Poche settimane fa, quando si è tinto di biondo platino, i tabloid inglesi hanno ironizzato su una crisi di mezza età. Lo scherzo è più profondo di quanto non sembri. Di certo il rapporto tra Alexandre Rodrigues da Silva e il tempo non è banale.
Ha fatto male a molti di noi, Pato. Molti di noi restarono incantati già la prima volta, al suo esordio in Italia nel gennaio 2008, diciottenne. Quel gol contro il Napoli fu una questione tra lui e la palla, dove gli avversari non contavano: Pato corse in una direzione, ingannò il rimbalzo con una carezza nel senso opposto, non ebbe fretta di concludere e strozzò il tiro per metterlo dentro. In pochi movimenti dimostrò di saper domare la rotazione della sfera e appunto il tempo. Realizzò un gol simile pochi giorni dopo, a Firenze: di nuovo un'ostinata questione con la palla, che spingeva da una parte all'altra come per renderla più ragionevole. Continuò a darci conferme nel corso di quella stagione e a lungo ancora.
Tanto il suo talento era scintillante, assoluto, netto, quanto la sua caduta è stata un precipitare. «Nelle difficoltà si esalta” lo descrivevano all'Internacional nel dicembre 2006, quando Alexandre aveva diciassette anni e pesava ancora 71 chili. Abbiamo capito che non è così. Pato è stato un campione solo in potenza. Abbiamo capito che è già tempo di bilanci, di rimpianti, di palmarès (1 Campionato italiano, 1 Copa Libertadores, 2 Mondiali per club, e altri 6 titoli).
Il suo soprannome è sorprendentemente un toponimo: viene dal posto dove Alexandre è nato, Pato Branco, che in portoghese significa “Papero bianco”. Una cittadina nello Stato del Paraná, 760 metri sopra il livello del mare, più vicina ai confini con Argentina e Paraguay che a una qualsiasi grande città brasiliana. È sorprendente anche la data di nascita, 2 settembre 1989, se pensiamo a quanto lontano appaia quel gol contro il Napoli (su lancio di Favalli!). Pato ha solo ventotto anni. In una carriera normale sarebbe al giro di boa. La sua carriera però non ha niente di normale.
A undici anni si rompe il braccio per la seconda volta nello stesso punto. Gli esami scoprono un tumore osseo. Si pensa all'amputazione dell'arto. Si sceglie di operare ma la famiglia non ha abbastanza denaro. Il medico interviene gratis. Pochi mesi dopo Pato entrava nelle giovanili dell'Internacional. Tifava per i rivali del Grêmio, in realtà. E avrebbe voluto giocarci. Attraversò il Brasile, insieme al padre, per fare un provino con il Tricolor dos Pampas. Nel corso dei 600 chilometri di viaggio, però, scoprirono che la società non offriva l'alloggio per ragazzini così piccoli. In questo modo finì ai Rossi di Porto Alegre, la squadra per cui tifava suo padre.
Da bambino calciava limoni e arance. A cinque anni aveva iniziato a giocare a calcetto. Il padre sapeva che il suo destino era in Europa. Quando a undici anni Alexandre lascia la famiglia e Pato Branco, con sua madre parlano in videochat. Lei chiede sempre che le mostri la stanza, per una forma di controllo, il massimo che possa fare da lontano. A diciott'anni Alexandre lascia il Brasile e va davvero in Europa. Ancora nel 2011, spiegava essere “una sofferenza” quando la madre al telefono gli diceva che le mancava.
È uno che si trattiene, molto sorvegliato. Da grande spiegherà che si sfoga attraverso i gol: «È come se dal mio corpo uscissero tutte le emozioni che mi porto dentro». Ma funzionava così già da piccolo. Il coordinatore delle giovanili dell'Internacional ricorda un ragazzino freddo, che non drammatizzò la storia del tumore e si emozionava solo quando i genitori andavano a trovarlo: «Allora piangeva».
