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Scivolava meglio Nesta o Cannavaro?
12 apr 2021
L'arte della scivolata a confronto tra due massimi interpreti.
(articolo)
12 min
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C’è una ragione principale per cui le scivolate piacciono così tanto ai tifosi, ed è quella sensazione da “o la va o la spacca” che le accompagna. Sappiamo che se il difensore che si è lanciato non prendesse la palla, o se prendesse la palla ma anche la gamba, se l’esecuzione insomma non fosse pulita, sarebbe fallo al cento per cento, probabilmente accompagnato da un cartellino. Se scivolasse e non prendesse né palla né gamba, poi, sarebbe tagliato fuori dall’azione, probabilmente in imbarazzo, con un senso di inutilità addosso, una frustrazione, che se potesse chiederebbe il cambio. Ammiriamo il coraggio del difensore che scivola, come ammiriamo chiunque faccia qualcosa che, sotto sotto, sappiamo non conviene veramente. Un difensore ha molti mezzi a disposizione, può cercare il contatto col corpo avversario, spostarlo, ostacolarlo, allontanarlo poco a poco dalla palla, spingerlo all’errore, aspettare che se l’allunghi. Chi glielo fa fare di usare il proprio corpo come un oggetto contundente, di mettere a repentaglio la propria reputazione trasformandosi in una palla da biliardo il cui solo scopo sia togliere la palla avversaria da vicino alla buca?

E questa è anche la ragione per cui i difensori non scivolano molto. Oltre al fatto che ci sono sempre meno spazi e la velocità degli attaccanti è diventata tale che è diventato ancora più difficile di quanto non lo fosse in passato. Anzi, c’è una scuola di pensiero secondo cui si scivola solo quando non ci sono altre possibilità. L’extrema ratio dell’arte difensiva. Un difensore pienamente moderno dovrebbe essere abbastanza veloce, equilibrato, agile, tecnico, non dovrebbe aver bisogno di scivolare. Eppure io sono stato difensore, e ricordo quanto fosse difficile scivolare con la coordinazione e il tempo giusti. Non solo perché, al livello in cui giocavo io, la scivolata mi avrebbe lasciato un ricordo strisciato di sangue sul fianco della coscia. Ricordo che lo facevo solo quando ero estremamente sicuro di prendere la palla, che mi richiedeva un processo mentale in più, dovevo pensare alla scivolata che stavo per fare, non era una cosa naturale per me. Davo la colpa alla mia altezza ma mi rendevo conto che per i difensori migliori di me era semplicemente parte delle cose che sapevano fare. Lo facevano con autorità ed eleganza. Le loro scivolate erano un punto esclamativo in fondo a una frase che non ammetteva risposta.

Forse ha ragione Maldini, quando ne fa una questione di talento individuale, quasi di stirpe: «È una cosa che non si può insegnare, difficilmente si insegna la scivolata a chi non ce l’ha dentro». Maldini è uno dei pochi giocatori la cui immagine è più fedele da sdraiato che in piedi, l’ideale classico del difensore che scivola con forza ed eleganza, ma io ho riflettuto su questi temi quando, nel giro di 24 ore, il social media manager della Champions League ha pubblicato due compilation di interventi difensivi di Nesta e Cannavaro, molti dei quali erano delle splendide scivolate. E la differenza nel loro stile mostra come, in realtà, la scivolata sia una porta spalancata sul mondo interiore di chi la esegue. Dimmi come scivoli e ti dirò chi sei – che poi, parliamoci chiaro, dimmi come fai qualsiasi cosa che ti dirò, almeno in parte, chi sei. Io ad esempio (prometto che con questo concludo la mia auto-analisi) restavo in piedi, timoroso di farmi male, prudente anche quando sapevo che non avevo niente da perdere, anche quando sapevo che avrei comunque perso di vista l’attaccante e la palla, troppo educato, troppo abituato bene dalla vita per arrischiarmi in un gesto così estemporaneo e definitivo. «Aspetta un attimo», pensavo tra me e me, «ci sarà pure un modo per uscirne in piedi. Prova a parlarci, magari, con l’attaccante». E questo dice più o meno chi sono io.

