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Alieni a Parigi 2024
13 ago 2024
Compendio finale dei Giochi.
(articolo)
50 min
(copertina)
Foto di IMAGO / AFLOSPORT
(copertina) Foto di IMAGO / AFLOSPORT
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In tanti hanno insistito e insistono sulla necessità di considerare gli atleti aldilà delle loro performances-monstre: di andare oltre la donna e l’uomo-macchina (degli atleti come “supereroi”) e valutare quanto “le emozioni, i sentimenti, i vissuti” condizionino le prestazioni, risultando a volte decisivi nello spiegare prove disfunzionali o deludenti, crolli, débâcle. In ultimo lo psicologo David Lazzari, presidente del CNOP, a proposito del “caso Biles”.

Fino all’adagio ossimorico ormai imperante: “fragilità è forza”. Tutto legittimo e in parte inattaccabile. Ma: da un lato, siamo a una tautologia ai limiti dell’avvilente, se non al motto da carta interna dei Baci Perugina o da biscotto cinese “della fortuna”; dall’altro, come capita spesso, tutto è più sfumato; e soprattutto, più complesso.

Il punto da cui partire e che i supereroi e le supereroine (tra Marvel e DC Comics) sono di default organismi e psicologie “fragili”. Certo, ci sono semidèi o addirittura dèi inscalfibili, come Thor col martello Mjolnir, in grado di «manipolare la materia, la materia oscura e l’antimateria, creare campi di forza, volare a velocità supersonica (nell’atmosfera terrestre) o superluminale (nello spazio”)»; cioè, di fatto, violare/piegare quasi ogni tipo di vincolo fisico. Ma ogni supereroe - anche i più squadrati e machisti - hanno uno o più talloni d’Achille, dalla criptonite per Superman alla stessa non-invulnerabilità di Mjolnir, dovuta in parte proprio al legame simbiotico col suo padrone. Di più: molti supereroi, in “abiti civili”, sono sfigati e/o problematici, come Peter Parker/Spider-Man; o devono addirittura barattare i poteri con deficit da disabili, come il cieco Matt Murdock/Devil, in cui peraltro l’iper-udito acquisito a compensazione è ulteriore forma di vulnerabilità (vedi lo scampanio che ne sconnette l’assetto neurale). Il che vale, tra l’altro, per molti presunti villain, gli “avversari” o “malvagi”, spesso dei reietti risentiti e/o infelici dalla parabola tragica, fin dalla genesi dei poteri, più subiti che voluti: tra i tanti, l’Uomo Talpa, oggetto di scherno per la sua deformità; o l’Uomo Sabbia, personaggio dall’etica ambivalente. Gli uni e gli altri - eroi e villain - sembrano a volte riflettersi e a tratti confondersi, come nello straordinario Spider-Man 3 di Sam Raimy, che ha tra i co-protagonisti proprio l’Uomo Sabbia, i cui tormenti della versione classica di Jack Kirby (l’adolescenza difficile) vengono virati in una tonalità malinconico-struggente, col personaggio che ricorre al crimine per curare una figlia malata. Memorabile, per inciso, la sequenza visionaria e toccante della mutazione originaria e dell’assunzione dei poteri.

In definitiva, la metafora dell’umanizzazione degli atleti-supereroi è insieme ovvia, scentrata e piuttosto ipocrita. Se esercitano su di noi quella fascinazione da “sospensione dell’incredulità”, è proprio perché nella performance sono meta o super-umani; individui (organismi) a noi prossimi e insieme alieni, familiari e estranei. Di cui possiamo condividere i crash, ma solo immaginare per mimesi onirica quelle performance, a noi interdette.

Anche a Parigi, come in ogni Olimpiade, ne abbiamo visti un buon numero. Qui ne focalizzeremo qualcuno in modo insieme oggettivo e idiosincratico, tra nuove apparizioni, riconferme o delusioni-crash, a riprova della parziale instabilità-aleatorietà dei loro poteri; tenendo sullo sfondo, ma non come semplici spalle, diversi altri atleti, a volte più normo che super, o super in un’accezione particolare. Con due avvertenze: l’attenzione agli italiani non è minimamente legata al nazional-populismo con cui sono stati per lo più seguiti (da governo e RAI in primis); e la partizione sui “quattro elementi” non ha nulla a che spartire con lo Zodiaco, ma solo col pensiero ellenico e i filosofi presocratici; e da lì, con le specificità fisiche e biofisiche, biologiche e biochimiche, neurobiologiche e neuropsicologiche degli atleti (e dei team) considerati.


Acqua

L’acqua ci ha portato due ori memorabili outdoor: quello di Marta Maggetti nel windsurf, straordinaria rimonta nella finale race di Marsiglia; e quello della coppia Ruggero Tita-Caterina Banti nel Nacra 17 misto, primi nel Golfo del Leone come lo erano stati nel 2021 a Enoshima (bis clamoroso). A quelle, va aggiunto il grande argento di Casadei-Tacchini nel C2500, una medaglia che ci mancava addirittura da Roma ’60. Ma più funzionali al nostro discorso-percorso- e senza implicazioni di gerarchia- sono le medaglie ottenute senza supporti-protesi extracorporee (assi, vele, barche, più o meno hi-tech), nel rapporto diretto corpo-acqua: il bronzo di Ginevra Taddeucci in una 10 km. nuotata nel “fiume della discordia”, una Senna prossima alle fogne dei Miserabili, con la sua varietà di insidie batteriche, escherichia coli in testa; e quelle nelle vasche dell’Arena La Défense, dagli ori di Nicolò Martinenghi e Thomas Ceccon all’argento-bronzo di Greg Paltrinieri (1500 e 800 s.l., i 1500, con una prova enorme, dietro a un Finke che demolisce il mondiale). Un Paltrinieri poi mestamente 9° nella stessa 10 km. («non riuscivo a vedermi le mani»), al cui termine rilascia dichiarazioni su un possibile ritiro all’orizzonte. Più che di un ritiro si tratterebbe, s’intende, del congedo di un guerriero senza pari: di un atleta fuori parametro per talento e costruzione-gestione di sé stesso (vedi la sua “tarda” evoluzione tattica, con progressioni studiate per supplire all’ assenza di rush finale), che ha vinto cinque medaglie in tre edizioni dei Giochi (record italiano).

Su Ceccon c’è poco da dire: dopo un argento nella 4x100 s.l. e l’oro sfavillante nei 100 dorso, si perde nei 200, gara che non ama, per appagamento e “poca convinzione” (ipse dixit), attirando poi i media soprattutto per certe eccentricità extra-vasca, come le notti trascorse a dormire nel parco del Villaggio per sfuggire a stanze arroventate, “no-split”. Più o prima che un supereroe (per certi versi, è un grande talento ancora da cesellare), un Adone o un Ganimede (l’avvenente coppiere degli dèi), ormai conteso dalle copertine di magazine non solo sportivi.

Quanto a Martinenghi, il suo oro nei 100 rana ha un valore inestimabile anche perché ottenuto battendo Adam Peaty da Uttoxeter, Staffordshire, atleta dal palmarès “ridiculous” (3 ori e 3 argenti olimpici; 8 ori, 1 argento e 3 bronzi mondiali; 16 ori europei…) e vero supereroe; un supereroe, però - eccoci allo snodo esposto prima - che nel 2023 fa outing sui suoi poteri persi, ritirandosi dai Trials britannici e rinuncia ai Mondiali di Futuoka allo scopo di provvedere alla sua “salute mentale”. Sul podio- e poi poco dopo, abbracciando il figlio di tre anni - Peaty piange, in uno dei tanti pianti di queste Olimpiadi, disposti lungo un’infinita tastiera affettivo-emotiva (alcuni li troveremo via via): ma a quanti pensano a lacrime di delusione (con l’oro avrebbe eguagliato uno dei tanti record di Phelps, tre vittorie in tre edizioni dei Giochi), risponde lui stesso in modo spiazzante: «Non sto piangendo perché sono arrivato secondo. Sto piangendo per quanto ci è voluto ad arrivare qui. Nel mio cuore ho vinto. Queste sono lacrime di gioia». In altre interviste, Peaty parla esplicitamente di “ultimi tre anni infernali” e “vortice autodistruttivo”: fuor di metafora - leggi intervista al Telegraph - una spirale discendente cominciata con un “infortunio al piede” e con “problemi cardiaci”, proseguita con un forte “disturbo da deficit di attenzione/iperattività” (dovuto anche a un surplus alienante di training) e sfociata in un mix di depressione e alcolismo, che non può non ricordare quello dei tennisti Lucas Pouille, o - con declinazione diversa - Naomi Osaka. Peaty sembra esserne uscito soprattutto grazie alla famiglia e alla preghiera, anche se non è da escludere il contributo psico-farmacologico: ma a suo credito - forse più ancora della riacquisizione dei poteri - va proprio quell’outing, decisivo nel contribuire a ridurre la solitudine di quanti (e sono tanti: atleti e non solo) hanno condiviso e condividono simili oscuramenti disforici.

