Per poter motivare l’assegnazione del premio al miglior acquisto è necessario prima capire cosa distingue un buon affare da un altro. Come si valuta, quindi, un buon acquisto? Se potessimo pesarlo con una bilancia a due piatti dovremmo mettere il rendimento stagionale da una parte, e le aspettative di inizio stagione e il prezzo del cartellino dall’altra. Ora, nonostante non abbia la minima idea di come funzioni una bilancia a due piatti nella realtà (d’altra parte credo che nessuno abbia mai visto o utilizzato davvero una bilancia a due piatti), questa metafora potrebbe comunque tornare utile per capire perché, tra i tre candidati andati a votazione per questo premio, alla fine abbia prevalso proprio Hakimi. Se è indubbio infatti che Hakimi, Romero e Chiesa abbiano avuto tutti una buona stagione, e ognuno ha la sua idea su quale sia la migliore, diversa era sicuramente la situazione sull’altro piatto, dove i tre partivano da condizioni molto diverse.
Se Romero è stato pagato relativamente poco (circa 18 milioni complessivi) ma c’era la diffusa convinzione che il suo senso dell’anticipo e la sua aggressività potesse incastrarsi alla perfezione con il sistema di marcature a uomo di Gasperini, e Chiesa invece è partito da una situazione opposta con un cartellino pagato profumatamente (circa 50 milioni in tutto) e diversi dubbi su come si sarebbe inserito in una squadra di vertice e in un progetto tecnico completamente nuovo, Hakimi è l’unico per cui entrambe le variabili pesavano molto. Sia il costo del cartellino (circa 45 milioni di euro) che le aspettative intorno al suo arrivo in Italia, incendiate dai suoi due anni al Borussia Dortmund, dove in due stagioni aveva messo a segno 11 gol e 17 assist, e dall’idea che il suo talento potesse prendere fuoco a contatto con i principi tattici di Antonio Conte. Molti tifosi dell’Inter all’annuncio del suo acquisto forse avevano ancora negli occhi il gol con cui Hakimi aveva affondato proprio la squadra di Conte in Champions League la stagione prima, aggirando Sensi come una sagoma d’allenamento e tagliando a metà la difesa nerazzurra come coltello nel burro. Cosa sarebbe potuto diventare un giocatore simile nelle mani di un allenatore che aveva trasformato esterni come Estigarribia e Giaccherini in biglie impazzite?
La pesantezza di queste due variabili facevano quindi pendere molto in basso il piatto della bilancia su cui erano poggiate ed è solo con questa tara che possiamo percepire il giusto peso dell’incredibile stagione di Hakimi, che ha stravinto il voto popolare con la stessa disarmante facilità con cui in stagione ha percorso la fascia destra, sbalzando via gli avversari che provavano a mettersi in mezzo alle sue accelerate da moto d’acqua. Un’annata che, se possibile, ha ancora più valore in un campionato che si è ritrovato inaspettatamente ricco di esterni difensivi dominanti, atleticamente e/o tecnicamente, a partire da Theo Hernandez, Robin Gosens e Juan Cuadrado (ma si potrebbero citare anche le brillanti stagioni di Rick Karsdorp e Giovanni Di Lorenzo). Tra questi, proprio il terzino dell’Atalanta è stato l’unico ad averlo superato nel numero di gol a cui ha partecipato: ben 17, tra gol (11) e assist (6), contro i 15 dell’esterno marocchino dell’Inter (7 gol e 8 assist).
Oggi, a nove mesi dal suo arrivo in Italia e dopo una stagione in cui ha raso al suolo il ricordo di Candreva dalla nostra memoria dell’Inter di Conte, ci pare quindi naturale che questo premio vada a lui. Il percorso che ha fatto Hakimi per arrivare a questo premio, però, è stato molto più difficile di quanto non ci sembri adesso, a ennesima conferma - se davvero ce ne fosse bisogno - che il calcio non è FIFA (anzi, FUT). I problemi di inserimento di Hakimi sono coincisi quasi perfettamente con gli alti e bassi della stagione dell’Inter, come se il suo stato di forma fosse un termometro dell’evoluzione della squadra di Conte. Anzi, potremmo dire che il dilemma di come inserire un giocatore come Hakimi all’interno dell’Inter sia stata una delle chiavi principali attraverso cui il tecnico salentino ha capito come rimodellare la propria squadra, portandola allo Scudetto.
I primi due mesi della stagione sono stati infatti piuttosto problematici per l’Inter, che tra settembre e novembre è sembrata una squadra piuttosto fragile e sprecona sotto porta. Conte ha iniziato questa stagione forse con l’idea di alzare il baricentro della propria squadra, pressando sempre in alto gli avversari e cercando di attaccare posizionalmente nella trequarti avversaria con movimenti codificati, ma in un assetto simile Hakimi è sembrato inizialmente in difficoltà, segnando in negativo alcuni momenti decisivi di quella prima frazione di stagione. Il gol sbagliato nel derby d’andata sul risultato di 1-2, ad esempio. Ma anche quello forse ancora più semplice nella partita contro il Parma, in cui Gervinho aveva fatto passare in vantaggio i suoi infilandosi nello spazio troppo largo che si era venuto a creare tra lui e de Vrij. Infine il retropassaggio involontario a Benzema nella partita di andata contro il Real Madrid in Champions League, che aveva aperto le marcature nella sconfitta per 3-2 a Valdebebas.
