Mi sono sorpreso a domandarmi, a cercare un senso, a spiegarmi una partenza fuori stagione, fuori contesto. Intendiamoci, gennaio è l’inizio dell’anno, come sappiamo, ma è soprattutto una terra di passaggio. Un porto sicuro, in cui non fare niente nel cuore dell’inverno. Buono per le coperte, per le preghiere, per certe canzoni. Eppure, è già il mese in cui le giornate si allungano, con il cielo che si fa di un azzurro intenso e freddo. Ecco, quell’azzurro lascia lo spazio alle cose che cambiano, alle cose che in maniera diversa proseguono, che – ci piaccia o meno – accadono.
Tra le cose che accadono in questo gennaio c’è quella di Kvara.
La cosa di Kvara è lui che fa le valige, di nuovo avvolto nella bandiera georgiana come nel giorno dello scudetto del Napoli, oppure stretto in un pesante cappotto di buona fattura. A Parigi a gennaio fa parecchio freddo, viaggiamo intorno agli zero gradi. Mi sono chiesto, in maniera un pochino blanda, lo ammetto, che senso avesse per il talento georgiano, per uno dei miei calciatori preferiti, forse il più amato di questi ultimi due anni, andarsene nel bel mezzo di una stagione, andarsene per correre in un campionato mediocre, dove verosimilmente vincerà scudetti a raffica e poco altro. Ma non sarebbe stato meglio rimanere a Napoli fino a giugno e provare a fare ancora un po’ di storia qua, con le temperature più miti? Parlo tanto per parlare, io non sono Kvara e quindi non penso come lui, non dribblo come lui, ma scrivo e con le parole mi devo orientare, fare delle finte, liberarmi sentimentalmente di un peso, fare in modo di trovarmi davanti alla porta, smarcato e in grado di mettere un punto.
In quell’azzurro intenso Kvara se ne va, un tunnel, una finta, una firma e via. Avrei capito Marsiglia come poetico colpo di testa, saperlo vicino al mare mi avrebbe tranquillizzato, lo avrei capito. Avrei capito il Manchester (una delle due), il Liverpool, l’Arsenal, perfino il Newcastle. Saperlo in Premier League ci avrebbe messo tutti tranquilli, sarebbe arrivato nel suo palcoscenico ideale. Pochi mi sono sembrati, negli ultimi anni, calciatori da Premier League più di Kvara, quegli stadi perfetti, quel clima, quel pubblico mi sembravano nel suo destino, e invece no. Parigi. Parigi, certo è bella, io andrei ad abitarci domani, ma andarci a giocare a calcio è un altro discorso. Mi si dirà che a Parigi sono passati i migliori, non lo nego. Hanno fatto record di gol, hanno perso anni e tempo. Si sono accontentati dei soldi e di un certo non so che, un’attitudine a non competere, a stare nel limbo, a sprecare stagioni.
Andarsene così però rientra un po’ in quello che è Kvara. Ragazzo serio che sorride poco, talento individuale, calzettoni bassi, poca voglia di parlare, tanta di dribblare. L’ho sempre considerato un personaggio letterario, profondamente Onettiano, degno di sfilare per le strade della città immaginaria di Santa María. Come un personaggio di Onetti i difensori non lo hanno visto arrivare, si sono accorti di lui soltanto l’attimo dopo, non hanno compreso il lato verso il quale avrebbe deviato, non hanno capito il senso, il tempo, il modo delle sue finte, dei suoi tunnel. Per lunghi mesi si sono accontentati di guardargli la schiena e poi, proprio come accade nei libri di Onetti, lo hanno visto sparire.
"Tu mi hai insegnato tutto. / Insegnami a morire, bella vista. / A scomparire, / come tu sei scomparsa", scrive l’immenso poeta Umberto Fiori; Kvara è stato per ogni tifoso del Napoli – ma forse possiamo allargare il campo anche agli appassionati – la bella vista. E adesso che se ne va, a diventare il panorama di qualcun altro, deve insegnarci a morire, a scomparire, ovvero a fare a meno di lui. Ci deve insegnare a sottrarci, a ridurre il nostro cuore a uno spazio minimo nel quale il sentimento può nascondersi. Perché a volte, per alcuni calciatori, di questo si tratta, è una questione sentimentale. Ogni dribbling, tiro, assist, giravolta di Kvara è stata recepita come un atto d’amore. Che meraviglia, e pure che malinconia, quanta nostalgia.
