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Daniele De Rossi, cuore grosso
17 mag 2019
Otto momenti della carriera del capitano della Roma, ora che sarà costretto a vestire un'altra maglia.
(articolo)
25 min
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Daniele De Rossi, un romanzo di formazione

di Emiliano Battazzi

Si diventa tifosi, da bambini, in diversi modi: c’è chi viene colto da una specie di chiamata, chi ha un’epifania, chi semplicemente segue amici, fratelli, padri o parenti più grandi. Ma nessuno, quando diventa tifoso di una squadra di calcio, sa bene cosa succederà in futuro, e dove lo porterà questo percorso.

Quel 30 ottobre 2001, allo Stadio Olimpico, nessuno aveva capito niente: c’era un inutile Roma-Anderlecht di Champions League, ultima giornata del girone iniziale (all’epoca ce n’erano due). I giallorossi erano già qualificati, i belgi erano già fuori, e io avevo preso i biglietti proprio per assaporare in tranquillità il sapore della Champions (era la prima partecipazione della Roma nel nuovo formato della competizione). Nel classico copione delle partite inutili, in cui entrambe le squadre eseguono sostanzialmente degli esercizi di stile, a venti minuti dalla fine ci si indirizzava verso l’1-1.

All’improvviso l’evento a cui nessuno pensava di assistere e di cui avremmo capito l’importanza solo molto tempo dopo: ci vuole tempo anche per capire l’amore. Al 71’ entrava in campo, al posto di Ivan Tomic, tale Daniele De Rossi, un biondino con il numero 27 sulla maglia Palio di Siena utilizzata dalla Roma solo per la Champions. Poche righe del quotidiano L’Unità del giorno successivo descrivono bene questa mancanza di percezione dell’evento, come chi avesse incontrato van Gogh ad Anversa: «Il pubblico vorrebbe vedere in azione l’oggetto misterioso Cufrè, difensore argentino, ma Capello continua a non dargli spazio, concedendo invece questa soddisfazione al ragazzino De Rossi, che trova il modo di toccare un paio di palloni nonostante l'emozione».

E in effetti non ricordo nulla di De Rossi in quella sera, chissà se qualcuno invece ancora li ricorda, quei due palloni toccati all’esordio da professionista con la Roma. Non sembrano esserci aneddoti su quel momento, come ce ne sono invece per altri esordi di mitici capitani romanisti. Esordire in Champions è un privilegio riservato a pochissimi, ma pensavamo fosse un esordio come un altro.

De Rossi non era il predestinato, De Rossi si è costruito su una passione. Come raccontato proprio da lui in un’intervista a Rivista Undici: «Non ero un ragazzino che credeva che davvero potesse succedere tutto questo a me. Ci speravo, ho lavorato. [...] I primi anni ho anche giocato poco nella Roma, non ero uno dei titolari, non ero una delle stelle individuabili come il futuro campione, il futuro capitano della Roma. Non ero per niente così».

Neppure noi allo Stadio Olimpico, in quella notte di Champions, credevamo che De Rossi sarebbe diventato tutto questo. Come da bambini, quando si sceglie una squadra (o si viene scelti), non si è consapevoli di ciò che verrà, dell’amore e del dolore, della rabbia e della passione: tutto ciò che De Rossi ha rappresentato in 18 anni di Roma.

La consolazione di avere De Rossi

di Daniele Manusia

Daniele De Rossi, si sa, è una contraddizione che gioca a pallone. Ancora per poco con la maglia a cui, fosse stato per lui, avrebbe dedicato l’intera carriera: anche questa è una contraddizione in epoca post-Bosman, in cui raramente la troppa fedeltà è causa di problemi per i club.

Tutti conoscono le sue contraddizioni caratteriali, sanno di come De Rossi sia capace di errori anche clamorosi, indifendibili, spesso masochisti e distruttivi per la squadra che ama; ma anche di essere un vero capitano, un giocatore di quelli “che tutti vorrebbero nella propria squadra”, capace di attirare la stima, il rispetto e la simpatia di tifosi non romanisti proprio per il tipo di persona che è, più che per come gioca a calcio.