Un’ultima zoomata merita il volto di Simona Quadarella, specie la lunga inquadratura al termine della seconda “medaglia di legno” negli 800 s.l., gara in cui - a differenza dei pur ottimi 1500, in cui qualcosa è mancato - abbatte il primato italiano, tempo comunque insufficiente per il podio, e comunque a distanze siderali (come già nei 1500) dalla vincitrice-superoina Katie Ledecky, secondo molti osservatori la top-swimmer di sempre (30 ori tra Giochi e Mondiali). In quel primo piano- l’operatore promosso a involontario emulo di un Kieślowski- il suo volto di un’espressività spoglia, quasi confidenziale verso lo spettatore, unisce all’orgoglio una resa quieta, per certi versi liberatoria, di chi la dimensione del supereroe-eroina ha solo lambito (nel doppio oro, sulle stesse distanze, ai Mondiali di Doha, a inizio ’24, mancavano proprio Ledecky e altre competitor).

Si è discusso alla nausea sul record italiano di “medaglie di legno” (25) e sul relativo senso: sfortuna, caso, termometro di un movimento sportivo competitivo. Le due di Simona Quadarella- soprattutto quella degli 800, insieme a quella di Nadia Battocletti sui 5000- sono tra quelle che possiamo e dobbiamo mentalmente convertire, per il peso delle gare in cui sono maturate, in una sostanza idealmente lucente.

Supereroi dell’Acqua: “il pesce che è in noi”, da Phelps a Léon Marchand (e Pan?)

Siamo sulla linea altissima di Mark Spitz, Michael Groß, Ian Thorpe, Ryan Lochte, forse - addirittura - Michael Phelps: l’entrée di Léon Marchand- aldilà dei risultati eclatanti- segna un prima e un dopo nel nuoto, una cesura che sta già producendo una vasta letteratura scientifica, com’è già successo, per dire, col break di Simone Biles in ginnastica artistica.

Risaliamo per un attimo, in inevitabile comparazione, proprio a Phelps, che in tanti paragonavano a Namor McKenzie alias Sub-Mariner, il re atlantideo.

Di lui colpiva, in primo luogo, l’atipicità anatomo-morfologica, ben evidenziata in un disegno a suo tempo diffuso in Rete, in cui la struttura corporea dell’atleta-Phelps veniva sovrapposta a quella dell’uomo vitruviano” di Leonardo, per evidenziare come le “divine proporzioni” stabilite dal canone fossero sistematicamente disattese e deformate. Eppure, quelle eresie anatomo-morfologiche erano decisive nel plasmare la macchina natatoria di Phelps. E questo sia nell’insieme, con le braccia lunghissime, le anche sottili, il sedere piatto e le gambe corte a tessere un bilanciamento perfetto per l’acqua; sia nei dettagli, con le grandi mani come pagaie (che quasi non producevano schiuma) e i grandi piedi come pinne caudali tese a conservare l’assetto. Quelle eresie (insieme, ovviamente, ad allenamenti massicci e mirati) si traducevano in una sorta di unicità biologico-fisiologica: esemplare il basso indice di lattato nel sangue (e quindi di acido lattico nei muscoli) riscontrato alla fine di ogni sua gara, dovuto proprio a un’azione potente ma economica, in grado di ridurre al minimo il deficit di ossigeno.

Quanto alla bio-meccanica, molti paragonavano sbrigativamente Phelps a uno squalo: ma a ben guardare, quel procedere ibrido tra idrodinamica e aerodinamica, quel continuum senza strappi e sforzi visibili, ricordavano un altro pesce, imparentato agli squali ma molto meno aggressivo: la manta. Poderosa ma elegante, spesso visibile anche a pelo d’acqua (a differenze di un’altra parente, la razza, sempre sul fondale), la manta (in spagnolo appunto “mantello”) è uno degli adattamenti evolutivi più ingegnosi all’acqua. Phelps sembrava richiamarne la vastità di estensione e il corpo appiattito, con la tipica struttura concava e “bidimensionale”, oltre ai movimenti sinuosi “a battito d’ali”.

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Molto diverso da Phelps - per complessione e struttura, fin dal rapporto altezza-peso (193 cm per 88kg versus 187 cm per 77 kg), il ragazzo di Tolosa non cede solo centimetri e chili al “ragazzo-freak” di Baltimora (con cui condivide però il coach, il leggendario Bob Bowman): il suo assetto anatomo-morfologico è anche molto più regolare, per certi versi da normotipo. I suoi tratti “supereroici” dunque, risiedono altrove, come ricostruisce uno studio iper-analitico su l’Equipe, a cui contribuisce l’auto-focus dell’atleta. Privo delle macro-anomalie di Phelps (o dell’assetto dorsale di Camille Lacourt) Marchand ne ha però di micro, nella fattispecie altrettanto incidenti: una formidabile flessibilità articolare, in particolare delle spalle, decisiva nella farfalla (uno dei suoi stili prediletti con la rana); e piedi relativamente piccoli per un nuotatore (46, vs. 47 di Phelps e 50 di Thorpe), ma a loro volta flessibili e incurvati verso l’interno, in modo da prendere più acqua nelle ondulazioni.

Il vero discrimine, però, è a livello energetico (leggi metabolico), dato che Marchand ha un recupero molto più rapido di tutti gli altri atleti («Riesco a rigenerare il mio corpo abbastanza facilmente, anche durante una gara»). Come spiega Robin Pla - coordinatore dell’ottimizzazione delle prestazioni alla Federnuoto francese - gli bastano 20 minuti o 900 metri per vedere ridursi quasi a zero la quantità lattacide nei muscoli; il che è dovuto soprattutto al fatto che «non salendo troppo in alto» nella sua azione, produce un VO2max più elevato (è l’indice di potenza aerobica), così che l’ossigeno in entrata costante elimina il lattato “in tempo reale”. Dettaglio tutt’altro che secondario: Marchand riesce a gestire le proprie emozioni e impedire che influenzino la frequenza cardiaca. In termini più specifici: grazie anche a un preciso training respiratorio, riesce a resettare e risincronizzare il sistema nervoso autonomo (o parasimpatico), così che i battiti cardiaci da ansia prestazionale possano «autoregolarsi e calmarsi facilmente».

A una simile concertazione di tratti biologico-biochimici- insieme a una resistenza con basi genetiche- va ricondotto l’exploit che ha stupito il mondo la sera del 31 luglio, una volta tanto in sintonia obbligata con lo sciovinismo francese: il doppio oro in un’ora e mezza, 200 farfalla e 200 rana, con relativi primati olimpici. Anche se, a mastice di tutto, Marchand stesso aggiunge come co-fattore il suo innato, simbiotico “rapporto con l’acqua”: «Riesco ad essere ben allineato nei flussi e sott’acqua, il che mi permette di opporre meno resistenza degli altri». È una riconduzione del proprio talento a una genesi naturalistico-biologica che fa anche da memento biologico-evoluzionistico: in fondo, la vita è transitata sulla Terra dagli oceani attraverso alghe foto-sintetiche di 3 miliardi di anni fa; e in Homo- come ha argomentato il paleontologo Neil Shubin in un libro-chiave come The Inner Fish- diversi tratti anatomo-morfologici sono adattamenti evolutivi di quelli dei pesci (vedi la conversione delle branchie in polmoni). Siamo tutti uomini-pesci: nuotatori come Phelps o Marchand sono lì per ricordacelo.