Ci si domanda in queste ore se il tempo di Kvara a Napoli (e quindi nel campionato italiano) sia stato giusto o se sia stato troppo breve. Ricordo che, dopo avergli visto giocare le prime partite in Serie A, dissi qualcosa come: godiamocelo, tempo due anni e questo andrà al Real Madrid. Ecco, il Real sarebbe stato un altro approdo che avrei compreso, e invece Parigi. Spero che almeno nel contratto siano previsti gli ingressi gratuiti ai musei. Quindi, forse è stato in Italia il tempo giusto, meno qualche mese, almeno il campionato – come detto – avrebbe dovuto finirlo, concederci qualche altra meraviglia. Kvara ha fatto breccia anche nel cuore dei tifosi meno romantici e per questo oggi il dispiacere è totale. Come accade per le storie d’amore più intense ogni innamorato lasciato mette in scena il proprio finale, cercando di trovare dentro sé la reazione che gli permetta di tirare avanti almeno per un po’. C’è chi saluta con rancore, chi addirittura con disprezzo, chi si dice ferito, chi deluso. Chi si commuove fino alle lacrime. C’è chi per sopportare meglio dice che tanto non è più lo stesso della prima stagione, che in fondo non è poi questo fenomeno. È tutto comprensibile, tutto si tiene sotto l’ombrello dell’amore perduto, dei gol che non vedremo più dalla nostra parte, dei dribbling che non ci manderanno più in visibilio lungo la fascia sinistra.
Non credo che Kvara sia meno forte di due anni fa, anche in questo girone d’andata, dove pare aver fatto meno, ha invece fatto parecchio, stando solo ai numeri; c’è di diverso che forse certe alchimie non si ripetono più. Kvara è davvero un calciatore fuori dagli schemi, per sua e nostra fortuna, nella stagione del terzo scudetto del Napoli, le tattiche di gioco si sono allargate fino a comprenderlo, senza limitargli l’estro, lo spazio, il divertimento. Può darsi che Kvara si sia un poco eclissato negli ultimi mesi, compresso su sé stesso, in quelle espressioni del viso sempre più contrite. L’ultima volta che è parso felice è stata quando ha segnato quel gol pazzesco al Milan, a San Siro, alla sua maniera, palla al piede: accelerare, dribblare, arrivare al limite, tirare, metterla nell’angolino.
C’è un modo che forse più di altri ci aiuta a capire Kvara. A comprendere che a suo modo ha amato i tifosi del Napoli, ha amato la maglia e la città. In piena notte, prima di salutare i compagni a Castelvolturno, prima di volare a Parigi, con una felpa azzurra, con il cappuccio calcato in testa, è andato al murale di Maradona, al santuario, magari a lasciare una preghiera, magari a dire grazie. E io, francamente, lo ringrazio tanto perché per me è lui l’uomo del terzo scudetto, il calciatore decisivo – più di Osimhen -, il ragazzo che mi ha incantato e che mi ha ricordato quanto sia bello guardare una partita di calcio, quanto sia magnifica l’attesa per l’impossibile, quel gesto che sul campo qualcuno è in grado di fare, la maggior parte degli altri no. "Kvara è Majakovskij", lo si è letto qua è là in questi anni girando per Napoli, e se lo è, è uno che fa poesia in campo, e le poesie quando riescono meravigliano, ti portano da qualche altra parte, come in un sogno, oltre la linea di porta, all’incrocio dei pali.
È tempo di andare, sarebbe troppo tardi per cantare a Kvara Preghiera in gennaio di De André, ma è corretto salutarlo con altri versi del cantautore genovese: "Io mi dico che è stato meglio lasciarci / che non esserci mai incontrati".