Il problema di serie come All or nothing lo sapete, è che diventano presto dei prodotti auto-promozionali. Delle lunghe e boriose pubblicità sulla perfezione organizzativa di un club di calcio. È stato difficile guardare la serie sul Manchester City senza essere, prima o dopo, urtati dalla sensazione che quel prodotto non avesse altro scopo che convincerci che il City fosse il migliore club del mondo. Non c’era altro messaggio al di fuori di questo. C’erano cose interessanti, ovviamente, per chi sapeva cercare nelle pieghe.
Se invece Sunderland til’i’die è diventata una serie di culto è perché la storia immaginata a tavolino è scappata di mano molto presto. Il racconto del ritorno in Premier di una società storica, un racconto di gloria e riscatto, è diventato quello di una caduta all’inferno. Sunderland til i die è un racconto empatico sulla fragilità e la sofferenza in una stagione calcistica maledetta. Ma è anche un racconto impressionante e grottesco sulla disorganizzazione e l’incompetenza in un club che, appartenendo al calcio più ricco del pianeta, facciamo fatica a credere.
Ciò che può rendere interessanti questi prodotti, riscattandoli dalla loro natura pubblicitaria, è l’imprevisto. All or nothing - Tottenham non raggiungerà mai l’epica del dolore di Sunderland til’i’die, ma va riconosciuto che le cose non sono andate esattamente come sognavano i produttori e Daniel Levy, il presidente che ambiva a una migliore presenza del Tottenham nel mercato americano. La storia doveva essere quella di un club che, dopo la finale di Champions dello scorso anno, era pronto a spiccare il volo. Una delle squadre più moderne, uno dei club più efficienti, uno degli allenatori più positivi e affascinanti, una squadra di bravi ragazzi. Dopo un paio di mesi però tutto è andato a rotoli: Mauricio Pochettino è stato esonerato in un clima fin de siecle. Al suo posto è arrivato José Mourinho, la cui imponente ombra ha finito per oscurare tutto il resto.
Ci sono altre cose: l’inusuale presenzialismo del presidente Levy, la malinconia di Lamela, l’ossessione quasi filosofica di Alli per l’igiene dentale.
Ma All or nothing è soprattutto una serie su Mourinho, e a posteriori è strano ripensare alla microscopica presenza di Mauricio Pochettino nella prima puntata. Un insignificante prologo in cui l’argentino appare stanco e rassegnato al suo destino, mentre maneggia un pallone e parla col suo assistente con toni amari: «Tutti possono vedere una casa che cade, ma tu devi accorgertene prima che succeda». Già non sembra più l’allenatore degli Spurs. La serie presenta il suo licenziamento come inevitabile: era lui che aveva portato il club in una nuova dimensione negli ultimi anni, ma scompare in un attimo. A colazione Harry Kane dice a Vertonghen di aver parlato con Pochettino la sera prima, e che non sapeva niente del licenziamento. I due appaiono sconvolti, ma si chiude lì.
Pochettino parla poco, per molti non ama raccontarsi in generale e di certo non gli è piaciuta l’idea della serie. Con Mourinho è un’altra storia. Quando entra in scena prende l’assoluto controllo della narrazione: al punto della sua carriera, ha forse gusto a lasciarsi raccontare, ma si sarebbe fatto riprendere con questa libertà ai tempi dell’Inter o del Real Madrid, quando la sua vita sembrava quella di un agente del KGB?