A voler individuare il momento in cui Alexandre Pato è rimasto arenato nella parabola discendente, si potrebbe scegliere il 23 ottobre 2013. Ha da poco compiuto ventiquattro anni. Gli ultimi mesi sono stati una porta chiusa dopo l'altra. A gennaio aveva detto addio al Milan, dopo cinque stagioni. In primavera si era lasciato con Barbara Berlusconi, dopo oltre due anni. Il 15 ottobre aveva giocato quella che sarebbe stata l'ultima gara con la nazionale brasiliana, dopo 28 presenze.
Quel 23 ottobre va a battere un rigore, l'ultimo della serie per il Corinthians, decisivo per accedere alle Semifinali di Copa do Brasil. La squadra avversaria è ancora il Grêmio, tra i pali c'è il suo ex compagno Dida. Pato prova uno scavetto, ne viene fuori un tiro floscio che il portiere blocca senza problemi. Il Timão è eliminato, lui fa una figuraccia. Nel 2006, appena sette anni prima, Pato spazzava via il Grêmio stesso, con l'aiuto del compagno d'attacco Luiz Adriano. Era la finale del campionato brasiliano U-20. Pato segnò un gol e si laureò capocannoniere del torneo. Doveva ancora compiere diciassette anni. Era l'inizio di tutto.
Foto di Alexandre Meyer / Getty Images.
Quant'era forte, Alexandre Pato. Attaccante moderno per completezza, per la combinazione di velocità e potenza. Bomber prolifico ma al tempo stesso generoso con la squadra e discreto assistman. Si muoveva in un modo incontrollato, imprevedibile, a posteriori diremmo che pareva agitare il cemento fresco intorno per non restarci impastoiato. Nei primi anni al Milan aveva una serenità nel rapporto con tempo e spazio che gli permetteva di smontarsi e ricomporsi in forme sempre nuove per affrontare il pallone e addomesticarlo.
Quando aveva diciott'anni, Paulo Roberto Falcão lo definiva “un fenomeno” e il CT della Nazionale brasiliana, Dunga, lo paragonava a Ronaldo. Appena arrivato in Italia, ad Ancelotti ricordava Careca. E lo stesso Careca si diceva convinto che sarebbe diventato “il migliore del mondo”. Ha interrotto il record che da mezzo secolo apparteneva a Pelè, come più giovane calciatore a segnare in un incontro FIFA. L'occasione era il Mondiale per Club del 2006: Pato realizzò una rete contro l'Al-Ahly a 17 anni e 102 giorni.
Pato rischia di restare nella memoria come un talento che si è espresso violentemente ma per un periodo troppo breve. Proprio lui che sognava di imitare Maldini per la longevità agonistica, viene bruciato “come una torcia di fosforo”, ha scritto Davide Coppo. C'è un parallelismo beffardo con la continuità di Rogério Ceni, portiere tra i primissimi nella classifica delle presenze in carriera (oltre 1.200 gare ufficiali) e concittadino di Alexandre, essendo anche lui di Pato Branco.
13 dicembre 2006, dopo il gol contro l'Al-Ahly che infrange il record di Pelè. È praticamente un bambino. Foto di Kazuhiro Nogi / Getty Images.
Al Milan ci arriva grazie a una scelta pesante, rifiutando il Real Madrid per vestire i colori rossoneri. Deve ancora compiere diciotto anni. Viene acquistato nell'agosto 2007 e tesserato nel gennaio successivo. La società investe 22 milioni di euro: è la cifra più alta mai pagata per un calciatore minorenne. Pato spiega che quando arrivò al Milan, a diciassette anni, il suo cuore gli diceva: «Fai del tuo meglio, perché qui sono tuoi amici e vogliono aiutarti». Nello spogliatoio gli era stato assegnato il posto tra Ronaldo e Maldini. Il tecnico, Ancelotti, era “come un papà”.
