Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Cosa ci dicono le selezioni per l’All-Star Game 2020
05 feb 2020
I 24 All-Star di questa stagione sono stati scelti, ma che messaggio mandano alla NBA?
(articolo)
18 min
Dark mode
(ON)

È inutile girarci intorno: l’All-Star Game che si giocherà il prossimo 17 febbraio a Chicago non sarà una partita delle stelle qualunque. La tragica scomparsa di Kobe Bryant e di sua figlia Gianna, insieme ad altre sette persone, ha lasciato l’intero mondo cestistico (e non solo) in una sorta di trance. Il basket giocato ha lasciato rapidamente spazio alle lacrime e ai ricordi, e in questi giorni nessuno aveva davvero interesse per quello che succedeva sul campo.

Si è però continuato a giocare, e l’evento del weekend di San Valentino rappresenta simbolicamente il giro di boa dal quale in NBA si comincia a fare sul serio. Un evento al quale Bryant aveva partecipato per diciotto volte, solo una in meno di Kareem Abdul-Jabbar, vincendo per quattro volte il premio di MVP della sfida. Sicuramente non mancheranno le opportunità per ricordarlo da parte di tifosi, allenatori e giocatori stessi.

Per onorarlo al meglio l’NBA ha cambiato le regole della partita per omaggiare Kobe, introducendo un nuovo modo per tenere il punteggio. Ad ogni quarto si parte con entrambe le squadre a zero punti e il cronometro fissato ai canonici 12 minuti di gioco. La squadra che vince il quarto, ovvero quella che segna più punti (lo so, sembra una banalità, ma ho imparato dalle istruzioni Ikea a non saltare neanche un passaggio) decide a quale organizzazione benefica destinare una donazione di 100.000 dollari, per un totale di 300.000 dollari in tre quarti di gioco.

Dopo la fine del terzo quarto si sommano i punteggi delle due squadre nei vari parziali e si somma 24 - il numero indossato negli ultimi anni da Kobe - al numero più alto. Quello diventerà il punteggio da raggiungere, si spegne quindi il cronometro della partita e la prima squadra che arriverà a quel punteggio si aggiudicherà la vittoria. Semplice, no?

Dovrebbe essere un modo per incentivare la competitività nell’ultima frazione, come nei mitologici All-Star Game di una volta. Inoltre, quale miglior modo di dedicare la partita a Kobe se non quello di giocare come se ci fosse in ballo la propria vita? Ai giocatori quindi si chiederà anche una certa capacità di calcolo. Peccato che non ci sarà J.R. Smith.

Venerdì, intanto, sono state comunicate le 14 riserve, dopo che i dieci titolari con i loro rispettivi capitani erano già stati annunciati lo scorso 23 gennaio.

Per l’Est sono stati selezionati tra i titolari Giannis Antetokounmpo (Milwaukee Bucks), Trae Young (Atlanta Hawks), Kemba Walker (Boston Celtics), Pascal Siakam (Toronto Raptors), Joel Embiid (Philadelphia 76ers) e tra le riserve Jimmy Butler (Miami Heat), Ben Simmons (Philadelphia 76ers), Jayson Tatum (Boston Celtics), Khris Middleton (Milwaukee Bucks), Domantas Sabonis (Indiana Pacers), Bam Adebayo (Miami Heat) e Kyle Lowry (Toronto Raptors).

Per l’Ovest i titolari selezionati sono LeBron James (Los Angeles Lakers), Luka Doncic (Dallas Mavericks), Anthony Davis (Los Angeles Lakers), James Harden (Houston Rockets), Kawhi Leonard (L.A. Clippers) e tra le riserve Nikola Jokic (Denver Nuggets), Damian Lillard (Portland Trail Blazers), Russell Westbrook (Houston Rockets), Chris Paul (Oklahoma City Thunder), Rudy Gobert (Utah Jazz), Donovan Mitchell (Utah Jazz) e Brandon Ingram (New Orleans Pelicans).