Ora, bisogna ricordare che quando Mourinho si è seduto sulla panchina del Tottenham c’era un certo scetticismo. Jonathan Wilson aveva scritto «C’è qualcuno che insisterà che stiamo parlando di un vincente nato, ma c’è una crescente sensazione che la sua fine sia vicina». Sono anni che si dice che Mourinho sia nella fase discendente della sua carriera. Era stato esonerato dalle ultime due squadre allenate e ha cominciato a dare la sensazione di non essere più in perfetto controllo della situazione. La sua visione tattica pare superata: il tentativo di ignorare i principi del gioco di posizione è in aperto conflitto col calcio contemporaneo e ha dato vita a squadre aride e fragili; persino la sua capacità mistica di cementare attorno a sé un ambiente solido e impermeabile, in guerra santa col mondo, pare essere svanita. A Manchester viveva in un albergo, i suoi tifosi non gliel’hanno mai perdonato. Quando andava in conferenza non riusciva a volgere lo sguardo verso nemici esterni ma li trovava tra i propri giocatori: Martial, Rashford, Pogba, Bailly, Shaw sono stati tutti bersaglio delle sue critiche. Negli scontri fisici in campo, nelle esultanze provocatorie, nelle conferenze stampa ironiche e taglienti ha un’aria stonata e sinistra da villain. È pura energia negativa, qualcuno che costruisce la sua autorità sulla paura e non sul rispetto. Quando cammina con le mani infilate nelle sue giacche grigie pensate per i soldati della City, sembra portarsi dietro un’aura densa e oscura. La sua Londra è Gotham City, una città fatta di vicoli bui e fumanti. Al Real Madrid, al Chelsea, al Manchester United ha chiuso i suoi regni nel caos e nella discordia. I calciatori ne escono esausti, sfibrati. Rashford era così sollevato dal suo addio che è arrivato a dire che Solskjaer, il suo successore, «capisce meglio i calciatori». Un affronto supremo per uno come Mourinho, che si vanta di entrare nella testa degli uomini come un predicatore.
Anche quando è perfettamente serio e concentrato, Josè Mourinho sembra indossare una specie di sorriso alla Monnalisa. Un piccolo ghigno impercettibile. È così fin da quando era un semplice traduttore al Barcellona, aveva i capelli corvini e sembrava tramare all’ombra di tutti. La figura dell’aiutante che accumula competenze e trama nell’ombra per prepararsi alla presa del potere, il Ferraguzzo di Gormenghast. È stato così nei suoi anni al Porto e al Chelsea, quando era invincibile, l’eletto che aveva decriptato la matrice del calcio contemporaneo. Col tempo quel sorriso ha preso un velo più oscuro e sinistro. Non sembra più il ghigno di chi, per dirla con Guardiola, «sa meglio di tutti come va il mondo», ma di una persona che per qualche ragione ama vedere quel mondo bruciare.
Nella serie di Amazon questa dimensione esiste tra le righe. Levy presenta Mourinho come uno dei due migliori allenatori al mondo, senza discussioni. Un passo in avanti evidente per lo status del club, qualcuno che migliorerà tutti di semplice luce riflessa. Una cosa che si ripete spesso nella serie è che il Tottenham non vince da anni, mentre Mourinho ha vinto un trofeo in ogni squadra in cui ha allenato.
Lo vediamo disfare le scatole per arredare la scrivania. Dentro una fotografia di lui e Paulo Ferreira che alzano la Champions League; una prima pagina della Gazzetta dello Sport ai tempi dell’Inter. Il suo passato parla per lui. Per qualche ragione, tira fuori una foto autografata di Vinnie Jones, un’icona di violenza calcistica che forse è una dichiarazione d’intenti. Nelle prime conversazioni ci tiene a presentarsi come un allenatore più grande del club stesso, un uomo di successo arrivato a redimere una squadra di perdenti. Va da Davinson Sanchez e gli chiede se ha le palle (senza nessuna introduzione: «Davinson, you have balls?», poi gli ricorda che in quella finale di Europa League contro l’Ajax aveva vinto la partita al minuto UNO (sottinteso: perché lui, Mou, aveva le palle e l’Ajax no). Va da Kane e gli dice che i calciatori inglesi hanno una fama locale mentre lui ne ha una “universale” e che può quindi aiutarlo a elevare il suo status. Ci tiene subito a sminuire la stagione precedente: la finale di Champions è un grande traguardo, ma non è storia, dice. «Solo i trofei sono storia».
Come no?
In un editoriale del Guardian la calciatrice del Chelsea Eni Aluko ha scritto, riguardo l’arrivo di Mourinho, che c’è una grande differenza tra una squadra «felice di arrivare seconda e una che compete solo per il primo posto». È quel tipo di pensiero che da fuori fatichiamo ad afferrare - CHI non ama competere per il primo posto? - ma che dentro l’ambiente calcistico trattano come una verità universale. L’identità profonda del Tottenham era quella di una squadra carina e simpatica, che gioca bene e non vince niente. Persino Giorgio Chiellini qualche anno fa si era permesso di suggerire che la sconfitta faceva parte del DNA del Tottenham: «È sempre così con loro: giocano bene e segnano, ma alla fine gli manca sempre qualcosa per arrivare in fondo. È una questione di storia, e noi crediamo nella storia». Dal ’99 a oggi gli Spurs hanno vinto solo una coppa di lega.