È stato anche uno dei centrocampisti più forti degli ultimi quindici anni, uno dei pochi a non aver vinto praticamente niente con la sua squadra di club (2 Coppe Italia e una Supercoppa), arrivato in prima squadra giusto l’anno dopo l’ultimo Scudetto vinto. È stato l’eterno “Capitan futuro”, per cui il presente è durato appena un paio d’anni, una leggenda istantanea della Roma, anticipato di pochi anni appena dalla più grande leggenda di sempre della Roma.

Di Daniele De Rossi, a differenza di Totti, il numero di compilation con gol e grandi azioni da dedicargli è per sua natura limitato. Quanti minuti di sue scivolate sarete disposti a guardare tra un anno? E tra dieci? Quanto spazio occupa su YouTube la sessantina di gol che ha segnato con la maglia della Roma? Di Daniele De Rossi sarà impossibile addolcire il ricordo nella nostalgia. Perché non gli è stato perdonato niente mentre giocava, e sarebbe assurdo farlo dopo. Ma soprattutto perché è impossibile ricordare i bei momenti (ad esempio: il rigore calciato in finale del Mondiale, nel 2006) senza quelli difficili e complicati (la gomitata contro gli USA che gli ha fatto saltare quasi tutto il Mondiale).

Io ho scelto il gol segnato a Manchester contro lo United, nella drammatica trasferta del 7-1. Il gol che De Rossi stesso dice essere il suo più bello, aggiungendo, però, “purtroppo” - e ditemi quanti altri giocatori hanno segnato il loro gol più bello nella partita forse più terribile della propria storia calcistica, perché a me in questo momento non me ne vengono in mente.

Quando si ricorda quel 7-1 bisogna tenere a mente che la Roma non solo aveva battuto il Manchester all’andata (2-1), ma che veniva anche dalla grande partita di Lione (0-2), il ritorno degli ottavi in cui Amantino Mancini aveva ipnotizzato Reveillere (in cui a De Rossi, tra l’altro, fu annullato un gol per un fallo di Totti precedente al suo colpo di testa). La speranza era tale che non credo di essere stato l’unico (a mia discolpa dirò che avevo “solo” 25 anni) ad aver fatto calcoli sul possibile passaggio della Roma almeno fino al gol del 5-0 di Ronaldo, a inizio secondo tempo. De Rossi ha segnato il gol del 6-1, quando ormai neanche il più folle dei tifosi della Roma pensava che si potesse fare qualcosa.

Quella serata è rimasta nella memoria anche per i racconti di Ronaldo, forse poco eleganti, ma sicuramente interessanti dal punto di vista umano, secondo cui un giocatore della Roma gli chiese di “farla finita”, altri di cambiare fascia e qualcuno “decisamente con meno senso dell’umorismo” arrivò persino a minacciarlo. La stampa inglese ha ipotizzato che a chiedere a Ronaldo di fermarsi fu Panucci, che si lamentò pubblicamente del poco rispetto dello United quella sera, mentre per le minacce c’erano fin troppi candidati. Tra cui ovviamente i giocatori romani, e cioè Totti e De Rossi, a cui volendo si può aggiungere Mexes, romano d’adozione.

Parlando di umanità in campo quella sera, però, ci dobbiamo chiedere: con quale spirito De Rossi si spingeva ancora nell’area di rigore del Manchester United sul 6-0?

Con quale immaginazione ha pensato ed eseguito una specie di piatto no look sul cross basso di Totti, che gira a filo del primo palo stupendo van der Saar e tutto il pubblico di Manchester? Che tipo di uomo è quello che non perde la propria fantasia neanche in una situazione del genere?

De Rossi ha segnato il gol più bello in una partita in cui Michael Carrick avrebbe messo il pallone all’incrocio anche calciando a occhi chiusi dopo aver fatto venti giri su se stesso. De Rossi non poteva fare niente per cambiare quella partita da solo, perché De Rossi non è mai stato il tipo di giocatore che cambiava le partite da solo, ma si è tolto la soddisfazione di segnare un gol più bello dei 7 segnati dai suoi aguzzini.