Rigore impone di citare, in appendice, un supereroe famelico del nuoto: il cinese Pan Zhanle, che la stessa sera della “doppietta” di Marchand vince la prova regina della disciplina (i 100 s.l.) con uno scioccante 46’’40, cioè 40 centesimi in meno del suo stesso record di febbraio, con cui aveva ritoccato di 6 centesimi quello recente del romeno David Popovici. Non un semplice nuovo primato: uno spostamento dimensionale, come certi shock dell’atletica, da Beamon a Bolt. Proprio Popovici- il longilineo, flessuoso “nuotatore-filosofo”, dedito alle pratiche stoiche è bronzo dietro al possente australiano Chalmers, e la sua azione elegante e veloce ricorda, rispetto a Pan, quella di Lewis rispetto a Ben Johnson. L’allusione - greve, forse iperbolica - ha però purtroppo basi concrete: a) prima di quella gara, Pan era naufragato nei 200 s.l. (in cui Popovici vinceva l’’oro) con “un indecoroso 1’49” in batteria; e negli stessi 100, aveva potuto accedere alle finali da 13° a pari merito con altri due, ripescato per un centesimo; b) nello scorso aprile, com’è più o meno noto, inchieste della tv pubblica tedescaARD e del NYT hanno denunciato come 23 tra i migliori nuotatori cinesi fossero risultati positivi alla trimetazidina (Vastarel) prima dei Giochi di Tokyo 2020 (’21), molti dei quali poi medagliati. La sostanza - usata in farmacologia per curare, ad esempio, patologie oculistiche come i glaucomi - ha tra le sue proprietà un aumento del flusso sanguigno coronarico, quindi dell’ossigenazione del sangue e della resistenza alla fatica (proprietà cui Marchand accede per genetica o training). Non si tratterebbe certo, oltretutto, di pratiche inedite rispetto al “doping di Stato” cinese, innescato nell’ambito del nuoto, come si ricorderà, nel momento in cui si accolgono a braccia aperte nelle palestre e nelle piscine i coach e i preparatori (gli “apprendisti stregoni”) transfughi dalla Germania Est post-crollo del Muro.

Se, da un lato, le spiegazioni cinesi a quelle inchieste sono prevedibilmente grottesche (il tutto sarebbe dipeso da “hamburger contaminati”), dall’altro sono al momento da ascrivere al complottismo dietrologico lo scetticismo irridente degli atleti australiani (Zac Stubblety-Cook o il grande ex Brett Hawke) o del coach di Martinenghi, Marco Pedoja.

Al momento, Pan è il detentore del record stupefacente dei 100 s.l.: o, se vogliamo, è l’ibrido più discusso tra un supereroe e un villain.


Aria (outdoor)

Ogni pratica o disciplina sportiva, si sa, è una lotta - o a volte una collaborazione - con le forze fisiche, che vanno comunque “manipolate” a vantaggio della performance dell’atleta. Phelps o Marchand, per esempio, sembrano sfidare - ai confini tra idro e aerodinamica - la terza legge del moto di Newton («a ogni azione, corrisponde una reazione eguale e contraria») e lo fanno soprattutto con la loro nuotata fluida, “senza schiuma”, un vero planare nell’acqua. Nell’atletica dell’aria - con corpi o attrezzi che si librano, o a volte corpi e attrezzi, vedi l’asta - molto dipende, più ancora che in altre discipline, dal rapporto con la gravità, l’attrito, e così via.

Tutto questo si vede bene proprio nei “concorsi” - che l’accademia distingue dalle “corse”, v, poi “Terra” - ovvero nei lanci (tra cui il getto del peso) e i salti.

Il getto e i lanci hanno fatto sfilare a Parigi diversi supereroi-eroine, con tratti a volte sorprendenti. Nella serata negativa del nostro Leonardo Fabbri - penalizzato più di altri dalla pioggia e da una pedana viscida - l’americano Ryan Crouser è il primo pesista della Storia a vincere per tre edizioni consecutive dei Giochi: arrivato a Parigi dopo un anno laborioso (doppio infortunio a un gomito e stiramento ai pettorali) il gigante di Portland, Oregon (201 cm per 124 kg, tra Hulk e Ben Grimm-La Cosa), riesce a cavare fuori un intimidatorio 22,90 m (è primatista del mondo con 23,56 m.).

Non siamo ancora ai quattro titoli in quattro edizioni (dei citati Phelps e Ledecky, di Carl Lewis, del discobolo Al Oerter, del velista Elvstrøm) e lontanissimi dai cinque del leggendario lottatore cubano di greco-romana Mijain Lopez Nuñez (cinque proprio qui a Parigi, vedi pezzo di Michele Pelacci): però….

Nei lanci, ci sono state diverse attrazioni-aggregazioni a livello geo-etnico: nel martello vincono due canadesi, Ethan Katzberg e Camryn Rogers (la nostra Fantini in serata-no come Fabbri) a profilare forse una “scuola” dominante come lo è stata quella sovietica, al momento ineguagliata; mentre nel giavellotto si consuma una lotta “intestina”, degna degli scontri al calor bianco del cricket, tra il pakistano Arshad Nadeem e l’indiano Neeraj Chopra, oro a Tokyo. Stavolta la spunta nettamente Nadeem (a Tokyo solo quinto) con un lancio a 92,97 m, primo oro assoluto del suo Paese nell’atletica.

Ma una delle espressioni più avvincenti-insinuanti non solo dei lanci, ma di tutti i Giochi, è la discobola americana Valarie Allman, che si impone con una gran misura (69, 50 m, picco di una serie dalla media altissima) mostrando al meglio il suo mix inedito di gravitas e levitas, potenza e leggerezza. Dotata di una struttura poderosa ma agile ed elastica, atipica nel disco (185 cm per 70kg), Valarie ha implementato col tempo nel lancio del disco posture, cadenze e gesti delle tante discipline praticate, dalla danza, sua passione originaria (classica, jazz, hip-hop, tap) ad altre specialità dell’atletica (alto, 200 e 400 piani): l’esito è un’esecuzione di grammatica e sintassi del discobolo (la rotazione e mezzo sulla pedana; la torsione per il lancio con l’angolo ideale a 35 gradi), unica per coordinazione, plasticità, euritmia. E lei stessa aggiunge come sia debitrice alla danza anche per l’acquisizione di certi tratti decisivi nella quotidianità del training e nella gara: la disciplina e la precisione; la capacità di reggere la pressione degli spettatori; la disponibilità a “rifinire” o a “re-impostare” la tecnica e i movimenti del corpo. Tra le candidate al ruolo di Wonder-Woman parigina (poi Principessa Diana, semidea greca), nessuna è più autorevole di lei.

Quanto ai salti, tra i supereroi-eroine in proiezione diversi sono nostri, anche se a gradi diversi. Lo è nel triplo, almeno in parte, Andy Diaz Hernandez, bronzo (17,64 m) in un podio di cubani che gareggiano per tre Paesi “adottivi”: oltre a Andy, un altro Diaz, lo spagnolo Fortun (oro con 17, 86 m) e il portoghese Pedro Paolo Pichardo (argento con 17,84 m). Certo, Andy ha già 28 anni, ma ha un insegnante d’eccezione come il grande Fabrizio Donato (a sua volta bronzo a Londra 2012), che è stato anche il suo scout (ha contattato lui Andy su Instagram) e può garantirgli ancora diversi step di progresso sia tecnico che di gestione psicologica della gara.

E lo sono, più ancora, due lunghisti come la figlia d’arte di Fiona May, Larissa Iapichino (4a con 7,87, ma distante dal podio) e Mattia Furlani (bronzo con 8,34), 22 e 19 anni. Larissa, per la verità, sembra ancora compressa, costretta: la tecnica eccellente ma scolastica sembra quasi fasciarne lo slancio e l’esplosività, che forse andrebbero aiutati da un potenziamento della massa (e chissà, da una diversa carica psico-agonistica). Mattia sembrerebbe avere il problema opposto: un immenso talento da enfant sauvage, irresistibile-irriducibile come la sua chioma. Sembrerebbe, perché in realtà il ragazzo va corretto ma non stravolto: non avrà mai lo stile composto e classico di un Ralph Boston. Piuttosto, va aspettato il completarsi del suo sviluppo, organico e neuro-psicologico. Il resto, se verrà, verrà da sé.

Restano, nell’alto, due figure memorabili, con declinazioni molto diverse.

Nel femminile - dove da troppo tempo noi non abbiamo una Simeoni o una Antonietta Di Martino - la disciplina è entrata in una nuova fase (in una probabile, nuova tirannia illuminata) con l’ucraina Jaroslava Mahučich: dopo il bronzo a Tokyo, ha vinto l’oro a Parigi saltando “solo” 2 metri, ma circondata dall’aura del salto- sempre allo Stade de France- dello scorso 7 luglio: un 2,10 m con cui ha abbattuto il 2,09 di Stefka Kostadinova, risalente addirittura all’87, quindi ancora più “preistorico” di quello maschile del cubano Sotomayor (2,45 m), risalente al ’93. Combattiva e impegnata per il suo Paese, del cui dramma parla in modo accorato proprio la sera del record, contando sull’effetto di amplificazione. Mahučich è una sorta di X-Woman, un fenicottero (180 cm per 55 kg) esplosivo, veloce ed elastico. Ha solo 22 anni: è più di una sensazione che abbia quindi margini ulteriori, al momento indefiniti.