I due capitani Giannis e LeBron potranno scegliere le loro squadre pescando a turno tra tutti i giocatori senza restrizioni di ruolo o conference, dividendo solo tra il primo giro (quello dei titolari in cui la prima parola spetta a James) e il secondo delle riserve (in cui a scegliere però primo sarà l’MVP in carica).

La prima volta di Luka e Trae

Ormai legati da un destino indissolubile che li tiene insieme sin dalla notte del Draft, nella quale furono scambiati l’uno per l’altro da Dallas e Atlanta con in mezzo la scelta diventata Cam Reddish, Luka Doncic e Trae Young sembrano non poter più fare a meno l’uno per l’altro. Infatti entrambi giocheranno il loro primo All-Star Game ed entrambi sono tra i titolari scelti da tifosi, media e giocatori. Per una volta però, grazie alla particolare formula della manifestazione, potrebbero giocare nella stessa squadra, il che sarebbe un glitch nella narrazione che li vede rivali per una semplice casualità. Da quando sono entrati in NBA le loro carriere sono state messe costantemente in confronto, come se dal successo di una dovesse fare da contraltare il fallimento dell’altra. Invece sia Luka che Trae si sono guadagnati una maglia nella partita più spettacolare dell’anno grazie ad un secondo anno per entrambi magico.

Su Doncic c’è davvero poco da aggiungere alla miriade di post e statistiche dedicate al prodigio di Lubiana, che sta scrivendo partita dopo partita la miglior stagione di sempre di un ventenne in NBA. È il sesto miglior marcatore (28.8 punti) il terzo miglior passatore (8.7 assist) e il ventunesimo, forse il dato più inaspettato, per rimbalzi a partita (9.5) della lega quest’anno. I Dallas Mavericks sono la sorpresa di stagione e con un record di 31 vittorie e 19 sconfitte, prenotando fin da novembre un posto nei playoff. Hanno il miglior attacco in NBA (116 di rating offensivo) e quando Doncic si accende danno l’impressione di poter battere chiunque. La presenza di Luka in quintetto non è mai stata in discussione, avendo davanti solo sua maestà LeBron James nelle preferenze dei fan, mentre è stata sicuramente più inaspettata quella di Trae Young nella Eastern Conference.

Doncic nella prima partita dopo la scomparsa di Kobe.

Il playmaker di Atlanta infatti non può vantare gli stessi risultati di squadra dello sloveno, anzi. Gli Hawks hanno il secondo peggior record della lega, dietro solo alla formazione G-League dei Golden State Warriors. Non che Atlanta brilli di talento NBA: la costruzione del roster in mano al GM Travis Schlenk è più indietro del previsto, tanto da portare la proprietà ad accelerare i tempi sondando il mercato delle trade. Young è forse il miglior attaccante di sempre a giocare in un attacco così mediocre. Infatti nonostante Trae sia il quinto miglior realizzatore in NBA (quasi 30 punti a partita con il 60% di TS a cui vanno aggiunte nove assistenze), gli Hawks sono il peggior attacco della lega secondo solo, ancora una volta, agli Warriors.

A Trae non si può però imputare di non provarci: quando lui è in campo il rating offensivo degli Hawks è di 109.6 (buono per il 17° posto stagionale, quello occupato dai New Orleans Pelicans), ma quando è fuori dal parquet Atlanta precipita a 91.8. Young è l’alfa e l’omega dell’attacco, essendo il giocatore che tiene in mano la palla per più tempo in assoluto in NBA, e tutte le scelte nella metà campo offensiva passano attraverso i suoi polpastrelli visto che manca un ulteriore playmaker secondario in squadra. Si può quindi rinchiudere il folletto da Oklahoma nella gabbia del giocatore tutto fumo e niente arrosto?