Un gesto a suo modo nobile, per quanto superfluo. Un gesto che non poteva fare davvero altro che ricordare a se stesso, ai propri compagni e ai tifosi, che la Roma era ancora viva e che nessuna tempesta l’avrebbe affondata. In fondo il senso stesso della carriera di Daniele De Rossi sta nella consolazione e nell’orgoglio che ha dato ai suoi tifosi. Perché De Rossi è la contraddizione che ha tenuto alta la testa dei tifosi della Roma negli ultimi diciotto anni.


Con la Roma sulle spalle

di Oscar Svensson

Spesso quando penso a Daniele De Rossi (è raro che lo faccia più di due o tre volte al giorno), vado a un giorno in particolare, di più di dieci anni fa, in cui ha prolungato il suo contratto con la Roma.

Nel 2008 il contratto di De Rossi sarebbe scaduto l’estate successiva, e le voci che parlavano di un futuro lontano da Roma erano più frequenti che mai. In quegli anni De Rossi era ormai un titolare inamovibile della Roma, un pilastro della Nazionale; avrebbe potuto giocare per qualsiasi club, e lo sapevamo tutti.

Era la fine di giugno, Trigoria si era svuotata da tempo ed erano passati pochi giorni dall'eliminazione ai rigori contro la Spagna negli Europei, quando DDR si è presentato davanti ai cancelli di Trigoria.

Guidava il suo scooterone, e ha dovuto gridare per attirare l’attenzione di qualcuno dentro che potesse aprire il cancello. Non riesco a trovare delle foto di quel giorno, ma ricordo tutto benissimo: indossava pantaloncini cargo, una maglietta semplice, dei sandali e un sorriso grande come una montagna. Era lì per firmare un nuovo contratto, senza drammi. Arrivava a Trigoria, quel giorno, con la stessa naturalezza con cui ha parlato in settimana nella conferenza stampa, come se fosse tornato a casa sua dopo le vacanze.

La prima Roma di Spalletti stava per morire, anche se ne avremmo avuto la consapevolezza solo un anno dopo. Dalla stagione successiva, quella in cui ha sfiorato lo scudetto con Ranieri, la Roma ha alternato delusioni e sconfitte drammatiche a momenti di illusione e vittorie inaspettate. Ecco perché ho visto in De Rossi una sorta di Sisifo moderno, con la Roma al posto della pietra.

Sisifo è una figura incompresa: la sua non è una condanna, ma è il suo stesso lavoro quotidiano, per quanto inutile, che dà un senso alla sua vita. Riportando l’analogia alla Roma, è vero che i risultati in questi anni sono stati anche buoni, ma come sapeva bene De Rossi/Sisifo è proprio quando raggiungi la cima che la pietra ricade.

Nel 2008 De Rossi si è presentato a Trigoria senza procuratore ed entourage, senza aver girato un documentario sulla decisione, senza nient’altro in mente che non fosse caricarsi di nuovo la Roma sulle spalle. Dalle sue parole sappiamo che lo avrebbe fatto di nuovo, se ne avesse avuto la possibilità. La serenità con cui De Rossi ha accettato la decisione della società rende la situazione quasi più insopportabile; è chiaro a tutti quanto stiamo per perdere ora che se ne va, ingiustamente ed incomprensibilmente.

Ci sono due righe di un libro di Roberto Bolaño che mi sono venute in mente in tutto questo: «I vivi non sono altro che una specie di morti, per di più una specie rara». Io l’ho inteso come se la morte non fosse il contrario assoluto della vita, come se in mezzo ci fosse un oceano di sfumature. Chissà se è questo il vero significato di quella frase, ma sarebbe bello crederci e poter sdrammatizzare. Invece non riesco a crederci, né a sdrammatizzare niente.

C’è una sola cosa che mi dà un vago senso di speranza: che stavolta Sisifo riuscirà a trovare pace e altri stimoli anche senza quella pietra, pur avendo amato tantissimo il suo compito.


Capitani sovrapposti

di Fabrizio Gabrielli

De André cantava che per crepare di maggio ci vuole tanto, troppo coraggio: e io tutto quel coraggio non ce l’ho avuto, il 28 maggio 2017 del 2017, per salire sul treno, lasciarmi alle spalle il mare e andare a salutare il Capitano dal vivo.