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Nel maschile - in una gara che ha visto affiorare con 2,34 m il talento di Stefano Sottile - tutto è stato inevitabilmente vampirizzato dall’exit di Tamberi, antifrasi di Tokyo 2020: un Calvario in senso non traslato, che ci costringe a slittare dall’analogia supereroica a quella legata al martirio, se non direttamente a quella cristica. Piegato da due coliche renali a distanza di una settimana - dovute, sembra, anche allo scavo dietetico “penitenziale” di una massa grassa al 3% per volare ancora di più- Gimbo si presenta allo Stade de France in condizioni larvali, da sùbito piegato in un’espressione supplice e apotropaica, come a pregare qualunque dimensione fosse intervenuta a sabotarlo (il destino, il caso sadico, la metafisica immanente o trascendente) di concedergli quello spicchio di spazio-tempo in cui poter recitare l’uscita dal palcoscenico che ha da tempo programmato e mentalmente mimato. Quando il suo inconscio capisce (molto prima della sua presa cosciente) che l’organismo l’ha abbandonato, Gimbo sembra sottoporsi stoicamente alle sequenze che verranno: il prolungarsi del martirio col 2,22 m al terzo tentativo; i tre tentativi velleitari a 2,27m, comprensivi di un disperato segno della croce; la terza caduta dell’asticella (coincidente coll’inabissamento dell’atleta) e l’unico possibile farmaco nell’interminabile abbraccio a bordo pista con compagni e amici della vita, a delineare un Compianto sul Cristo Morto a figure tutte maschili.

Per i superstiziosi, l’avventura parigina era segnata da tempo, cioè dalla perdita della vera nuziale di Gimbo - signum sinistro - nella Senna imputridita. In realtà, Chiara sarà decisiva nei prossimi giorni e nei prossimi mesi come lo è stata nei precedenti, quando ha partecipato alle dure rinunce di coppia in prospettiva olimpica. Quanto a Gimbo, potrebbe elaborare “alla Velasco”, facendosene una ragione e accettando. Ma conoscendolo un po’, potrebbe anche succedere, al contrario, che una parte del suo sé - non del tutto appagata nemmeno da ricordi esaltanti come quelli di Tokyo, inclusa la fratellanza con Barshim - finisca col ruminare all’infinito un’exit parallelo, alternativo, come nell’epilogo della 25a Ora di Spike Lee. Anche a lutto più o meno metabolizzato, potrebbe cioè continuare a proiettare, di notte, di giorno, una finale e un finale diversi, opposti a quelli reali, in una luce radiosa, dorata. In questo, supereroi e umani sono un’unica specie.


Supereroi dell’aria (outdoor): il mondo a parte di Mondo Duplantis

Chi invece continua a espanderlo, il suo spazio-tempo parallelo, è Armand (contratto in “Mondo”) Duplantis, che la sera del 5 agosto ha ritoccato per la nona volta il record dell’asta, portandolo a un 6,25 m tutt’altro che definitivo.

Abbiamo già raccontato nei dettagli (pezzo su Tokyo 2020) la complessa genesi e l’arco della parabola umana e tecnica di Mondo: le origini e l’intreccio etnico (il padre Greg, astista della Louisiana; la madre svedese Helena Hedlund, ex eptatleta e volleysta); l’identità e il training anfibio secondo “funzionalità climatica”, anche se ora ri-tarato (gli inverni a Lafayette, le estati a Uppsala); il crescendo - l’attrezzo impugnato a 3 anni - dal primo 1,50 (filmato da Greg) all’annus mirabilis 2020, in pieno COVID, coi record indoor (6,18 a Glasgow) e outdoor (6,15 al Gala di Roma), passando per stazioni intermedie come il 2,33 m a 7 anni o la dedizione esclusiva all’asta a 12, che prevede l’abbandono della polivalenza tecnico-cinestetica formativa (calcio, baseball, salto in lungo…); e il carburante psico-agonistico prediletto (Take It to the Limit degli amati Eagles).

Rimane ora da focalizzare - proprio in occasione del magistrale 6,25m- come questo “fauno dagli occhi curiosi” (secondo efficace espressione di Giorgio Cimbrico) stia portando l’asta nello stesso metaverso in cui Bolt ha portato la velocità, Warholm i 400 hs maschili (a Tokyo), Sydney McLaughlin quelli femminili.

Secondo i fisici, che vi si sono spesso dedicati (vedi Andrea Frova) l’asta è la disciplina che più di ogni altra esemplifica “il principio di conservazione dell’energia e la sua possibilità di trasformazione da un tipo a un altro, fino al degrado finale in calore”. Semplificando (di molto) si danno sette passaggi-chiave: l’energia chimica dell’atleta, accumulata col cibo (1), si trasforma in cinetica (o di movimento) attraverso la velocità della rincorsa (2); al momento dell’“imbucata”- col flettersi dell’asta e l’alzarsi del corpo dell’atleta in verticale, la cosiddetta L- l’energia cinetica si suddivide parte in cinetica stessa (la “velocità del moto di sollevamento”), parte in energia potenziale elastica (accumulata nell’asta), parte in energia potenziale gravitazionale (costituiva di ogni corpo che si innalzi rispetto al terreno (3); quindi, dopo che l’energia elastica dell’asta ha contribuito ad aumentare quella potenziale gravitazionale del saltatore, portandola al culmine nell’azione di superamento (o meno) dell’asticella (4), l’energia si ri-trasforma nella caduta in cinetica (5), toccando a sua volta il culmine nel contatto del corpo col materasso di gommapiuma, che la immagazzina sotto forma di energia potenziale elastica, disperdendola poi sotto forma di calore (6), mentre nell’atleta - esultante o abbattuto - l’energia chimica consumata si converte in energia termica (7), cioè a sua volta calore prodotto dai vari attriti (nei muscoli dell’atleta, sul terreno e sull’aria durante la rincorsa, etc.).

Ora, non è detto che l’assetto anatomo-morfologico più funzionale alla miglior “espressione” di quella seducente catena di conversioni energetiche sia quello erculeo di tanti astisti: vedi il grande amico di Mondo, Sammy Hendricks, o il meraviglioso, compianto tedesco Tim Lobinger, portato via l’anno scorso da una leucemia (193cm per 86 kg). Anzi, sia l’antefatto di Mondo, l’ucraino di Luhansk Sergej Bubka (183 cm per 80kg), sia, ancor più, il suo modello-maieuta, l’alverniate Renaud Lavillenie (177cm per 69kg), hanno complessioni più vicine alla sua (181cm per 79kg). Come loro compatto e morfologicamente “bilanciato” - con in un più, addirittura, una leggera inclinazione cifotica - Mondo è una macchina perfetta per l’asta nella descrizione dei fisici. Tutti i suoi grandi salti - i salti dei record - sono connotati da una sintassi inconfondibile: l’estrema velocità della rincorsa (che l’accademia prescrive decisiva in tutti i salti, tranne in parte per l’alto), agevolata dal fatto di correre i 100 sotto i 10” 60, con gli ultimi 15 metri in crescendo per caricare l’“effetto fionda”; la perfezione unica della “Fase L”- della citata conversione della velocità orizzontale in verticale per il valicamento; la naturalezza, insieme innata e allenata, delle fasi successive (ascensione, capovolta-rotazione, avvolgimento, svincolo). Con un dettaglio decisivo proprio nella sera del 5 agosto: nel tentativo riuscito, il terzo, Mondo è impressionante proprio nell’esattezza algebrica dello svincolo finale, quasi da virtuoso contorsionista. Non è sorprendente, perché in tanti astisti-top quello è il frame-chiave: la zarina Isimbaieva aveva sviluppato addirittura ad hoc un quadrifoglio addominale “retrattile”, pronto a incavarsi attorno all’asticella per lasciarla intatta.

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Il tutto, però, deve tradursi in un continuum senza cesure, perché, come ricorda Mondo stesso, la chiave è soprattutto neuro.psicologica: l’abbandonarsi alla “volontà del corpo” e a un’azione che “scorra come un fiume”. È uno schema consolidato, che ritroviamo nelle intuizioni pionieristiche di Timothy Gallway sul tennis (quando esorta i suoi allievi a lasciare che il Sé-2 corporeo giochi senza il controllo e i vincoli volontaristici del tirannico Sè-1 “cerebrale”) e in quelle più sistematiche di psicologici cognitivi come Gerd Gigerenzer del Max Planck (il “sapere senza pensare” che caratterizza le giocate dei fuoriclasse).