D’accordo, ve la metto giù più semplice: chi scivolava meglio, Fabio Cannavaro o Alessandro Nesta?

Sono sicuro che se vi chiedessi di chiudere gli occhi e pensare a Fabio Cannavaro, sul telone delle vostre palpebre non verrebbe proiettata una scivolata. Semmai la rovesciata difensiva con cui ha spazzato una palla nel secondo tempo della partita con la Francia, nel 2006, o qualche intervento aggressivo e acrobatico nella semifinale con la Germania, in quel Mondiale che gli ha fatto vincere il Pallone d’Oro. Tipo quell’azione in cui prima respinge di testa un cross, poi si fionda in modo incredibilmente aggressivo sul suo stesso colpo di testa, controllato male da Podolski qualche metro fuori dall’area, e fa partire l’azione del gol di Del Piero. «Io vinsi nell'anno in cui Ronaldinho e Henry persero tutto, e Zidane al Mondiale fece la cosa che tutti sappiamo», ha detto con sincerità lui, «se in 57 anni sono stato l'unico difensore puro premiato, un motivo ci sarà». Ma riguardando quelle partite il suo strapotere fisico, tecnico – e, verrebbe da aggiungere, mentale, stilistica, perché pochi difensori nascono con quel tipo di baldanza – un premio comunque lo meritava (e al tempo stesso, sempre Cannavaro, se gli dicevano che il Pallone d’Oro era anche merito della scuola italiana rispondeva: «Non vinse la scuola, vinsi io»).

In effetti la scivolata era parte del gioco di Cannavaro come lo erano i salti che lo facevano finire con le ginocchia all’altezza della testa degli attaccanti, gli anticipi iper-veloci in cui arrivava a tutta velocità da dietro e in qualche modo riusciva a mettere il piede davanti a quello dell’avversario un attimo prima che controllasse il pallone. Tutto ciò che era acrobatico, esplosivo, che richiedeva tempismo, coraggio e durezza, era parte di Cannavaro. Semplicemente, parliamo di uno dei più grandi atleti che abbia prodotto il calcio italiano negli ultimo trent’anni, a proprio agio per aria, in piedi o sdraiato a terra. Se si guarda il suo duello con Ronaldo al Tournoi de France, nel 1997, con il Ronaldo ancora pienamente alieno, cioè, lo si vede in difficoltà (la famosa scivolata a sandwich con Maldini, da cui è tratta la celebre foto, nasce da un raddoppio complicato perché quando Ronaldo partiva in diagonale dal centro verso destra diventava imprendibile) ma si vede anche come sul piano dei riflessi, della coordinazione, della scelta di tempo, fosse la cosa più vicina possibile a una versione difensiva di quello stesso mostro Marvel.

Ma è in un certo tipo di scivolate che Cannavaro esprimeva un’idea di difesa più complessa e unica. Parlo di quelle scivolate in cui non doveva intervenire in orizzontale su un attaccante lanciato a tutta velocità, o in verticale sulla palla allungata, ma invece usava il fondamentale della scivolata per, fondamentalmente, parare. Cannavaro sapeva trasformarsi in un portiere volante, usando le gambe anziché le mani, o trasformando il proprio corpo in un muro, in una barriera semovibile. Lasciava che l’attaccante controllasse la palla, che avesse persino lo spazio per caricare il tiro, prendere la mira e calciare, poi però interveniva lui.