Cosa avrei raccontato a mia figlia, per la quale “Totti” è stata la seconda parola imparata nel lessico calcistico, dopo “Roma”? Come le avrei spiegato tante di quelle lacrime? A posteriori, ne avrei coltivato per sempre un doloroso rimpianto.

Se avessi avuto l’animo di Daniele De Rossi, al quale mi sono sempre sentito unito dal sentimento, chissà sciocco, di condivisione di una romanità litoranea, salmastra (lui è di Ostia, io di Civitavecchia), forse ci sarei riuscito. E mi si sarebbero inoculati gli occhi di sangue, dopo il gol di Pellegri: la solita abitudine malata della Roma di complicarsi la vita. Mi sarei guardato intorno con quello stesso sguardo in tralice, con la luce del sole di taglio, e la paura che un senso, se un senso mai c’è, stesse sfuggendo, contro ogni logica, contro ogni retorica.

Quel giorno DDR era il capitano della Roma, lo è stato per cinquantatré dei novanta minuti in cui è rimasto in campo: quando Totti, alla sua ultima apparizione in campo, è entrato non ci sono stati scambi di fascia, nessuna pantomima dei gesti, nessun tributo plateale. Solo una sovrapposizione tacita, quasi osmotica: dove l’una è comparsa, l’altra si è obnubilata, semplicemente. Il Futuro, ormai presente, si faceva da parte per l’ultima appendice di Eterno, prima che diventasse Passato.

È il 74’, sei DDR e ti stai spintonando con Laxalt al centro dell’area. Questa partita devi vincerla e invece la stai pareggiando, devi vincerla per raggiungere il secondo posto, qualificarti per la Champions League e non rovinare la festa di nessuno. Poi il pallone transita dalla fascia sinistra al centro e ancora in profondità, Strootman lancia Dzeko, che la controlla, un po’ defilato, l’angolo di tiro verso Lamanna chiuso. Il bosniaco la tocca verso il centro dell’area, tu sei DDR e te la trovi a tiro di stoccata, sul sinistro.

Neppure t’accorgi che da quel punto in cui la lunetta si interseca con la linea dell’area Totti è scattato, è arrivato a poco più di qualche centimetro da te, ha il destro - e un’intera narrazione epica - che chiede solo di essere scaricato in porta. C’è un replay nel quale sembra che l’abbiate colpito insieme, quel pallone.

Corre sotto la Curva Sud con le braccia larghe, Daniele, larghe come dopo il suo primo gol contro il Torino, però con la barba lunga e la timidezza dimenticata. Nella scapigliatura dell’abbraccio collettivo, la patch della Serie A si è fatta brandello svolazzante. Se la strappa via come Rambo si toglieva le pallottole dal braccio. Bacia lo stemma con la Lupa Capitolina. La Roma verrà raggiunta ancora. Vincerà solo al 90’, con un gol di Perotti. Anche se nella nostra memoria le scene di quella partita sono state fagocitate da quelle del saluto di Totti.

«Ho letto uno striscione che diceva che nel calcio moderno la vera vittoria nella battaglia sono 25 anni con una sola maglia», dice a fine partita. Tre giorni dopo avrebbe firmato il rinnovo per altri due anni.

Il prossimo 26 maggio saranno passati sei anni da un altro 26 maggio, sempre triste, ma di una tristezza diversa. Si chiuderà una militanza che ti permetterebbe, se fossi nato quando De Rossi ha esordito, di votare alla Camera, ma non al Senato. In quanto al coraggio, stavolta in qualche modo dovrò trovarlo perché sarò allo stadio.

Per questo addio, meno inevitabile di quello di Totti e per questo forse più doloroso, avrò gli occhi lucidi ma nessun timore di mostrarli a mia figlia, la cui terza parola del personalissimo lessico calcistico, dopo “Roma” e “Totti”, insomma, l’avrete capito da voi quale sia: danielederossi, come fosse una parola sola, un tutt’uno coi colori che tifa, e noi con lui.