Ed è proprio quel continuum a spiegare lo stile di Mondo: un’essenzialità da Bauhaus che si traduce in lievità mozartiana.

Supereroine dell’aria (indoor): da Simone Biles a Alice D’Amato

Tutto o quasi è stato ormai detto e scritto sulla figura-spartiacque di Simone Biles.

Su un versante, sono stati scavati al dettaglio tutti i passaggi della sua biografia, specie quelli più traumatici e dolorosi, a volte con intenti virtuosi, di sensibilizzazione, a volte meno: l’abbandono da parte dei genitori biologici (la madre tossica-alcolista sempre “dentro e fuori dal carcere”); gli abusi subiti dall’osteopata della Nazionale Larry Nassar (il “medico-mostro” poi condannato a 176 anni per “almeno” 250 atlete abusate); i suoi “demoni” neuro-psicologici, biografici e tecnici, tra cuigli ormai celeberrimi twisties, le distonie di propriocezione che a un certo punto la portavano a deragliare, perdendo l’orientamento spaziale- forse il più importante tra i talenti richiesti a una ginnasta- e “sconnettendo” le parti dei suoi laboriosi, impossibili esercizi. Quasi tutti quei passaggi- sia detto non per inciso- sono riconducibili a certi “archetipi” o ricorrenze oscure dell’ambiente della ginnastica: vedi proprio l’aspetto degli abusi, se già una star come la bielorussa-sovietica Olga Korbut denunciava- beninteso, decenni dopo il suo momento di gloria a Monaco ’72- di come lei e le compagne non fossero per coach e preparatori solo “macchine sportive”, ma anche “schiave sessuali”. E più in generale, la ginnastica - soprattutto l’artistica, ma in parte anche la ritmica - è stata a lungo un’applicazione duramente letterale, materiale - e insieme una metafora potente - della soggezione generale della donna a ogni livello della società. Come ben riassume, pur in prospettiva di memoria storica, la parabola di due étoile di culto: quella di una “madre fondatrice” come la cecoslovacca Vera Cáslavská, che paga con l’esilio e la persecuzione la sua esplicita opposizione all’invasione sovietica di Praga ’68; o quella della prima ginnasta-bambina (la più grande no contest, almeno sul piano estetico), la rumena Nadia Comaneci, che al momento del successo viene costretta a lasciare il compagno cantante-pop per diventare l’amante del terzogenito (alcolizzato) di Ceausescu: e sono solo le prime stazioni in una catena di lesioni affettive che la condurranno al marasma esistenziale e a due tentativi di suicidio.

Su un altro versante, Biles è oggetto di analisi scientifiche sempre più accurate-accanite, come quelle che abbiamo visto fiorire sùbito per Leon Marchand. Lo scorso primo agosto, per esempio, il noto fisico Reth Allain ha pubblicato su Wired uno studio dettagliato sui suoi “salti impossibili”, in particolare sul “famigerato” - in quanto sconsigliato dai giudici per l’eccesso di rischio - “Yurchenko doppio carpio”; un salto che implica ardue rotazioni simultanee in verticale e orizzontale, e che Allain decodifica attraverso passaggi molto sofisticati (il rapporto tra le fasi del salto e le tre diverse velocità angolari).

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Sono proprio analisi come quella di Allain a permettere di portare in primo piano uno snodo latente, che pochi osano portare in chiaro. Il punto, quasi ovvio anche per i non addetti, è che la rivoluzione copernicana introdotta da Biles ha esercitato un break rispetto alle categorie tecnico/estetiche precedenti: già prima c’erano ginnaste più inclini all’esplosività che alla “grazia”, ma con lei il rapporto tra le due componenti (mai, beninteso, davvero separabili con l’accetta) si è marcatamente invertito. Come riassumono già i suoi vincoli anatomo-morfologici - ovvero un rapporto altezza/peso di 142 cm per 47kg. Biles è una ginnasta in grado di mutare la natura stessa della disciplina, che ha portato ad altezze himalayane sia in senso dimensionale che per inedita (e inaudita) complessità delle skills citate. Ma il prezzo da pagare, nemmeno troppo occulto, è un parziale sacrificio proprio a livello di grazia-eleganza. Livello in cui eccellevano ginnaste come la stessa Comaneci o - per citare un’icona dei “puristi”, allora contrapposta alla più esplosiva Korbut - un’altra sovietica, Ludmilla Tourisheva: atlete, non caso, dal quadro anatomo-morfologico molto simile (alla grossa 160 cm per 50 kg, con variazioni individuali). O in cui eccelle oggi la nostra Alice D’Amato, il primo oro assoluto di un’italiana nell’artistica (dovremmo ripetercelo più e più volte); una ginnasta, guarda caso, che la stessa Comaneci ha eletto tra le sue predilette («avrà un grande futuro», profetizzava prima dei Giochi).

Inseparabile dalla gemella Asia, anche Alice - come la Biles o, nella generazione Y, la meravigliosa Sunisa Lee, altra atleta più di grazia che di esplosività - ha a sua volta una parabola dolorosa, con almeno due strettoie. La prima è una vera sliding door: una rottura del crociato- nel 2016, a 12 anni - per la cui operazione dovrebbe aspettare in Italia la maggiore età, compromettendo la carriera; a salvarla, sarà la presenza fortuita alla Brixia (la sua società bresciana) di un gruppo di austriaci arrivati lì per un collegiale, che la caricano in macchina e la portano a Linz, dove l’intervento riuscirà perfettamente. La seconda strettoia è invece uno shock affettivo: la morte precoce del padre Massimo (un vigile del fuoco) per una malattia oncologica, poco dopo gli Europei di Monaco, cioè poco dopo aver fatto in tempo a gioire per i successi delle figlie. Non sorprende certo che Alice abbia dedicato l’oro proprio a lui e ad Asia, bloccata dall’ennesimo infortunio.

Sul piano tecnico, ma anche estetico, le performance di Alice sono state un crescendo costante, con l’acquisizione-integrazione progressiva di tasselli anche neuro-cognitivi e neuro-psicologici, a cominciare proprio dal controllo dell’orientamento spaziale e del quadro affettivo-emotivo, così delicati, come abbiamo visto, anche in Biles. Sunto di quel crescendo è il trend ascendente nelle parallele asimmetriche (la “sua” specialità, a differenza della trave, che continua a considerare, paradossalmente, gregaria) agli Europei degli ultimi anni: bronzo a Stettino 2019, argento a Monaco 2022, oro ad Antalya 2023 e Rimini 2024. Ultimo step- ovvero leap- proprio a Parigi: un leap che ricorda per certi aspetti quello di Jannik Sinner tra fine 2023 e inizio 2024. Protagonista nell’argento a squadre, è poi una delle tre sole atlete- con l’eterna Biles e Rebeca Andrade- ad accedere a quattro finali individuali su cinque: oltre all’oro nella trave, è 4a, 5a e 6a rispettivamente nell’ all-around (a Tokyo era 20a, altro parametro-chiave del leap), nelle parallele e nel corpo libero. Certo, nell’oro alla trave hanno concorso senz’altro le prove infelici di tante competitor dirette: oltre a Biles, Zhou e Sunisa Lee. Ma la sua prova resta memorabile, anche perché lei riesce esattamente in quello che David Goldblatt e John Acton attribuiscono, per quell’attrezzo, alle fuoriclasse di prima fascia: esibirsi sui 10 cm in larghezza, “come se stessero eseguendo un esercizio su un attrezzo dieci volte più largo”. Il tutto con una fluidità e una levità che sono ormai il suo brand stilistico.

Per tornare allo snodo da cui siamo partiti, basta intercettare poche sequenze della figura in movimento di Alice - il rigore nella postura e nell’assetto, con le gambe unite e le punte dei piedi in estensione; la silhouette d’inconfondibile finezza; il viso insieme affilato e dolce, allungato dall’impeccabile chignon biondo - per vedervi sintetizzati proprio quei tratti in parte rimossi nelle super-performance della Biles, e capaci di rievocare le influenze, nella genesi della ginnastica (artistica ma anche ritmica) di discipline come la danza (con cui Alice e Asia hanno iniziato) o di fonti meno ortodosse come il circo, se l’incidenza del trapezio è evidente nella sbarra, nelle parallele asimmetriche, negli anelli. In quest’ottica, Alice può ricordare danzatrice o una saltimbanca da quadro impressionista o pre-cubista, tra Degas e il primo Picasso, o la serie circense di Seurat. Di più: il velo malinconico del suo sguardo- insieme penetrante e ritroso, di una timidezza quasi protettiva, tanto che viene definita “la metà introversa” di Asia- richiama i versi di certi poeti, su tutti Baudelaire, che hanno còlto nella dimensione del circo e della danza proprio il sottofondo onirico e lunatico-malinconico, poi ripreso in certi capolavori di Fellini.