Per quanto possa suonare fumettistico come movente della storia, assumendo Mourinho, Levy voleva trasformare il Tottenham in un club vincente, a costo di rinunciare al bel gioco e alla simpatia.
Le prime puntate sono il racconto del tentativo di Mourinho di instillare nei suoi giocatori il sacro Graal del calcio: la “mentalità vincente”. Da osservatori si può essere sorpresi che a quei livelli il calcio venga tutto ridotto a una questione di “testa”, di “motivazioni”, come nei corsi di self help. Naturalmente Mourinho è un allenatore preparato sul piano tattico e lucido nell’interpretare i problemi della squadra. È impressionante per esempio il modo in cui indovina la chiave per ribaltare la partita contro l’Olympiakos; o la freddezza con cui espone a Dele Alli i limiti del suo gioco. Eppure, guardando la serie, si ha l’impressione che queste per lui siano cose secondarie. Anche nel discorso pre-partita di Champions contro il RB Lipsia esordisce con “Innanzitutto, la mentalità”.
Nel calcio ci sono allenatori più attenti a controllare le variabili esplicite: il piano tattico e strategico di una partita, i principi di gioco, la valorizzazione tecnica dei giocatori; poi ci sono quelli che cercano di manipolare la dimensione invisibile, e che credono che l’aspetto mentale determini tutto il resto. I momenti tattici nella serie sono pochi ed essenziali, mentre è quasi nauseante la quantità di discorsi motivazionali, collettivi e individuali, quando il tecnico chiama i giocatori in colloqui privati che somigliano ai confessionali del Grande Fratello. La personalità dei giocatori del Tottenham sbiadisce di fronte al carisma di Mourinho, alle sue battute, ai suoi aneddoti simpatici, alle sue parabole morali. È una persona affascinante, ancora in qualche modo in grado di entrare nella testa dei giocatori che decidono di seguirlo. Da quando è arrivato, per esempio, Aurier e Alli hanno migliorato il loro rendimento.
Eppure tra lui e i suoi giocatori non sembra esserci la connessione profonda che si racconta sulle squadre di Mourinho. Forse sono cambiati gli esseri umani attorno a lui: Pogba, Rashford e Salah - per citare tre giocatori che non hanno funzionato ai suoi ordini - paiono persone troppo diverse da Materazzi, Lampard e Ibrahimovic, che sarebbero morti giocando per lui. Non sembrano sentirsi i discepoli di una setta segreta in lotta con le istituzioni; Mourinho ora è l’istituzione.
Dal primo giorno Mourinho si mette in testa che una squadra diventa vincente solo grazie a un’opera di corruzione morale, cambiando la natura dei giocatori da buoni a cattivi come nelle fiabe. «Siete un gruppo di bravi ragazzi, ma per 90 minuti non dovete essere simpatici. Dovete essere un mucchio di bastardi che vincono le partite». Questa è tutta l’impalcatura morale di Mourinho oggi: essere buoni = essere perdenti; essere cattivi = essere vincenti. Nei suoi discorsi le squadre avversarie giocano contro il Tottenham non per batterlo ma per togliergli l’anima, «saranno aggressivi, vi prenderanno a calci»; non vogliono mai “batterli” vogliono “ucciderli” o “fotterli” (“they gonna kill us”). L’uomo è un lupo per l’uomo ricorda ai suoi giocatori. Dopo la prima sconfitta, contro il Manchester United, il problema è che sono «un gruppo di bravi ragazzi». La soluzione che vede è una: “enraging”, essere più arrabbiati, “be bastard”. Al City invidia il fatto di essere “una squadra di stronzi” mentre loro sono una squadra di “bravi ragazzi”: «E la storia dice che le squadre di bravi ragazzi non vincono mai le partite». Poi indica ai suoi giocatori gli avversari ammoniti: «Siate degli stronzi!» gli ricorda. La squadra lo ascolta, fa espellere Zinchenko e vince.
