante cose. Un bambino impara prima a camminare, poi a parlare, ad andare in bici o sui pattini a rotelle. In alcuni casi ha già scelto il suo sport di preferenza, magari la famiglia lo ha spinto a tifare una certa squadra, tipo l’Inter, e conosce persino i nomi di alcuni giocatori. Quello che non è cambiato, però, è il nostro modo di affrontare il razzismo.
Si direbbe proprio che non capiamo di cosa si tratta. Non solo i giornali non hanno ancora nessun problema a scrivere per esteso quelle stesse parole considerate ormai ovunque offensive, in particolare una parola, censurando invece la parola “merda” quando è usata insieme a essa, o un giornalista di grande esperienza come Laudisa propone un blackface riparatorio per Acerbi, ma persino la Federazione - con lo stesso presidente di allora - non riesce ad avere una posizione chiara.
Da una parte scrive, nel proprio comunicato, che «non vi è stato da parte sua alcun intento diffamatorio, denigratorio o razzista», dall’altra «si è comunque convenuto di escludere Acerbi dalla lista dei convocati». A una persona che applica la logica a questo punto viene da chiedere: escluso perché, allora? Per non creare polemiche? Se si tratta invece di una tutela, perché magari il calciatore italiano non sta dicendo il vero e in fin dei conti stanno solamente dicendo che hanno parlato con lui e Acerbi ha negato tutto, perché allora fare da megafono alla sua versione e non restare neutrali? Spalletti assicura che «Non è un episodio di razzismo quello che lui ha fatto», sempre stando a quello che gli ha detto il giocatore. Quindi Juan Jesus si è inventato tutto? Cosa può avergli detto Acerbi che lui ha capito così male? Non credere alle vittime, d'altra parte, è una delle nostre specialità.
In Italia non c’è mai razzismo ma solo e sempre paura del razzismo. E, attenzione, la paura del razzismo ce l’hanno gli italiani di pelle bianca. È paura di essere accusati di razzismo, ecco, anche perché se il razzismo non esiste, le discriminazioni non ci sono o, se ci sono, vengono veramente da poche persone, da gruppi ristretti, allora di cos’altro si potrebbe aver paura?
In cinque anni abbiamo visto Lukaku insultato mentre tirava un rigore, Vlahovic quasi scoppiare a piangere, Maignan è uscito dal campo appena due mesi fa. Ma dov’è il razzismo? Dove sono i razzisti? In questi cinque anni la Federazione ha provato a comunicare a modo suo messaggi positivi, sempre con un po’ di confusione - con dei quadri che rappresentavano delle scimmie e il messaggio “siamo tutti scimmie” (no, non lo siamo, nessuno è una scimmia, sarebbe più giusto dire) - ha squalificato curve e stadi, multato club, e cosa è cambiato?
È cambiato che oggi ci troviamo a scrivere di un calciatore della nazionale che proprio nella domenica in cui la federazione promuove la sua campagna contro il razzismo, forse dice qualcosa di razzista a un avversario, forse invece è l’avversario ad aver capito male.
Sembra uno scherzo ma è molto significativo. Ancora una volta nessuno è stato razzista, nessuno ha chiesto scusa. Del razzismo, verrebbe da dire, ci sono solo le vittime. Solo quelli come Juan Jesus, poveri paranoici che in un paese accogliente, che non discrimina, di tutte brave persone “di grande moralità” come si dice in questi casi, sentono cose che nessuno dice.
"Al razzismo io dico vaffanculo”, ha detto Acerbi con una splendida piroetta. Forse avrebbe fatto meglio a dirlo a Juan Jesus vaffanculo, in campo, che sicuro non avrebbe frainteso.