È una descrizione che si potrebbe estendere, almeno in parte, alla sublime Sofia Raffaeli della ritmica, anche lei prima medaglia assoluta, anche se di bronzo, nella sua disciplina (nickname da lei non amato - per stare alle supereroine - “formica atomica”). Ed è in ogni caso una descrizione con cui non si vuole in alcun modo, ovviamente, provvedere a un ribaltamento-raddrizzamento gerarchico rispetto all’impatto epocale di Biles. Semplicemente, Alice è tra le ginnaste che ci hanno ricordato la pluralità di toni e timbri sui cui possa declinarsi la sua difficile disciplina.


Terra

Dopo l’egemonia di Usain Bolt-Flash (per la verità estesa sull’intera atletica leggera), la velocità è entrata in una lunga fase di contendibilità, di regni di breve o medio periodo, quasi da “età dei torbidi” nella Russia zarista. Proprio Parigi avrebbe dovuto ratificare la dominanza del trickster-fool della Florida, Noah Lyles, arrivato con l’ambizione di cifrare i giochi con quattro medaglie (100, e 200 più le due staffette). Vince quella meno sicura, i 100 (millesimi davanti al giamaicano Thompson e due centesimi davanti a Kerley), per poi imbattersi nella mala suerte del COVID, che lo costringe al bronzo nei 200 (finirà la gara stremato, accompagnato negli spogliatoi in carrozzella) e alla rinuncia delle staffette. In compenso, è andato imponendosi via via al suo posto proprio lo stesso vincitore dei 200: un atleta tutt’altro che ignoto, ma che a Parigi ha fatto sua volta un leap marcato, fino ad approssimarsi al supereroe: Letsile Tebogo, Botswana.

Inciso: l’exploit (gli exploit) di Tebogo entrano in una categoria molto seducente dell’atletica a Parigi: quella di alcuni Paesi ex-coloniali che arrivano all’oro per la prima volta. Particolarmente avvincente è quello che succede la sera di sabato 3 agosto, quando si assegnano ravvicinati (un po’ come i due ori a Jakobs e Tamberi a Tokyo il 1° agosto ’21) gli ori dei 100 e del triplo femminile, vinti da due atlete di misconosciute isole caraibiche, ex possedimenti francesi: Julien Alfred dell’isola di Santa Lucia (che non arriva a 200.000 abitanti) e Thea Lafond di Dominica (poco più di 70.000, da non confondere con la Repubblica Dominicana).

La Alfred approfitta anche del ritiro, all’ultim’ora, della leggendaria giamaicana Shelly-Ann Fraser; ma schianta comunque una delle favorite (l’americana Richardson) con un gran tempo (10”72), arrivando poi all’argento nei 200 dietro una fuoriclasse come Gabrielle “Gabby” Thomas. Inciso nell’inciso, la Thomas è una delle figure più intriganti dei Giochi in assoluto: arrivata all’atletica e alla velocità, anche prolungata, per “contagio” della sublime Allyson Felix (la falcata più lieve e aggraziata di sempre), la Thomas è anche una giovane scienziata, con una laurea in neurobiologia ad Harvard e un master in epidemiologia (in dirittura d’arrivo) ad Austin. Una supereroina su più livelli.

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Quanto a Tebogo, il primo oro africano nella velocità dai tempi remoti (1908) del sudafricano Reggie Walker (considerando tutto: Maghreb-Mashreq e sub-Sahara) è un break davvero epocale. Fenomenale ai limiti del monopolio - com’è arcinoto - nel mezzofondo, nel fondo e nella maratona, l’Africa ha proposto nella velocità, prima di lui, solo qualche pioniere isolato: su tutti, oltre a Walker, l’elegantissimo ingegnere namibiano Frank Fredericks, due argenti in 100 e 200 nei Giochi ’92 e ’96.

Nativo di Kanye, un villaggio del Sud in uno Stato, va ricordato, di indipendenza recente (1966, dopo lunga occupazione britannica), Tebogo ha una parabola per certi versi curiosamente coincidente con quella delle gemelle D’Amato, in particolare proprio di Alice: l’anno di nascita 2003 (Letsile il 7 giugno); il training anche in area bresciana, col ragazzo che va al Palaleonessa a seguire la Germania (è fanatico di basket e in particolare della “mentalità mamba “ di Kobe) e si lega a un manager, Federico Rosa (lo stesso di Battocletti) nato sul lago d’Iseo; e il costante crescendo tecnico-agonistico, coi grandi risultati ai Mondiali juniores (due volte primo nei 100; due volte secondo nei 200) seguiti da quelli di Budapest ’23 (bronzo nei 100, argento nei 200), preludio all’esplosione olimpica. Ma soprattutto - come Alice e Asia - ha perso da poco un genitore, la madre Seratiwa, scomparsa lo scorso 18 maggio, a soli 44 anni, a sua volta per malattia oncologica: un trauma da cui Tebogo in un primo tempo stenta a riprendersi, piombando in un mese di blackout (Seratiwa lo seguiva sempre in tribuna) e uscendone solo grazie alla vicinanza di coach Dose. Non sorprende, anche in questo caso, che una volta elaborato il lutto («La porto dentro in ogni passo che faccio»), il velocista dedichi l’oro parigino proprio a lei, con un toccante rituale: la scarpa tolta a fine gara per mostrare a spettatori e media le iniziali incise della madre e la data della sua nascita.

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Di complessione statuaria, potente ed elastica (185 cm per 77kg), Tebogo esibisce in primo luogo a Parigi un notevole mix di continuità e resistenza, partecipando a tre specialità: e se nei 100 arriva “solo”6° dietro Jakobs (con 9”86), accosta poi all’oro dei 200 (con un eclatante 19”46, forsetroppo anche per un Lyles sano) una performance forse ancora più sensazionale nell’ultima frazione della 4x400, correndo in un mostruoso 43”03 (10 centesimi meno di un altro supereroe come Rai Benjamin, oro dei 400hs) e portando il Botswana all’argento. Particolare non secondario; all’origine di tutto (e ad accelerarne il corso) è l’intuizione del suo coach quando Tebogo si ostina a voler diventare calciatore; vedendolo negato, il mister (un genio) lo indirizza d’autorità all’atletica: “Diventerai il numero uno”. Saper riconoscere un supereroe in potenza è a sua volta una superfacoltà.


Supereroine di Terra: Femke Bol e Sydney McLaughlin

Fuori dalla velocità, Parigi ha offerto tante gare esaltanti nella corsa. Ne scegliamo alcune, ancora in modo idiosincratico, considerando non solo i tempi. Nel mezzofondo: gli 800 maschili, con un gara in apnea e tre atleti-monstre ad avvicinare il mondiale alieno di Rudisha- Londra 2012- di 1’40”91 (il kenyano Wanyoniy, 1’41”19; il canadese Arop, 1’41”20; l’algerino Sdjati, 1’41”50); gli 800 femminili, dominati dalla meravigliosa Keely Hodgkinson, uscita da un quadro di Dante Gabriel Rossetti; e i 1500, col crash di Ingrebrigtsen, parzialmente risarcito nei 5000, e il grande finale dell’emergente yankee Cole Hocker, Nel fondo: i 10.000 femminili, su cui torneremo nella parte sul “Fuoco”. E nelle corse su strada, più della pur interessante maratona maschile (con i miti Kipchoge e Bekele off, e vincitore col record olimpico un etiope, Tola, infortunato al bicipite femorale solo 10 giorni prima della gara), risalta quella femminile, vinta dall’ oranje di origine etiope, anche lei con record olimpico, Sifan Hassan, coronamento di una carriera leggendaria (terza medaglia di questi Giochi, dopo i bronzi nei 5 e 10.000).

Ma Parigi conferma, forse, come il meglio nelle corse di questi anni venga dal giro di pista, senza e con ostacoli. Sono stati infatti notevoli i 400 piani sia maschili che femminili; i secondi, soprattutto, hanno esposto la prorompente dominicana Paulino (oro con 48”17, altro record olimpico) e l’armoniosa polacca Kaczmarek (bronzo). E le staffette sono state addirittura sensazionali, in quanto in tutte e due si è sfiorato l’abbattimento di mondiali ritenuti inscalfibili, anche per la presenza di quartetti di prim’ordine; unica strana assenza, in quello USA della finale maschile- di cui s’è accennato per il rush di Tebogo - il vincitore dell’individuale Quincy Hall. Ma soprattutto, ancora una volta, sequenze memorabili sono venute dai 400 ostacoli, stavolta- con inversione rispetto a Tokyo- più da quelli femminili.

La finale dei 400hs maschili di Tokyo, del resto, è stata un evento difficilmente ripetibile: il vincitore Karsten Warholm (il massimo esponente di Iperborea con Duplantis) la vinceva in un irreale 45”94, un equivalente del 9”58 di Bolt nei 100 a Berlino 2009, tanto da portarci a giocare sul suo cognome: Warholm come wormhole, il “buco di verme” meglio noto come “ponte di Einstein-Rosen”, il cunicolo spazio-temporale impiegato in tante opere di SF (per esempio Interstellar) per connettersi a altre epoche o altri universi. Dietro di lui, il citato americano Rai Benjamin (46”17) e il brasiliano Dos Santos (46”72). A Parigi, i Tre si sono - molto tra virgolette - “normalizzati”, con l’inversione di oro e argento: vince Benjamin in 46”46, secondo Warholm in 47”06, terzo di nuovo Dos Santos in 47”26.

Nei 400hs femminili, invece, aspettative enormi non vengono disattese, anche se, come succede spesso, in una forma diversa dal previsto. Si attende infatti una sorta di “scontro finale” tra due supereroine primarie della velocità prolungata come Femke Bol e Sydney McLaughlin, il cui palmarès è già impressionante (ancor più quello della McLaughlin).

La Bol, 24enne di Amersfoort, cartolinesco distretto di Utrecht, è un’olandesina in apparenza quieta: la vocetta chioccia e un po’ garrula, i tratti gentili da tela di Vermeer o di un altro pittore d’interni secentesco, rivela invece, anche se ben dissimulata, una complessione potente (184 cm per 65 kg), e dietro la corsa naturale ed elegante (a tratti sembra volare) una forza psico-agonistica inimmaginabile. A Parigi, comincia col riscattare-ribaltare il crash della 400 mista ai Mondiali di Budapest ’23 (disastrosa caduta all’arrivo) con un’ultima frazione “alla Bol”, infilando cioè avversarie in serie e arrivando a un oro-thriller (negli USA, secondi dopo aver fatto il mondiale in semi, non c’è la McLaughlin). Dopo i 400 ostacoli, la Bol sarà egualmente esaltante nella 4x400 donne, ma lì dovrà accontentarsi dell’argento dietro gli USA (stavolta, c’è la McLaughlin). Morale: tre medaglie di tre metalli diversi, contro i due ori della rivale.

Sydney McLaughlin in Levrone, 25enne di New Brunswick, New Jersey, è un’atleta più compatta ed esplosiva (175 cm per 60kg), ma non meno elegante della Bol: di un’eleganza diversa, meno leggiadra, dal continuum più possente, ma non meno insinuante. Scrupolosa come nessuno nel training sotto il mitico Bobby Kersee - vedi, prima dei Giochi, le interminabili sedute agli “ostacolini” per cesellare lo stacco - ha ottenuto ben quattro dei sei ritocchi al mondiale dei 400hs nel magico Hayward Field di Eugene (casa sua); ma ha dato forse il meglio negli altri due, ottenuti proprio nei contesti in teoria “unfamiliar” di Tokyo e Parigi.

Prima di Parigi, Sydney e Femke si mandano messaggi a distanza, secondo un classico dell’atletica: a giugno - proprio ai trials di Eugene - McLaughlin dà il quinto ritocco mondiale (50”65); e Bol risponde a luglio con un formidabile, comunque, 50”95. La finale di Parigi, però, come accennato, non sarà un duello: Bol regge più o meno fino alla quinta barriera, quando sembra avvicinarsi all’avversaria: ma poi McLaughlin va via, come Bolt con Tyson Gay, chiudendo la gara in un crono (50”37) che fa eleggere la performance da World Athletics addirittura a “più grande prestazione femminile della Storia”, davanti persino al 10”49 di Florence Jo Griffith sui 100 (trials’88). Bol, invece, sembra aderire allo “schema-Ingebrigtsen” sui 1500 (inopinata medaglia di legno): sopraffatta nel vedere l’oro svanire, si disunisce e forse inconsciamente si scollega dalla gara, finendo terza dietro l’altra americana Anna Cockrell, in un non esaltante (per lei) 52”15.

A gara finita, McLaughlin chiosa il successo- il suo passaggio da supereroina indiscussa dei Giochi- con un flashforward tra la promessa e la minaccia: l’abbattimento della barriera dei 50”.

Fuoco (sacro e non)

Il fuoco viene qui eletto soprattutto a metafora. Metafora di intensità agonistica, di furore individuale e di squadra: e quindi di match, gare, situazioni memorabili in quella dimensione. Quanto alla “sacralità” è legata all’ardere della fiamma olimpica come alla stessa intensità e ispirazione dell’atleta e del team. In certe situazioni, quel fuoco ha bruciato però in modo improprio, provocando autocombustioni, cortocircuiti, cenere. È il caso -già visto - di Gimbo, forse peraltro - come ha notato Juri Chechi - non gestito al meglio, anche solo sul piano del training e biomedico; e lo è, almeno in parte, quello dell’intera spedizione azzurra dell’atletica, con alcune défaillances brucianti (Simonelli sui 110hs) e altre delusioni varie, pur con attenuanti (Sibilio, la Fantini nel martello…). A tacere, aprendo il compasso, di altre discipline, come il volley maschile (più per i modi che per l’esito stesso). Così come il fuoco ha bruciato in modo improprio in situazioni pesantemente condizionate da altre défaillances, quelle arbitrali: pensiamo, per stare a situazioni italiane, all’oro “soffiato” a Filippo Macchi nel fioretto; o, a maggior ragione, all’eliminazione ai quarti del Settebello con l’Ungheria, in cui - al netto di un supereroico Soma Vogel, il portiere magiaro emulo dei Ducadam e dei Diogo Costa nel calcio - la decisione obiettivamente discutibile sulla “brutalità” nel gol-chiave di Condemi ha poi innescato proteste e boicottaggi fuori controllo (le spalle ai giudici da parte del team e l’auto-espulsione dello stesso Condemi in Italia-Spagna).

Sono molti di più, per fortuna, i casi in cui il fuoco ha bruciato a dovere, forgiando match e gare indelebili.

Un esempio è la finale di tennis maschile tra Djokovic e Alcaraz: un doppio 7-6 per il serbo (in parte inimmaginabile dopo il crash umiliante di Wimbledon) con momenti di gioco in un’apnea irreale, quasi frastornante per la sensorialità dello spettatore. Carlitos, che si avvia a istituire la nuova diarchia con Jannik Sinner, è tennista unico, specie in prospettiva, per completezza e varietà-letalità dei colpi: qualcosa di simile a un potenziale Alfredo di Stefano (sa fare davvero tutto) capace di momenti-Maradona (lob e passanti impossibili; drop shot che spengono uno scambio furente come improvvisi mutamenti di scena- di densità della materia - impredicibili per l’avversario); ma è ancora in una fase di assestamento neuro-psicologico, con altri momenti, quindi, di spaesamento se non di cortocircuito auto-implosivo, quasi vicini ai twisties della Biles. Djokovic - al momento sicuramente il MAOAT, il più vincente, e aldilà del falso problema del GOAT, il più grande - è senza dubbio il tennista più “luciferino” di sempre: a Parigi, da vero “mentalist”- si è incuneato nelle fragilità di Carlitos, tattiche e attenzionali, snervandolo e minandone continuità e creatività di gioco.

A fine match, Nole non è mai stato così vicino al suo nickname-principe, il Djoker, l’“intruso” di Gotham City, la città di Batman e Robin ovvero di Roger & Rafa; il reietto slavo legato all’Occidente da un rapporto ambivalente, tra avversione e desiderio di accettazione, proiezione del suo bisogno estremo di essere insieme amato e odiato. Il suo pianto senza freni tra le braccia dei familiari - a un tempo commovente e scomposto, da maschera grottesca - sembra sigillare (e concludere) una parabola senza pari. Ma col Djoker- supereroe villain per antonomasia - ogni finale sembra sempre il penultimo.