Per eseguire una giocata del genere è necessario avere una tecnica e un controllo fuori dal comune. Bisogna, cioè, capire prima, direi quasi sentire, non solo che l’attaccante calcerà, ma anche in che direzione, con che angolo, visto che un corpo di un metro e settantacinque a un paio di metri di distanza non può coprire tutto lo specchio. In molte occasioni Cannavaro colpisce, o viene colpito, dal tiro avversario esattamente sulla gamba che aveva esteso come una mazza da baseball, non può essere un caso. Nel pugilato esiste una tecnica difensiva chiamata “parry”, che consiste nel parare con il braccio più avanzato un jab o un diretto che arriva da quello stesso lato. Anziché schivare il colpo, cioè, abbassandosi o levando la testa all’indietro, il pugile dà una specie di piccolo pugno al pugno. Cannavaro, nei casi di cui sto parlando, fa una cosa simile.

È il massimo che si possa chiedere a un esperto dell’arte difensiva, di sostituirsi al portiere. Di rendere il portiere superfluo, inutile, come in fondo ogni vero difensore pensa che siano tutti i portieri. Per un difensore, ogni parata del portiere è un piccolo gol subito, idealmente gli attaccanti avversari non dovrebbero arrivare mai a calciare in porta. E Cannavaro ha spinto quest’utopia molto vicina al farsi realtà, proprio con questo genere di scivolate.

Fabio Cannavaro giocava con l’aria di uno pronto a buttarsi nelle fiamme per recuperare il pallone, con troppa energia, troppa concentrazione, troppa conoscenza del gioco per lasciarti calciare, per farsi dribblare. Forse per questo ogni volta che veniva saltato – perché capitava anche a lui – una piccola ombra scura sembrava scendergli sugli occhi, e quel petto gonfio e il mento alto non nascondevano l’orgoglio ferito. Non va dimenticato quanto sia difficile, e ingrato, il mestiere del difensore; farlo con l’aria di un cavaliere imbattibile, con dieci centimetri in meno agli attaccanti migliori contemporanei, aveva qualcosa di intrinsecamente eroico. Cannavaro giocava col fervore di un fanatico religioso, come se la salvezza dell’umanità, e il suo destino, fossero concentrati in quella palla da respingere sulla riga di porta.

Una delle scivolate più famose di Alessandro Nesta è tratta dalla partita con il Barcellona del 2011. All’epoca aveva già 36 anni e non oso immaginare cosa voglia dire giocare contro un giovane Lionel Messi a 36 anni, come ci si sente ad essere puntati da Lionel Messi palla al piede, con un corridoio alla tua destra che sembra fatto per mandarlo al tiro in diagonale di sinistra. Nesta non è mai stato un giocatore rapidissimo e Messi forse compie un tocco in più sulla palla, ma il tempismo e la pulizia con cui il difensore milanista piomba sulla palla ha del miracoloso.

Nesta accorcia la distanza con Messi e resta in piedi il più a lungo possibile, ma il suo corpo si avvicina progressivamente, un passo dopo l’altro, al terreno, come se la forza di gravità stesse avendo la meglio sulla sua capacità di correre in verticale. Un attimo prima, però, che le sue ginocchia cedano, si lancia in volo, dandosi lo slancio con lo stesso piede con cui poi calcia la palla, il destro. Non scivola, si lancia proprio, atterrando direttamente sulla palla, toccando forse prima quella dell’erba del campo. Messi si alza con una strana smorfia, che poi gli si piega in un sorriso divertito, mentre Nesta cammina con la lentezza di un uomo appena uscito dalla doccia.

Spesso e volentieri per Nesta la scivolata era un modo per recuperare lo svantaggio con un avversario che si trovava mezzo passo, un passo, davanti a lui. Sembrava accelerare quando smetteva di correre, come se fosse l’unico ad aver capito che scivolando si andava più veloce. Era come se avesse una cosa “in più”, che gli altri non avevano e da cui non potevano difendersi in nessun modo. A volte aveva un tempismo e una tecnica tali da poter scivolare lentamente, sdraiare il proprio corpo nella direzione di corsa dell’avversario e aspettare che quello gli venisse a sbattere addosso con la palla, con la prevedibilità di una palla trasportata dalla corrente di un fiume, che lui poteva comodamente aspettare sdraiato sulla riva.