Con Trae sicuramente il fumo lo stiamo vedendo, è quello della scia che lasciano i fuochi artificiali che accende spesso e volentieri sul parquet di gioco. Young è uno degli spettacoli più divertenti che potete godervi all’interno di una partita NBA della stagione 2019-20. È un virtuoso del pallone da basket, un giocoliere prestato alla competizione sportiva. Distraetevi un istante e vi perderete un tunnel al diretto avversario, un passaggio laser da una parte all’altra del campo o, ancora peggio, il suo marchio di fabbrica, la tripla dal logo. Trae Young vale il prezzo del biglietto, nonostante i deludenti risultati di squadra, ed un giocatore del genere è nato per sguazzare nel contesto spettacolare e non agonistico dell’All-Star Game. Escluderlo sarebbe stato davvero un crimine contro la bellezza pura del gioco. Stiamo sempre parlando di un’esibizione per i fan, chi vuol vedere una rotazione difensiva ben eseguita al posto di un tunnel con conseguente tripla da centrocampo?

Inoltre nel ruolo definito come guardie la competizione non era così serrata. Accanto a Kemba il posto poteva essere occupato da Simmons, Beal o Lowry. Il playmaker atipico di Philadelphia è statisticamente un giocatore più completo e vincente, ma si porta dietro una narrazione tossica incentrata solo sulla sua nota afasia al tiro; Beal è un giocatore superiore che però questa stagione non ha fatto vedere il suo lato migliore, frenato da alcuni acciacchi fisici e una squadra non competitiva (rimanendo anche fuori dalle convocazioni delle riserve); Lowry ha perso delle partite per infortunio e il suo gioco solido passa spesso sotto traccia; Irving è stato quasi sempre infortunato.

Young è la scelta più vicina ai gusti del pubblico generalista, e in fin dei conti, la scelta più giusta. Ma se il cliente ha sempre ragione, questo non significa che l’All-Star Trae non possa essere esente da critiche. Young è un serio problema nella metà campo difensiva, dove è tranquillamente il peggior giocatore in NBA in questo momento. I limiti fisici sono evidenti e ancora non ha imparato come per lo meno rendersi utile senza far ulteriori danni. E per quanto le line-up senza di lui in campo in attacco sono da mal di testa, anche con la sua presenza non salgono verso la sufficienza. Ma rubando le parole ad un eccellente motivatore, sicuramente più convincente di me, non è questo il giorno per certi discorsi.

Trae Young ha festeggiato la prima convocazione all'All-Star Game facendo a fette la difesa dei Sixers.

I debuttanti

Era dal 2010 che non si vedevano così tante facce nuove ad un ASG, quando però servirono due riserve subentrate per infortunio per avere dieci debuttanti in campo. Esattamente dieci anni dopo l’NBA si rinnova con nove giocatori che per la prima volta riceveranno l’investitura di All-Star, un ricambio prevedibile viste le assenze di habitué come Curry, Durant, Thompson e la stagione con più bassi che alti di Irving a Brooklyn. Mai come quest’anno la competizione era aperta a tutti prima che il prossimo anno con il ritorno delle suddette superstar e l’arrivo del nuovo gruppo di fenomeni guidato da Zion Williamson e Ja Morant restringa nuovamente i portoni d’ingresso.

È anche l’anno nel quale per la prima volta dinastie come i Golden State Warriors e i San Antonio Spurs non riescono a piazzare neanche un giocatore tra i ventiquattro selezionati: non succedeva rispettivamente dal 2011-12 e dal 1997-98.

A beneficiarne sono stati soprattutto gli Utah Jazz, che dopo anni di cocenti delusioni possono finalmente godersi non uno, ma ben due All-Star. La franchigia di Salt Lake City è al momento al quarto posto ad Ovest, a una sola partita dal secondo posto. Un record che, Manuale Cencelli delle votazioni alla mano, vale due inviti alla serata più glamour della stagione. I due in smoking per i Jazz saranno Donovan Mitchell e Rudy Gobert, partner di uno degli assi play-pivot più efficaci della lega. Solo Young, Doncic e Lillard realizzano più punti di Mitchell da situazioni di pick & roll (tra i giocatori con più di 10 possessi a partita) e Gobert, oltre ad essere il due volte Difensore dell’Anno, è uno dei bloccanti più sapienti in NBA, tanto da guidare la statistica ora molto à la page degli screen assist (7.6 a partita).