Un altro esempio di fuoco sacro al meglio è costituito senz’altro dal nuovo dream team USA di basket. Soprattutto gli ultimi due incontri: la riemersione nella semifinale ormai persa con la Serbia di Jokic e Bogdanovic (da -17, e da -13 dopo 30”) e la finale vinta nella notte di San Lorenzo contro una Francia che avrebbe messo sotto chiunque altro (tranne, forse, proprio la Serbia). Anche il nuovo dream team- come i precedenti- è fatto di coprotagonisti, come ricordano i semplici nomi degli Avengers: Booker e Durant, Embild e Edwards, Tatum e Holiday. Su tutti, però, svettano i due “fratelli” di Akron, Ohio (lì sono nati, nello stesso ospedale, a distanza di tre anni): il 39nne, incanutito e segnato, ma inaffondabile LeBron James; e il 36nne Steph Curry, cioè due tra i top-player di sempre. E tra i due, per stessa ammissione del Prescelto, il supereroe decisivo è Steph, prima coi 36 punti nella rimonta sulla Serbia (e LeBron comunque in una delle sue tante triple doppie: 16 punti, 12 rimbalzi, 10 assist), poi coi terrificanti 4 tiri dall’arco in meno di 3 minuti che pietrificano la Bercy Arena e stroncano il riavvicinarsi dei Bleus e le ambizioni di Yabusele e di un immenso, affranto Wembanyama (20 e 26 “inutili” punti). A fine gara con la Serbia, LeBron si riferirà a Steph come a un atleta che “sembrava spinto da Dio”. Più prosaicamente, questa ulteriore consacrazione ai Giochi spiega meglio l’interesse ossessivo su di lui, sul “mistero” di questo supereroe “normodotato”, da parte di tanti studiosi, come il neuroscienziato John Krakauer della Johns Hopkins.

Anche se, in realtà, si tratta di un mistero molto relativo, risolvibile ascoltando il personal-trainer di Steph, Brandon Payne, che ha descritto come nessuno, del suo atleta, il rapporto tra doti genetiche dissimulate (di rapidità e destrezza), una “maturazione” tardiva (organica e neuro-psicologica) e un training massacrante (il famoso Fitlight). Tra le doti risolutive di Steph- alla base del suo inimitabile tiro dall’arco per altezza, timing del rilascio, correzione in corsa della traiettoria - c’è una “prodigiosa neuro-sensorialità”, che ne fa una specie di Keith Jarrett del basket; un supereroe la cui chiave è la sensibilità molecolare.

Pe quanto attiene all’Italia, gli esempi di “fuoco sacro” - su scelte, ancora e sempre, insieme oggettive e idiosincratiche - sono forse soprattutto tre.

Il primo ci riporta al tennis, cioè all’oro Errani-Paolini nel doppio femminile: per Sara (37nne come il Djoker) il sigillo di una carriera; per Gelsomina- “solo” 28nne- di una stagione forse irripetibile, dopo le due finali-Major a Roland Garros e a Wimbledon.Nell’intesa simbiotica- tecnica e umana- ciascuna ha dato e ricevuto: Errani ha aiutato Paolini a migliorare in tanti aspetti del gioco, tecnici e tattici (a partire dal tocco a rete, con cui Gelsomina non ha troppa familiarità, nonostante l’immenso lavoro maieutico di Renzo Furlan); e ne ha ricevuto in cambio una dedizione, un feedback empatico di entusiasmo-agonismo senza pari. Solo questo spiega la loro resistenza-resilienza (e la reattività) in una finale problematica, cominciata con una soggezione totale alle giovanissime russe “neutrali” Andreeva-Shneider (primo set 2-6), poi ribaltata con un 6-1 e 10-7 in un super-tie break da cardiopalma. Un oro che compensa ampiamente, col magnifico bronzo di Musetti - almeno a posteriori- l’amarezza-delusione per la (giustificatissima) rinuncia di Sinner.

Il secondo esempio è la performance-monstre di Nadia Battocletti, con un polpaccio dolorante, nei 10.000: senza dubbio, uno dei momenti più alti dei Giochi, non solo in ottica italiana. Piegata ma non certo spezzata dal bronzo illusorio dei 5000 - suo per una notte, prima della squalifica rientrata della keniana Kypiegon - Nadia affronta i 10.000 con una sagacia tattica (il timing dell’allungo) pari solo a una combattività irriducibile, con cui arriva a insidiare una supereroina assoluta come l’altra keniana, Beatrice Chebet, già oro nei 5000. Gli ultimi 1000 (in 2”52) e l’’ultimo, pauroso giro di Nadia - da vedere e rivedere in Rete - echeggiano le imprese dei Cova dei Panetta, degli “italianuzzi” capaci di concorrere con macchine genetiche “da fondo” come quelle gli africani (e degli scandinavi). In realtà, questa 24nne dell’amena Cles (Val di Non) che in abiti borghesi fa di tutto per ingannarci (capelli sciolti e occhialoni tra la nerd e la secchiona), possiede a sua volta una struttura anatomo-morfologica (170cm per 47 kg di pura massa magra) perfettamente funzionale a quel tipo di performance. La sua esultanza pudica e tremante, insieme alle toccanti “scuse” pubbliche dopo il naufragio ai Mondiali di Budapest, a posteriori ceneri della Fenice, resteranno tra i ricordi più intensi dello sport italiano di sempre.

Così come lo resteranno - terzo e ultimo esempio - i primi piani dei volti rigati di lacrime delle ragazze del volley che cantano l’inno dopo il primo oro olimpico italiano della specialità.

Si è detto e scritto tutto il possibile su quella che è oggettivamente un’impresa; dove al termine impresa, però, si associ - l’ha ricordato Egonu parlando dell’incidenza di Velasco - soprattutto la capacità di far quadrare potenzialità latenti da tempo, in un gruppo - in un movimento - che sarebbe potuto arrivare all’oro già prima.

Certo, a impressionare, lo ha ricordato lui stesso, è la rapidità con cui JV e lo staff hanno messo a fuoco quella quadratura. Del resto, lo si spiega con la felicità-lucidità di tante scelte, in interazione tra loro come parti di una cattedrale costruita con sapienza in itinere, dalle fondamenta alle guglie, e il cui splendore- annunciato dalle rilucenze della vittoria in Nations League - si è irradiato in Giochi in cui, non dimentichiamolo, le azzurre perdono un solo set, all’esordio con la Dominicana, per poi infilare cinque 3-0 (Olanda, Turchia1, Serbia, Turchia 2, USA in finale). Di quella catena di scelte, ne ricordiamo alcune: la “chiamata” a Lollo Bernardi e Max Barbolini, top-player e “secondo” in panchina degli anni modenesi; il lavoro di resettatura “ambientale”, con le giocatrici nelle camere d’albergo in coppie sempre nuove, per acuire il senso adattativo e prevenire rischi di degenerazioni “claniche”; il coaching psicologico (l’hashtag del “qui e ora”, da pura mindfulness); il cesello tattico ma anche tecnico, con Lollo e Max che vanno con ogni evidenza ben oltre i compiti primari richiesti (rispettivamente la tattica delle avversarie e il muro).

L’esito è il gruppo di X-Women che abbiamo ammirato. Per citare le principali (e scusandoci con le altre): Egonu alla definitiva consacrazione, anche per la gestione magistrale del suo condominio da opposto con Antropova; Sylla mai così continua e lucida; Orro con un crescente acume delle scelte in distribuzione; Bosetti col suo totalvolley finalmente “in chiaro” per tutti; le centrali Danesi e Fahr armonizzate in un mix di potenza e tecnica; "Moki" De Gennaro - la “scheda madre” del pc, non a caso portata in trionfo dalle compagne - con la sua eterna ubiquità difensivo-costruttiva.

Forse è vero che non tutto è stato un chiudersi di cerchi ovvero di riscatti - specie rispetto al “beffardo” argento maschile di Atlanta ’96 - come in troppi abbiamo creduto in modo pavloviano. Velasco l’ha negato recisamente; Bernardi - che il giorno dell’oro ha compiuto 56 anni - un po’ meno, forse perché oltretutto, sulla panchina USA, stava il suo ex-aequo tra “i top-player del XX secolo”, il grandissimo Karch Kiraly; batterlo, deve aver acuito l’orgoglio dell’impresa.

Quel che è certo, quel che rimane, come per la Battocletti - è la radiance affettivo-emotiva, la “musica” che quella squadra ci ha lasciato. Per qualche ora, per qualche giorno, ci ha dato, se non la speranza, almeno l’illusione che la loro coesione potesse essere contagiosa, risvegliare i tratti migliori di un Paese soffocato dagli egoismi e dal compiacimento per la propria arretratezza culturale. Per qualche ora o giorno - e il riferimento suoni ad hoc per Julio, che venendo in Italia ha cominciato da Jesi, non lontana da Recanati - abbiamo avuto l’impressione che davvero errasse “l’armonia per questa valle”.

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