Una serie di momenti sfortunati che avevano portato Conte a preferirgli il più accorto Darmian in alcune partite delicate in campionato, come quella contro l’Atalanta e quella che poi si rivelerà ancora più importante nella storia di questo Scudetto, contro il Sassuolo. In una conferenza stampa dopo quella partita, Conte fu costretto a dare una spiegazione alle “difficoltà di Hakimi”, che allora sembrava spaesato quando c’era da correre all’indietro e poco lucido di fronte alla porta, nonostante ci si ritrovasse spesso. «Andate a rivedervi cosa ho detto all’inizio di Hakimi: rimango fermo sulle mie posizioni», aveva dichiarato allora l’allenatore salentino. «Ha potenzialità ma deve lavorare molto sulla fase difensiva. In Italia ci sono pressioni, aspettative e richieste più alte rispetto a Germania e Premier, soprattutto in squadre come l’Inter».
Come abbiamo scritto in un pezzo sulle tappe decisive di questa stagione dell’Inter, proprio quella partita contro la squadra di De Zerbi fu però “un momento di svolta tattica”: «L’Inter abbassa il proprio baricentro, accetta meno rischi soprattutto col pressing, mentre in attacco continua ad affidarsi alla vena delle due punte e alle corse di Hakimi e Barella, sempre più determinanti. Se fino a quel momento aveva preso 20 gol in 12 partite, ne subirà poi appena 9 nelle successive 22». Nella partita successiva, contro il Bologna, Hakimi segna una doppietta esemplificativa del passaggio dalla vecchia Inter alla nuova Inter: se il primo gol arriva infatti con un movimento da seconda punta pura alle spalle del movimento incontro di Alexis Sanchez, con l’Inter piantata nella trequarti avversaria e ben sette giocatori sopra la linea della palla, il secondo nasce invece da una costruzione bassa ad attirare la pressione avversaria e da un’azione fulminea verso la porta avversaria con pochi uomini, conclusa con un accentramento sulla trequarti e un tiro in porta dal limite dell’area.
Da quella partita sono arrivati altri quattro gol e sette assist in campionato, quasi tutti su azioni simili - cioè con l’Inter che attira la pressione con una lenta circolazione bassa, ne esce con una verticalizzazione o una diagonale verso le punte, che dopo aver combinato tra di loro scaricano sul lato debole, attaccato proprio da Hakimi. In questo tipo di azioni, l’esterno marocchino si ritrovava spesso a essere il vero e proprio riferimento offensivo della squadra di Conte, l’unico addetto alla fase di finalizzazione. Anche quando l’Inter attaccava in maniera meno diretta, comunque, Hakimi è finito per diventare la terza punta “occulta” della squadra di Conte. Non solo per la facilità con cui si poteva mettere gli avversari alle spalle, ma per il senso di minaccia percepita che riusciva a restituire una volta che attaccava la porta. Insomma, quanti altri esterni difensivi sono capaci di mettere il pallone sotto al sette con un tiro sul palo più lontano, talmente preciso da prendere la traversa esattamente in quel punto che fa rimbalzare il pallone violentemente a terra per poi sbalzarlo sulla parte alta della rete?
Da quella partita contro il Sassuolo, però, l’Inter è diventata una squadra che difendeva più bassa e che cercava di attaccare in maniera più diretta, che si lasciava più campo da attaccare davanti e che faceva risalire il pallone affidandosi soprattutto alla forza sovrannaturale della sua catena di destra - non solo Hakimi, ma anche Barella e Lukaku. In un sistema di questo tipo, Hakimi è sembrato giorno dopo giorno sempre più a suo agio, non solo perché era meno costretto a letture complesse in difesa, sia negli uno contro uno che nella copertura dello spazio alle spalle della linea di difesa, ma anche e soprattutto perché aveva più campo da percorrere davanti a sé, sia con la palla che senza. Come se correre per 60 metri invece che per 20 fosse la sua personale zona di comfort. Come se avesse bisogno di distanze lunghe per mettere il campo in discesa con la sua velocità, che a volte fa sembrare gli avversari semplicemente dei giocatori non professionisti. Forse il gol più rappresentativo della sua stagione in questo senso è stato quello realizzato esattamente in questo modo in una difficile partita contro lo Spezia, dopo una splendida combinazione tra Lukaku e Lautaro a centrocampo tra una selva di maglie bianche.
Insomma, l’Inter è cambiata anche per avere il miglior Hakimi, trovando così la formula per vincere il campionato. In questo senso, se è vero che l’esterno marocchino sembrava nato per l’Inter di Conte, come titolavamo la scorsa estate dando voce al sogno a occhi aperti che stavano vivendo tutti i tifosi nerazzurri, è anche vero allo stesso tempo che Hakimi ha cambiato l’idea di squadra che aveva il tecnico salentino. E di conseguenza anche l’idea dell’Inter di Conte che noi avevamo prima del suo arrivo. Alla fine ridefinire i limiti e le potenzialità delle squadre è esattamente ciò che fanno i grandi giocatori. E Hakimi è sicuramente uno di questi.