L’altra faccia fresca ad Ovest, oltre a Doncic di cui abbiamo già discusso prima, è quella sonnacchiosa di Brandon Ingram. In pochi si sarebbero aspettati l’estate scorsa che la seconda scelta assoluta del Draft 2016 avrebbe effettuato finalmente il salto di qualità verso lo stardom NBA, ma Ingram ha fatto suo l’interregno tra la dipartita di Anthony Davis e l’arrivo di Zion Williamson, sfruttando al massimo una squadra alla ricerca di un leader. Ingram è sempre più a suo agio con la palla in mano, gestendo i vari pick & roll con letture avanzate e una sviluppata sensibilità nel trovare la via del canestro e il contatto per andare in lunetta. Ma il vero miglioramento è arrivato da dietro l’arco, dove è passato dal 33% con meno di due tentativi a partita al 40% con oltre sei tentativi a partita. Ora dovrà dimostrare di essere qualcosa in più di un accumulatore seriale di statistiche in una squadra perdente (ha il secondo peggior plus minus di squadra tra i giocatori di rotazione) e di saper coesistere con Zion Williamson, la prossima superstar designata dei Pelicans. Se pensiamo però che solo sette mesi fa Ingram sembrava sul punto di smettere con il basket per dei coaguli di sangue nei polmoni, la sua presenza a Chicago è già un risultato straordinario e una bellissima storia.

Un ricambio più consistente è avvenuto nella selezione della costa Est, dove Jayson Tatum, Trae Young, Pascal Siakam, Bam Adebayo e Domantas Sabonis sono tutti alla prima esperienza all’All-Star Game. Su Trae ci siamo già dilungati nel paragrafo precedente, su Siakam invece c’è poco da discutere. Il camerunense dei Toronto Raptors ha iniziato la stagione come un uomo in missione - e non stiamo parlando di istituti religiosi - prima che gli infortuni rallentassero la sua marcia. A gennaio sta recuperando la forma migliore, come testimoniano i 30 punti prima dell’intervallo contro gli Spurs, pronto a lanciare lo sprint per la seconda piazza ad Est dietro Milwaukee.

Toronto ha una partita e mezzo di vantaggio su Boston e Miami, che verranno rappresentate a Chicago rispettivamente da Kemba Walker e Jayson Tatum e Jimmy Butler e Bam Adebayo. Kemba è la migliore point guard della Conference per consistenza e leadership, si è dimostrato un upgrade rispetto a Irving specialmente nei modi di guidare una squadra giovane e talentuosa. Butler probabilmente sarebbe stato un titolare se l’NBA non avesse deciso di etichettarlo da ala invece che da guardia, il ruolo che sta occupando con più frequenza numeri alla mano.

Nella gara interna tra Tatum e Brown per il secondo invito alla fine l’ha spuntata l’ex Duke, un giocatore forse più bello esteticamente rispetto al suo compagno di squadra, nonostante entrambi siano vitali nel funzionamento del sistema di Stevens. Tatum è uno degli esterni più puliti e raffinati in attacco dell’intera lega, ha un jumper soffice e vellutato che parte talmente in alto da essere incontestabile. A volte però la sua classe cristallina non tiene conto dei freddi numeri: Tatum sta vivendo la peggior stagione al tiro della sua giovane carriera (43.6% dal campo e 37% da tre) con il 54.4 di percentuale reale, due punti sotto la media della lega. Allo stesso tempo sta diventando un eccellente difensore sia di squadra che sul proprio uomo: la sua mobilità e le braccia lunghissime lo rendono un costante pericolo per la circolazione di palla avversaria. Forza 1.4 perse per partita, numeri che potrebbero tranquillamente gonfiarsi se fosse più audace nel cercare la palla, invece che rimanere disciplinato.

https://twitter.com/NBCSCeltics/status/1222194903112912900

Tatum è uno dei tanti giocatori cresciuti imitando Kobe in ogni aspetto del proprio gioco fino a riuscire ad allenarsi con lui durante l'off-season.