Con Daniele De Rossi oltre la linea d'ombra

di Simone Vacatello

Quando Roy Keane ha vinto da capitano il Grande Slam io avevo quattordici anni e Daniele De Rossi ne aveva quindici, quasi sedici. La Serie A sarà anche stato il campionato più bello del mondo allora, ma eravamo tutti innamorati della Premier League per le maglie, il fango, il boato delle firm.

Keane mi trasmetteva un vago senso di timore e inquietudine, era uno di quei bruti che a ventisette anni ne dimostrava una vaga trentina. Quando interrompeva il gioco avversario, quando ingrugniva il muso durante le scivolate, la sua foto sul documento accumulava secoli di pirateria irlandese. Eravamo ragazzini che guardavano un calcio di adulti, io lo sarei rimasto ancora a lungo, fino al 10 maggio 2003.

Quando quella data arriva, manca circa un mese all’esame di maturità, la mia prima linea d’ombra conradiana. È il nono della ripresa e la Roma è avanti per uno a zero sul Torino, che sarà retrocesso di lì a due giornate. È una di quelle stagioni deludenti in cui oltre ad arrivare ottavo perderai anche la finale di Coppa Italia. La palla arriva a De Rossi, che aveva Keane come idolo, ma che non avrebbe indossato ancora la 16 per qualche anno.

È alla sua prima partita da titolare, la Roma sta orchestrando un’azione d’attacco ed è a una decina di metri dall’area di rigore. Ci sono Emerson e Tommasi liberi per il passaggio davanti a lui, e Candela chiede palla sulla fascia. Daniele alza la testa e punta il palo alla sua sinistra, da una distanza impensabile per un esordiente. Il suo destro va in rete per il due a zero, lui ha solo diciannove anni. Ne compirà venti da lì a un paio di mesi, ma tecnicamente in quel momento ha solo un anno più di me, l’età di alcuni dei miei migliori amici.

Franco Sensi in tribuna si alza in piedi ed esulta come avrei voluto che mio nonno avesse fatto almeno una volta per me, tuttavia non ho mai segnato, neanche nelle partitelle estive al campetto sterrato, perché sono una pippa.

In quel momento però entro nel calcio adulto con Daniele De Rossi, lui diventa il mio compagno di banco, il cugino un po’ più grande che prende la patente prima e inizia a scarrozzarti sulla litoranea, il senpai di arti marziali che non ho mai praticato, il primo a entrare nell’aula dell’università vuota e a prendere posto tra i banchi. La linea d’ombra è davanti a me ma da oggi so che per attraversarla si può alzare la testa e provare il tiro.

Da quel momento il grugno di Keane fa meno spavento.


Chiedimi cos'è un leader

di Francesco Lisanti

C’è qualcosa nella virilità di De Rossi, nello sguardo consumato, nella barba ruvida, nella voce profonda e rassicurante, che mi fa pensare che tutti i maschi dovrebbero essere così.

Viviamo tempi che ci hanno abituati a sentire “dico quello che penso” come premessa alle più infami nefandezze, e quindi a confondere la sincerità con l’irresponsabilità, la verità con il pregiudizio. Ma quando De Rossi passa davanti a un microfono, tutti questi conflitti sembrano risolversi. Ogni volta ne scopriamo un nuovo aspetto, un’opinione, un’emozione, e ogni volta ci suona credibile, ci ricorda che si può essere coraggiosi senza essere necessariamente stronzi.

Per questo motivo, di tutte le cose incredibili che gli ho visto fare su un campo da calcio, ho scelto una cosa che gli ho visto fare in panchina, in una delle notti più dolorose della mia vita (fin qui abbastanza clemente nei miei riguardi).

«Ma che cazzo entro a fare?! Dobbiamo vincere, non pareggiare... Fate entrare Lorenzo!» è la trascrizione più diffusa della reazione furiosa, con gli occhi di fuoco, vagamente intimidatoria, riservata a un assistente di Gian Piero Ventura, reo di avergli chiesto di fare riscaldamento a mezz’ora dalla fine della gara di ritorno dei playoff contro la Svezia. Una reazione che ne definisce la leadership genuina, la presenza mentale, l’attaccamento alla maglia, l’adesione totale all’obiettivo comune.

E ancora una volta un conflitto risolto: un gesto di grande arroganza, un abuso di potere, un ammutinamento, che è però anche un gesto di grande umiltà, un modo di mettersi in discussione, un contributo personale alla lettura di una partita che in quel momento, e così anche per la mezz’ora successiva, era sfuggita di mano. Alla fine non entrarono né De Rossi né Lorenzo (Insigne), ma quello sguardo torvo passato al replay divenne per diversi giorni il veicolo della frustrazione nei confronti della guida tecnica, della ribellione collettiva alle decisioni impopolari.

A fine partita però, vale la pena ricordare, De Rossi era già il meno arrabbiato e il più malinconico di tutti: «C’ho avuto due maglie tatuate addosso per tutta la vita, e abbandonarne una mi fa molto male. È un giorno triste per me, e non solo per il risultato».

È persino più triste riascoltare quelle parole oggi, che è stato invitato a strapparsi di dosso anche la seconda delle maglie a cui accennava. E chissà se quando diceva che avrebbe voluto «smettere dopo gli Europei 2016, sempre per quel discorso che mi piace smettere in auge, mi piace lasciare un buon ricordo. Questo non è un buon ricordo», si immaginava un finale così a Roma. O in ogni caso, se almeno oggi ritiene di stare lasciando un buon ricordo.

Però è ancora bello tornare a vederlo sbroccare contro un assistente, combattere per una battaglia giusta, scavalcare le autorità e l’amor proprio, e insegnarci che non esiste libertà di pensiero senza senso di responsabilità: la prima lezione fondamentale per l’esercizio della virilità.


L'onestà brutale di De Rossi

di Emanuele Atturo

La contrapposizione fra Totti e De Rossi, o meglio fra ciò che hanno incarnato Totti e De Rossi, è un tema trito nel discorso sul romanismo, eppure sempre interessante. Lo è per la classicità della loro contrapposizione: Totti l’eroe omerico, distante nella sua superiorità, capace di spegnere il momento di massima paura con un cucchiaio sbruffone; De Rossi l’eroe euripideo, scisso interiormente, pieno di dubbi e incertezze.

Una dialettica che ha i difetti e i pregi delle contrapposizioni stereotipiche: se da una parte contiene un innegabile fondo di verità, dall’altra rinuncia alle sfumature e soprattutto vuole convincerci che non esisterebbero punti di contatto tra Totti e De Rossi.

C’è un aspetto invece molto evidente che accomuna i due, ed è un aspetto negativo: la loro incapacità a controllarsi, lasciandosi andare a scatti d’ira improvvisi e auto-distruttivi. È qualcosa di inscindibile dalla loro immagine e che li ha associati allo stereotipo del romano “rosicone”, che non sa perdere con sportività.

Eppure è un aspetto che sembra aver macchiato l’immagine di Totti più di quanto abbia fatto con quella di De Rossi, che in questi giorni sta raccogliendo un consenso trasversale, non solo legato al suo valore come calciatore ma anche e soprattutto come uomo. Non era scontato per un giocatore che ha legato la vittoria più importante della sua carriera - il Mondiale - a un’espulsione che non gli ha permesso di giocare fino alla finale.

De Rossi ha affrontato il discorso dei suoi cartellini rossi appena iniziata la conferenza stampa di addio alla Roma, indicandoli come uno dei suoi pochi rimpianti. «Farei delle scelte diverse riguardo ad alcuni episodi di campo, magari spiacevoli».

Questi episodi non sono stati rari e da tifoso della Roma li ho quasi tutti impressi nella memoria. Il pugno a Mauri nel derby, il pugno a Lapadula a Genova appena un anno fa, il pugno a Icardi, la gomitata a McBride, il fallo di reazione contro la Bulgaria. Poi c’è l’entrata folle su Chiellini in Juve-Roma, l’espulsione contro il Leverkusen nel 2004 e quella col Bruges di due anni dopo.

Questi episodi, insieme a quelli di Totti, in questi anni sono stati così frequenti che in partite troppo tese, o che la Roma aveva buttato via, c’era sempre il timore che qualcuno perdesse la testa trasformando una semplice sconfitta in uno psicodramma. Come se la Roma non potesse mai perdere normalmente.

Tra tutti questi episodi ho scelto l’espulsione di Roma-Porto perché è arrivata nel momento ormai tardo della carriera di De Rossi, a 34 anni, quando era già riconosciuto come uno dei calciatori più intelligenti e brillanti. Un uomo di un’onestà intellettuale brutale, capace di ammettere davanti ai microfoni, alla fine di una partita: «A volte facciamo un po’ cacare».

Era il ritorno dei preliminari di Champions League. La Roma ci era arrivata grazie a un incredibile girone di ritorno giocato dopo l’arrivo in panchina di Spalletti; dopo quel percorso sembrava quasi scontato che si dovesse qualificare. Negli ultimi anni i tifosi della Roma hanno imparato a considerare l’ingresso in Champions League come l’unica speranza di sopravvivenza aziendale: il bilancio è strutturalmente squilibrato e la qualificazione l’unico modo per sistemarne alcune falle. Si sogna la qualificazione in Champions non solo per il piacere di giocare una coppa prestigiosa, ma per la speranza di non veder partire i propri migliori giocatori.

Questo per dire che era una partita importante. All’andata la Roma si era di nuovo complicata la vita da sola: pur giocando bene, aveva subito il pareggio del Porto negli ultimi minuti, complice l’espulsione di Vermaelen. Era una squadra formidabile, che poteva schierare insieme Dzeko, Salah, Manolas, Szczesny e Nainggolan nel loro prime. Al ritorno però ha preso gol quasi subito: c’è tanto tempo per rimontare ma al 40’ De Rossi si fa espellere con un’entrata assurda mentre va in pressing in avanti, molto lontano dalla sua zona. Un piede a martello sulla tibia del terzino del Porto. La Roma poi perderà 3-0, mettendo come ultima firma d’autore l’espulsione di Emerson Palmieri.

Era un De Rossi a fine carriera e qualcuno ha provato ad abbozzare maldestramente la tesi che era arrivato semplicemente in ritardo, che non era entrato per far male. Probabilmente è un misto di entrambe le cose: l’idea di un’entrata decisa che diventa un intervento pericoloso.

Stavo guardando la partita con amici e nessuno di noi era davvero sorpreso, era il dazio che De Rossi ogni tanto ci faceva pagare per la sua autenticità. Il lato oscuro della vena sul collo, delle esultanze strappacuore e di tutte quegli atteggiamenti che hanno rappresentato l’orgoglio dei tifosi della Roma.

Per tanti anni non ho capito quanto questi due lati fossero necessari l’uno all’altro, ci vedevo anzi un controsenso: come è possibile che un calciatore così intelligente e consapevole diventi all’improvviso un peso, una tassa per la squadra che ama in maniera viscerale? Com’è possibile che il capitano che deve dare l’esempio sia il primo ad abbandonare la nave?

Devo ammettere che non ho guardato i brutti gesti di De Rossi e Totti allo stesso modo. Ho sempre considerato Totti un Re che ogni tanto veniva messo a nudo, e il marcio che veniva scoperto non mi sembrava solo il suo ma quello di tutti noi tifosi. Quando mi trovavo a difenderlo di fronte ai miei amici non romanisti - difendere lui equivaleva a difendere me - provavo imbarazzo, erano le occasioni in cui ero costretto a guardare da fuori questo enorme, accecante amore.

A Totti nella mia testa perdonavo tutto, accettando che un Dio potesse essere capriccioso. A De Rossi invece non perdonavo niente come a un padre non si perdonano debolezze. Pretendevo di più da lui. Pretendevo che fosse migliore di tutti, che fosse senza macchia.

Solo negli ultimi anni ho imparato ad amarlo per quello che è, e ho capito che il modo che aveva di dare tutto se stesso non aveva compromessi. Significava darci anche il suo lato più pazzo, oscuro, auto-distruttivo. Rappresentare la propria squadra, essere un esempio, non significa non avere debolezze, ma farci i conti. Questa forza è quella che per anni molti di noi hanno scambiato per fragilità, ed è il motivo per cui la maggior parte dei tifosi non hanno faticato a riconoscersi in De Rossi più di quanto non abbiano fatto con Totti.