Se Paolo Maldini è l’arte greca della scivolata, Nesta è l’Impero Romano che la usa per la propria propaganda. Maldini era elegante ma anche incredibilmente esplosivo, elastico; Nesta sembrava difendere senza sforzo, con la nonchalance di chi non vuole sporcarsi i vestiti, come i tennisti di due secoli fa che giocavano coi pantaloni con la piega e il maglione sopra la camicia. Che ci fosse, però anche una forza nei suoi interventi, un “peso” nella struttura ossea che lo rallentava nelle altre situazioni, se ne accorse Paul Gascoigne, a cui Nesta ruppe tibia e perone in allenamento quando aveva 14 anni.

La sua superiorità estetica veniva anche dal fatto che era un bel ragazzo, probabilmente, spesso, il più bel giocatore in campo. Alto e slanciato, con i capelli lunghi, la pelle quasi sempre abbronzata, l’aria seria e vagamente ombrosa, sensuale. Anche quella sua lentezza in realtà era un modo per non sembrare mai di fretta, come se non ci fosse niente che potesse metterlo in difficoltà. Rispetto a Cannavaro, per Nesta era chiaramente una cosa più naturale, come se in fin dei conti la palla fosse stata sua dall’inizio e il centravanti avesse commesso un abuso fin dal principio, provando a tenerla per sé. «Eri convinto di aver la palla e invece l'aveva lui», ha detto Dario Hubner in proposito.

E in un certo senso era davvero così. Alessandro Nesta era più tecnico di molti degli attaccanti che ha affrontato, o con cui ha giocato, aveva un rapporto con la palla, una sensibilità nel tocco, nella conduzione, nel calcio, che era quasi sprecato a fare il difensore. Ma la cosa bella è che questa qualità non veniva fuori solo quando impostava, ma anche negli interventi puramente difensivi. In un pezzo passato ho scritto che «La cosa che rendeva unico Nesta era il rapporto con il pallone e la sensazione che, anche mentre era ancora tra i piedi dell’avversario, il giocatore davvero in controllo della situazione fosse lui. Intorno a lui c’era un campo magnetico in cui gli attaccanti sapevano di entrare, che rendeva Nesta un giocatore pericoloso come i migliori giocatori offensivi».

La sua aggressività sull’uomo non era esclusivamente atletica, ma soprattutto di pensiero, Nesta non giocava reagendo ai problemi e alle situazioni di fronte a cui lo mettevano gli attaccanti, ma come se fossero loro a dover trovare il modo per non farsi togliere la palla da lui, per aggirarlo. Le sue scivolate erano all’altezza dei migliori dribbling, quando con un unico movimento fluido passava attraverso le gambe avversarie e si rialzava con la palla attaccata al piede si sarebbe detto fosse pronto per un inchino al pubblico. E, pensandoci, è un peccato che non l’abbia mai fatto, con la palla sotto alla suola, rivolto alla tribuna come un torero.

Alessandro Nesta, oltre ad aver vinto tutto quello che c’era da vincere, ha anche mostrato come non ci sia niente di grezzo, rude o violento nell’arte difensiva. Di come, in realtà, un difensore possa essere efficace e bello da vedere, tecnico ma non frivolo, superficiale, quando c’è da mettersi tra palla e porta. Un esempio, verrebbe da dire, di una sofisticatezza lontana nel tempo, così diversa dall’estremismo di questi anni in cui è tutto bianco o nero. Certo qualcuno l’ha criticato anche quando era in attività, magari attaccandosi a quel gesto – più un tic scaramantico che altro – con cui si infilava le ciocche di capelli lunghi dietro alle orecchie, ma quanto si devono sentire stupide quelle persone oggi che Nesta è ricordato come uno dei difensori più forti della storia del calcio?

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