Il suo valore sui due lati del campo lo rende imprescindibile per Boston e, nonostante le percentuali non siano dalla sua parte, la gravità che imprime sulle difese avversarie è fondamentale nell’attacco disegnato da Stevens. Anche senza essere straordinariamente efficiente al tiro è terzo in Adjusted Plus Minus e quinto in Real Plus Minus, a dimostrazione di quanto stia diventando un giocatore più completo di quanto ci saremmo aspettati dopo la sua stagione da rookie.

Bam Adebayo invece non era minimamente vicino ad essere un All-Star nella sua prima stagione NBA, quando doveva limitarsi a correre da una riga di fondo all’altra, prendere tutti i rimbalzi a disposizione e schiacciare la palla più forte possibile nel canestro. D’altronde quello era il senso del suo soprannome - Bam - come il rumore che facevano i ferri. In tre anni, grazie all’enorme lavoro del coaching staff dei Miami Heat, si è trasformato in uno dei giocatori più affascinanti della lega: un lungo dinamico e moderno attraverso il quale far girare sia la fase difensiva che quella offensiva. È un inno al multitasking e al programma di sviluppo giocatori degli Heat.

La candidatura di Domantas Sabonis è piacevole quanto indiscutibile. Il figlio di Arvydas è stato il miglior giocatore dei Pacers in questa prima parte di stagione di lunga attesa ad Oladipo, e la sua sua crescita esponenziale è stata una delle chiavi dell’ottimo record di Indiana (31-19). È la prima risorsa in attacco, sia in post che nei giochi a due, un sottovalutato difensore e guida la squadra in plus/minus. Se proprio non vi fidate dei numeri - che dicono che Sabonis è la terza ala grande per vittorie aggiunte in NBA dopo Giannis e Tatum - almeno vedetevi una partita dei Pacers.

Gli snobbati

Come ogni anno qualcuno rimane fuori dai ventiquattro e come ogni anno non mancano le polemiche, come se queste fossero le votazioni serie quest’anno in America. Chi si sente defraudato dall’urna esprime la propria contrarietà sui social e attraverso i propri agenti, con modalità che sfiorano il ridicolo. Karl-Anthony Towns ha affermato che non si sente rispettato dalla lega - ma ormai se n'è fatto una ragione e l'esclusione non lo infastidisce più di tanto - come si nota benissimo dal comunicato scritto con lo schermo zuppo di lacrime. Lui stesso ammette che la legacy di un campione si definisce quando le partite contano davvero, cioè ai playoff. Minnesota è penultima ad Ovest al momento. Devin Booker invece ha accusato l'NBA di essere una lega politica e di non essere più quella della quale si era innamorato da ragazzo. Devin Booker è nato nel 1996.

Al netto delle battute, loro due sono sicuramente tra gli esclusi eccellenti di questa annata. Ma con una lega così ricca di talento a qualcuno tocca rimanere fuori, imparando a gestire meglio la delusione. Magari aspettando che gli infortuni aprano nuovi posti per Chicago.

Kyrie Irving e Paul George hanno giocato troppo poco per essere presi davvero in considerazione, togliendo magari un posto a chi si è sceso in campo ogni singola notte. Anche KAT ha saltato un numero di partite troppo elevato (17 su 49) per meritarsi un invito all’All-Star Game, anche perché nel frattempo i Timberwolves sono una delle squadre più deprimenti della Lega.

A Chicago speravano che l’aria di casa avrebbe aiutato la candidatura di Zach LaVine, concedendo ad almeno un giocatore dei Bulls di fare gli onori di casa. Invece la disastrosa stagione dei tori ha reso inutili i volumi di gioco di LaVine (30.8% di Usage, 98° percentile) e i suoi 25 punti di media. LaVine è un talento esasperante, un realizzatore capace di segnare con frustrante semplicità quanto di gettare al vento possessi su possessi con scelte confuse, tiri presi senza pensare e una scarsa propensione al passaggio (1.30 di Ast/TO Ratio).