De Rossi ha affrontato il proprio lato peggiore con un’onestà brutale, e sono felice che questo glielo stiano riconoscendo tutti.

Mi fa star male solo il pensiero di averlo imparato ad amare troppo tardi.


Il rigore di tutti

di Francesco Costa

Nessun momento di una carriera – probabilmente di una vita – può essere inquadrato adeguatamente se non nel suo contesto. Quando Daniele De Rossi si porta sul dischetto per tirare un calcio di rigore nel famoso quarto contro il Barcellona del 2018, per esempio, lo fa da capitano e leader con le spalle larghissime, esperto e consumato, venerato e rispettato come una leggenda: ed è quel contesto a far sì che nessun tifoso della Roma possa pensare di affidare quel pallone a qualcuno che non sia lui.

La costruzione di quel contesto passa da un numero indefinito di momenti, uno di questi era arrivato dodici anni prima: quando Daniele De Rossi si era portato sul dischetto per tirare un altro calcio di rigore, ma con attorno un contesto completamente diverso.

De Rossi era un ragazzino, nel 2006, ma ovviamente non un ragazzino qualsiasi. A 22 anni aveva concluso la sua seconda stagione da titolare nella Roma, e a marzo aveva indossato per la prima volta la fascia da capitano. Ma era così giovane che non aveva ancora vinto nemmeno il premio per il miglior giovane assegnato ogni anno dall'AIC – sarebbe arrivato qualche mese dopo – e sulle sue doti circolavano più speranze che certezze: i giornali di tanto in tanto si chiedevano “perché in Nazionale merita eccome la maglia e nelle file della Roma quasi scompare”, per esempio; e il fatto che il suo talento fosse meno abbagliante e vistoso di quello di Totti – il soprannome “Capitan Futuro” aveva già iniziato a fargli ombra – rendeva gli osservatori meno clementi davanti ai cedimenti caratteriali che lo accomunavano al suo capitano.

«Questo Mondiale per De Rossi è finito», avevano scritto i giornali dopo che, nella partita dei gironi contro gli Stati Uniti dei Mondiali di calcio del 2006, il ragazzino di cui sopra aveva dato una gomitata in faccia a Brian McBride e si era fatto espellere. La gomitata gli era costata quattro giornate di squalifica e soprattutto una montagna di critiche brutali e giudizi impietosi che avevano coinvolto anche la sua famiglia.

«E se poi il mondo pensa che noi italiani del pallone non siamo solo corrotti, sporchi, scommettitori e maneggioni ma soprattutto cialtroni, arroganti e violenti, cosa possiamo rispondere? […] La prima faccia tutta sporca di sangue è opera nostra, è il capolavoro del ragazzino di Ostia, il figlio dell'allenatore della Roma "primavera": ottimo lavoro, signor Alberto. Lo sport è prima di tutto educazione, no?».

Quando poco più di venti giorni dopo De Rossi si porta sul dischetto, questo è il contesto. Come se la posta in gioco dal punto di vista sportivo non fosse già abbastanza alta – si stanno tirando i rigori della finale dei Mondiali di calcio – in ballo c'è evidentemente un pezzo della sua carriera, e quindi della sua vita. In un torneo che ha visto l'Italia conquistare fiducia ed entusiasmo popolare partita dopo partita, la sua espulsione è vista come l'unica macchia: il rigore può diventare la seconda, stavolta definitiva. La fotografia della sconfitta. Oppure, può iniziare la costruzione di un nuovo contesto.

Pochi secondi prima che De Rossi si appresti a tirare, le cose riescono persino a diventare ancora più complicate: Trezeguet calcia il suo rigore sulla traversa. Camminando verso la porta il ragazzino sa che il suo tiro può dare all'Italia un vantaggio potenzialmente decisivo oppure resuscitare gli avversari, tramortiti dall'errore di Trezeguet e soprattutto ancora traumatizzati dall'espulsione di Zinedine Zidane.

Una bomba sotto l'incrocio.


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