Anni dopo il rapporto con Allegri sarà molto meno felice. Pato non gli risparmia critiche pubbliche («Se devo migliorare, mi dovrebbe suggerire lui in cosa»). E quando c'è da assegnare la fascia di capitano, si decide di annullare la regola che premia chi sta al Milan da più tempo, perciò a Pato viene preferito Thiago Silva. Lui evidentemente non la prende bene. Non si può tacere della sua storia con Barbara Berlusconi, tra la primavera 2011 e l'estate 2013. È una storia suggestiva, per i suoi elementi archetipici ma soprattutto per la stonatura che ne guastava la classicità. Lei era la figlia del capo (anzi sembrava dover diventare il capo stesso), e diceva frasi come: «Nessuno può dirmi chi amare». Lui era in fase discendente al Milan, una stella troppo opaca per le copertine, quasi sempre infortunato (nell'ultima stagione e mezza: 25 presenze totali, 1.211 minuti giocati). Gli ultimi mesi i due li passano lontani, e alla distanza attribuiranno il motivo della fine.
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Foto di Alberto Pizzoli / Getty Images.
Nel mercato invernale del 2011/12 c'è un momento-sliding doors che forse ha segnato la sua carriera, e probabilmente ha cambiato la storia recente del Milan: salta all'ultimo momento, per volere di Berlusconi, il doppio trasferimento di Pato al PSG e Tévez in rossonero. Alexandre lo scopre mentre fa colazione, da una telefonata del suo presidente. Esattamente due anni dopo, Alexandre va da Berlusconi e gli chiede di lasciarlo partire. Di tornare in Brasile. «Gli dissi che era per il mio bene. Dovevo ritrovare fiducia nel mio corpo».
È il gennaio 2013 quando saluta il Milan. Il suo cartellino viene acquistato per 15 milioni, cifra record nella storia del calcio brasiliano. Da allora, nell'arco di quattro anni cambierà cinque maglie e tre continenti (Corinthians, San Paolo, Chelsea, Villarreal e Tianjin Quanjian).
Era uno che poteva dire: «Voglio fare la storia del calcio» senza apparire ridicolo. All'alba dei ventiquattro anni aveva 28 presenze con la Seleção, quasi duecento partite ufficiali nei club e più di ottanta reti. Cos'è successo? Spezzato l'incantesimo, forse abbiamo la lucidità per capirlo.
È molto verosimile che si sia trattato di un insieme di problemi fisici e psicologici. Gli infortuni continui, quasi sempre ai bicipiti femorali, probabilmente dovuti a una crescita incontrollata (nei cinque anni a Milano prese 8 centimetri d'altezza e 9 chili di peso). La sua polemica con Milan Lab («Quando sono tornato in Brasile, dopo una settimana stavo già bene, chissà come mai») sembra però contenere in parte una deresponsabilizzazione. Devono esserci stati anche problemi psicologici. Forse è una chiave sbagliata ma forse l'impressionante serie di gol al debutto ci dice qualcosa: Pato ha segnato all'esordio con l'Internacional, con il Milan, con la Nazionale, con il Corinthians, con il Chelsea e con il Villarreal. Gli piace l'ordine della pagina bianca, odia la confusione. Se le cose si mettono storte, piuttosto che raddrizzarle preferisce iniziare altrove da capo. Poi c'è l'età. L'esplosione così precoce, quella che preoccupava già Seedorf molti anni fa. Il tempo si è rivoltato contro il ragazzo che sapeva controllarlo.
Oggi in Cina è tornato a segnare e giocare. Parla in italiano col suo allenatore Cannavaro, in inglese con i compagni e in portoghese con la fidanzata. Ha un traduttore per relazionarsi con il mondo esterno ma sta cercando di sbrigarsela da solo, “per essere autonomo". Affronta la nuova esperienza con curiosità: «Vorrei conoscere ancora di più la Cina. E vorrei tanto incontrare un panda. Ho un cane che si chiama Panda».
Quando di recente gli hanno chiesto dei suoi obiettivi, ha parlato del ritorno in Nazionale e della speranza che un bambino possa dire: «Mi piace il calcio, il mio giocatore preferito è Pato». Con la maglia del Tianjin Quanjian ha raccolto 26 presenze, 17 gol e 3 assist. Gioca con regolarità, gioca bene.
Ma non mi incanti più, Pato. Credo.