L’idea è che per vincere bisogna per forza sporcarsi le mani, essere impuri, come per entrare in connessione col diavolo che segretamente custodisce la natura profonda del calcio. È impossibile non vedere nessun rapporto causale tra i discorsi di Mourinho e il cartellino rosso che Son rimedia contro il Chelsea per un fallo di reazione su Rudiger; oppure con la scena di Dier che sale sugli spalti per fare a botte con un tifoso del Norwich. Dier il pupillo di Mou, l’unico che aveva provato a comprare prima del Tottenham, l’unico - nelle sue parole - che “ama il conflitto”. «Tutti avremmo reagito così» lo ha difeso Mou. Non stupisce che il primo con cui se la prende è il mansueto e silenzioso Christian Eriksen, che ha il contratto in scadenza e non rientra nei suoi piani. Per Mourinho al danese manca il “push”. Muove bene la palla, migliora il gioco della squadra, ma gli manca qualcosa a livello emotivo, qualcosa che chiama “desiderio extra”.
Eriksen migliora la dinamica di gioco, ma un conto è la dinamica e un conto è il push.
Questa brutalità Mourinho ce l’ha sia quando parla dei giocatori che quando parla con loro, e questo è uno dei pregi che tutti gli riconoscono da quando allena. Il colloquio sincero con Danny Rose ne è l’esempio. Ci sono giocatori, come Frank Lampard, che raccontano di essere usciti cambiati da una conversazione con Mourinho. Lui sembra consapevole del suo potere: quando è in una stanza è uno di quegli uomini che comanda con la semplice direzione del suo sguardo.
Nella serie non è sempre così intimidatorio. A tratti invece esce fuori il suo lato più tenero e umano, nella famosa scena del cane ovviamente, quando mostra una debolezza persino eccessiva di fronte ai suoi giocatori. Ma anche quando dopo la vittoria col Southampton in FA Cup cerca di contagiare la squadra con la sua felicità.
Il più delle volte, però, Mourinho governa con la paura. Seduce gli altri mettendogli di fronte l’immagine del loro fallimento e invitandoli a scapparne. Ricorda ad Alli che il tempo vola e che rischia di vivere nei rimpianti tra qualche anno, ripensando a quello che avrebbe potuto fare e non ha fatto. Appena entrato nello spogliatoio per il discorso pre-partita contro l’Olympiakos dice a Aurier «Ti dico subito che ho paura di te», perché col VAR è sicuro che causerà un calcio di rigore. Nella sua visione «Ogni calcio di punizione contro di noi è un momento di paura che va allontanato con la concentrazione»; «Lo spirito deve essere “abbiamo perso, dobbiamo vincere”».
Nell’universo nichilista di Mourinho il calcio è paura, dolore, guerra. Una lotta perenne per non precipitare nell’abisso a cui siamo tutti destinati. In chiusura della prima puntata dice di essere ossessionato dalla vittoria, ma ancora di più dalla sconfitta. Un pensiero non lontano da quanto disse Arsene Wenger, cioè che la benzina di Mourinho fosse la paura del fallimento. Ma avrebbe parlato così anche ai tempi dell’Inter o del primo Chelsea, quando coglieva i trofei come se fossero i frutti del proprio giardino? Quando le cose gli riuscivano facili? Oppure questa versione crepuscolare di Mourinho è nata dopo aver conosciuto la sconfitta come qualcosa di vicino e possibile?
Alla fine il Tottenham ha chiuso la stagione al sesto posto, lontano 7 punti dall’obiettivo minimo stagionale, ovvero la qualificazione in Champions League. Ci sono delle attenuanti: gli infortuni innanzitutto. Uno dietro l’altro, di tutti i giocatori chiave senza eccezioni. A un certo punto della serie Son non vuole fare una radiografia che possa rischiare di tenerlo fuori dal campo, e Mourinho è d’accordo. Aveva un gomito rotto. «Abbiamo avuto episodi negativi dal primo giorno ed è impossibile che risucceda. Non c’è una possibilità che non faremo meglio il prossimo anno» ha detto il tecnico, che può vantare il quarto miglior punteggio in Premier da quando è in carica. Sarà un altro grande romanzo, quello della prossima stagione, e in effetti è un peccato non poterne avere il documentario. Ci vorrebbe una serie su Mourinho ogni anno.
Di certo ancora oggi pochi personaggi emanano il suo fascino naturale. I suoi metodi, le sue battute, le sue manipolazioni e le sue inattese fragilità dovrebbero di per sé convincervi a guardare All or nothing: quante volte avrete l’occasione di osservare il diavolo all’opera?