Non c’è un reale motivo per portare LaVine all’All-Star Game oltre al fatto che non inquinerebbe per arrivare allo United Center. Se dovessimo scegliere in base ai tabellini, Bradley Beal è un attaccante più raffinato e completo di LaVine e i suoi numeri sono lievemente migliori rispetto al giocatore dei Bulls, nonostante Beal abbia avuto anche lui la sua dose di problemi fisici. Poi, non so se ve siete accorti, ma gli Wizards sono a solo una partita e mezzo di distacco da Chicago: questo dice più sui Bulls di Boylen che sulla franchigia della Capitale.

Jaylen Brown è più concreto, efficiente e vincente di entrambi, ma è forse penalizzato di giocare in una squadra ben più funzionale insieme ad altri All-Stars. È infatti difficile scegliere Brown sopra Walker e Tatum, come già detto sopra. Brown finora sta dimostrando di meritare i soldi del suo nuovo contratto segnando oltre 20 punti di media con il 60% di percentuale reale, oltre alla solita difesa di alto livello sugli esterni avversari e qualche scintilla di playmaking. È forse il giocatore che ha maggiormente beneficiato del nuovo corso dei Celtics e dovrebbe concorrere per il premio di Giocatore più Migliorato. Non è ancora un All-Star però, Tatum è nonostante tutto più importante negli equilibri di Boston in questa stagione.

Alla fine tutte le scelte nella selezione della Eastern Conference sono condivisibili, o, al limite accettabili. L’unica vera contestazione al convulso e mai limpido processo di selezione per l’All-Star Game è aver preferito Russell Westbrook a Devin Booker. Alla fine, per come è divisa per ruoli la griglia di selezione, è stato proprio Russ a togliere il primo All-Star Game alla stella dei Suns.

Anche Booker era uno dei giovani cresciuti nel mito di Kobe, a stento riesce a trattenere le lacrime.

Personalmente avrei inserito Booker. La stagione dei Suns non è proseguita sull’arcobaleno delle prime partite nelle quali sembravano davvero pronti per competere per i playoff. Ora sono undicesimi a tre partite e mezzo dai Grizzlies ottavi - nulla di compromesso, certo - ma la sensazione è che la squadra di Monty Williams nel suo complesso non abbia davvero svoltato. Booker ha alzato nuovamente il suo livello, dimostrando di essere uno degli attaccanti migliori della lega grazie alla sua pericolosità su tre livelli: tira con il 71% al ferro, il 47% dal midrange e il 37% da tre, oltre ad assistere più di sei canestri dei compagni di squadra. Se i Suns ora non sono una squadra sopra il 50% di vittorie non è colpa sua come non è colpa di Young per Atlanta o Ingram per New Orleans. Quest’anno sono stati premiati tante ottime stagioni individuali, specie ad Ovest, rispetto ai record complessivi. Tante, ma non quella di Devin Booker. Lui e Beal saranno i primi due giocatori negli ultimi 35 anni a non partecipare ad un All-Star Game pur segnando oltre 27 punti di media.

Al posto del giovane Booker l’ha spuntata il veterano Russ, alla nona partecipazione. Dopo un inizio burrascoso della sua esperienza a Houston, Westbrook nel 2020 ha invertito il trend, trascinando i Rockets durante un tremendo slump di James Harden. A Gennaio Westbrook ha tenuto medie spaventose: 32.6 punti, 8.5 rimbalzi e 8.1 assist. Non sono bastati per chiudere il mese in positivo però, con i Rockets che stanno perdendo terreno nella corsa all’Ovest. Rimangono infatti molti dubbi sul fit con Harden e le prime partite con la nuova maglia sono state agghiaccianti. Anche in questo nuovo anno Westbrook sta tirando un misero 26% da tre, ma almeno ha capito che deve abbassare il suo volume da dietro l’arco ed attaccare costantemente il ferro per punire i raddoppi su Harden.

Ma queste sono preoccupazioni per una serie di playoff, non per uno spettacolo. È bastato un mese vintage a Westbrook per convincere giornalisti, allenatori e giocatori che hanno alla fine preferito il boomer a Booker.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura