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Il weekend in cui è rinato l’All-Star Game
17 feb 2020
Forse il 2020 può essere il punto di svolta per un evento che aveva perso di interesse.
(articolo)
13 min
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L’All-Star Weekend nel 2020 è diventato un appuntamento strano. È inutile negare come negli ultimi anni l’interesse per la gara delle stelle sia andato scemando, cristallizzato dentro un format che fatica a incontrare i gusti del pubblico. Quello generalista non si riconosce in uno spettacolo che ormai viene stereotipizzato come fine a se stesso, dove la competizione scarseggia e abbondano invece i sorrisi e i selfie; quello più competente si annoia dentro un gioco casuale, troppo sfilacciato e con troppo poco basket dentro per essere divertente. O almeno così sembrava prima di questa notte.

L’All-Star Game - come i New York Knicks - non è più un brand che tira, si diceva: ha subìto la flessione che caratterizza ogni manifestazione dedicata all’autocelebrazione, dagli Oscar a Kanye West. Il fine settimana che simbolicamente separa le due metà della stagione regolare è diventato, per stessa esplicita ammissione di diversi giocatori, un breve intermezzo per ricaricare le batterie prima di lanciarsi nella corsa che porta ai playoff. Chi non viene selezionato nelle squadre o invitato nelle varie competizioni laterali, dopo essersene lamentato sui social o a mezzo stampa, solitamente prenota una Smartbox relax in qualche paradiso caraibico. O c’è chi, come Nicolò Melli, che ha dovuto rimandare il giro alle Bahamas dopo essere stato chiamato a giocare il Rising Stars ai -20 gradi centigradi di Chicago.

O chi, come noi, scopre che esiste un mondo oltre il basket. Io ad esempio per aspettare che iniziasse la sfida tra gli USA e il resto del mondo mi sono visto tutta la nuova serie tratta da Alta Fedeltà, quindi vi avverto subito che il pezzo sarà pieno di liste. Ma cominciamo.

Il talento superiore di Team USA nel Rising Stars

Tralasciando il Celebrity Game, di cui ricorderemo solo il tecnico preso da coach Stephen A. Smith per proteste, la prima esibizione dell’All-Star Game è stato il Rising Stars, ovvero la partita tra i giocatori ai primi due anni in NBA. La formula ormai collaudata è quella di USA vs Resto del Mondo, giustificata dalle quantità di giovani di talento che entrano ogni anno nel Draft. Gli USA hanno un bacino più ampio dal quale pescare, mentre di solito gli internazionali hanno talento meno diffuso ma con punte di maggior qualità. Solo che su un campione molto ristretto la varianza si fa sentire, come dimostra questa partita. I padroni di casa hanno potuto schierare Zion Williamson, Ja Morant e Trae Young, tre futuri dominatori della lega, ma a inclinare la partita dalla loro parte sono state soprattutto le riserve nel secondo tempo.

Tra chi aveva bisogno della Green Card per scendere in campo, solo Luka Doncic poteva contare di uno star power simile (ok, forse anche più alto) con le onorevoli menzioni della terza scelta assoluta dello scorso Draft R.J. Barrett e i suoi connazionali canadesi Shai-Gilgeous Alexander, Brandon Clarke e Nickeil Alexander-Walker. Poi, come spesso succede, i giocatori più attesi non sono i migliori in campo, dove invece cerca di mettersi in mostra chi sta trovando meno spazio durante la stagione regolare. Così l’MVP di una partita dominata dagli statunitensi nel secondo tempo è stato Miles Bridges, un po’ dimenticato nel cantiere di Charlotte, autore di 20 punti, 5 assist, 5 rimbalzi e tre rubate. È stato lui ad innescare il parziale con il quale Team USA ha spaccato la partita a metà del terzo quarto, recuperando velocemente i 10 punti di svantaggio e issandosi sopra in doppia cifra, margine che poi è andato solo allargandosi nel corso dell’ultimo periodo di gioco. Il miglior realizzatore è stato però Barrett, abituato ormai a mettere su statistiche vuote in una squadra perdente. Tutto sommato la serata del venerdì durante l’All-Star Weekend si può anche passare facendo altro.

Zion non ha giocato tanto ma è comunque riuscito a piegare un canestro.

Le mie cinque proposte per rendere il Rising Star Challenge un'opzione per il vostro venerdì sera:

5) Far allenare Stephen A. Smith;

4) Far arbitrare Stephen A. Smith;

3) Mettere in palio una falsa carta d’identità per la squadra vincente, così che possano festeggiare comprando una bottiglia di Hennessy;

2) Sostituire l’ultimo quarto con una Battle Royale di Fortnite;

1) Far giocare Stephen A. Smith.


Skills Challenge

Il Sabato è invece dedicato alle competizioni individuali, dove vengono messe a confronto le abilità specifiche dei singoli giocatori in gesti ben definiti, come il tiro da tre punti o le schiacciate. Poi c’è lo Skills Challenge, una specie di circuito di agility dog ma più noioso, nel quale i giocatori devono compiere un percorso atto a dimostrare la loro versatilità. Si è anche cercato di dividere i concorrenti in esterni e lunghi, per aumentare il coefficiente competitivo, dobbiamo dire con scarsi risultati perché alla fine vincono spesso i lunghi. Quest’anno infatti ha trionfato Bam Adebayo battendo in finale Domantas Sabonis. Lo Skills Challenge è quindi una competizione anti-nostalgica? Non lo so, ma ho delle soluzioni per migliorarlo.

La grande vittoria di Adebayo e degli allenatori di Miami.

La mia personale Top-5 per migliorare lo Skills Challenge:

5) È regolare provare ad intercettare con il proprio pallone i tiri dell’avversario quando questo è in vantaggio;

4) i concorrenti devono competere vestiti in abiti civili, per aumentare lo swag in campo;

3) l’intera competizione si svolge su un campo saponato (opzione che forse troverà qualche resistenza da parte del Front Office delle squadre con giocatori impegnati in gara);

2) i concorrenti devono affrontare tutto il percorso usando solo la mano debole;

1) i concorrenti devono affrontare tutto il percorso con al guinzaglio un barboncino da concorso.


L’ultima tripla di Buddy Hield

Così come il tiro da tre ha rovinato l’NBA giocata, ha rovinato anche l’All-Star Saturday perchè una competizione secondaria ora oscura anche il prestigio della gara delle schiacciate. Negli anni hanno alzato il trofeo giocatori sempre più importanti rispetto ai classici specialisti che hanno imperversato per almeno due decenni. Negli ultimi anni hanno scritto il proprio nome nell’albo d’oro fuoriclasse come Steph Curry, Klay Thompson e Devin Booker. Sabato è toccato a Buddy Hield, appena dopo aver fatto capire tra le righe di volersene andare da Sacramento. Il bahamense ha superato proprio Booker all’ultimo tiro con una rimonta eccezionale, mettendo a bersaglio 12 degli ultimi 15 palloni disponibili. Con tutto il talento in campo, i finali infuocati e le prestazioni balistiche sempre più vicine alla perfezione, la gara dei tre punti è diventata la regina del sabato sera. Ma sarà sempre così? Siamo più affascinati dalla ripetizione del gesto piuttosto che dall’eccezionalità che trascende le leggi della fisica? Stiamo diventando tutti dei robot che pretendono la piena automazione? Non vogliamo una competizione giudicata da Dwyane Wade?

L'ultimo strepitoso turno di Hield, che vince anche senza segnare nessuno dei due tiri bonus.

La mia personale Top-5 di soluzioni luddiste per peggiorare la Gara dei tre punti:

5) ad ogni tiro segnato il concorrente deve bere uno shottino di Hennessy;

4) almeno un carrello dev’essere tirato mentre si è bendati (da sommare al punto 5);

3) i nuovi tiri da 9 metri introdotti in questa edizione devono essere tirati lanciando la palla dal basso verso l’alto come Rick Barry;

2) almeno un carrello dev’essere tirato con l’aiuto di un drone telecomandato;

1) Dwyane Wade decide chi vince scegliendo un criterio che solo lui conosce.


Il grande complotto della gara delle schiacciate

Eccoci arrivati alla gare più controversa del decennio, quella che ci fa misurare con i limiti del giudizio altrui, che ci espone al complottismo più terrapiattista, che dovrebbe porre un freno alla voglia di Dwight Howard di piacere a tutti. Ha fine ha trionfato Derrick Jones Jr., almeno secondo il voto dei grandi elettori, mentre Aaron Gordon ha dalla sua il voto popolare per la seconda volta dopo il 2016. Una situazione incresciosa, che dovrebbe spingere Adam Silver a rivedere il Gerrymandering delle palette date ai giudici o almeno limitare per quanto sia possibile i conflitti d’interesse.

Le schiacciate perfette secondo la giuria designata.

Con il punteggio in perfetta parità e ormai ampiamente nel tempo di recupero, Jones si esibisce nella sesta schiacciata della propria gara. Ormai le idee sono poche, le gambe scariche ma Airplane Mode - il soprannome con il quale si fa chiamare Derrick Jones per chi non lo sapesse - riesce ugualmente a chiudere un windmill partendo un passo dopo la linea del tiro libero con una forza e una velocità abbagliante. I giudici decidono per un complessivo 48 di punteggio che toccherà ad Aaron Gordon di superare. Il giocatore dei Magic fa alzare dalla prima fila Tacko Fall, il grattacielo di 228 centimetri che gioca saltuariamente nei Boston Celtics, lo piazza sotto il canestro e gli salta sopra, schiacciando la palla nel canestro nell’operazione.

Il pubblico impazzisce, gli altri giocatori sbloccano velocissimamente la fotocamera del proprio cellulare, la gara sembra essere finita. Nessuno può saltare più in alto delle spalle di Tacko Fall, un giocatore che è la versione NBA di Vincent Adultman. La gara è davvero finita, però non come tutti pensavano. Infatti dopo secondi di interminabile suspance, compare finalmente il punteggio sullo schermo: 47, due 10 e tre 9. Uno in meno di Jones che si laurea a sorpresa campione.

Il minuto dopo parte subito la caccia al cospiratore ed è bastato vedere dove guardavano gli altri quattro giudici per trovare il colpevole. Wade se la rideva prima ancora che il punteggio fosse comparso sul maxischermo, senza neanche di salvare la faccia del suo cuore Heat. Gordon non la prende bene, minaccia il ricalcolo dei voti e annuncia che non gareggerà mai più al Dunk Contest ma proverà con la Gara dei tre punti. Anche lui.

Top-5 delle schiacciate del Dunk Contest secondo la mia personale ed ineccepibile opinione:

5) Pat Connaughton saltando Giannis e appoggiando la palla sul tabellone;

4) La reverse tornato di Derrick Jones Jr. passando la palla in mezzo alle gambe;

3) Aaron Gordon saltando Chance The Rapper da sinistra verso destra;

2) Derrick Jones Jr. prendendo la palla di rimbalzo sul tabellone, saltando sopra un tipo in felpa tie-dye e facendosi passare la palla sotto le gambe.

1) Aaron Gordon 360 ad una mano sulla linea di fondo dopo l’appoggio allo spigolo del tabellone di Markelle Fultz.


Un All-Star Game dominato dalle difese

Ma eccoci arrivati a questa notte, alla portata principale, alla gara tra i 24 teorici migliori giocatori della lega. Se negli ultimi anni la mancanza di agonismo e competizione ha fatto calare l’interesse verso l’All-Star Game, la partita di stanotte ha rimesso le cose per il verso giusto. È stato infatti uno degli ASG più belli ed appassionanti degli ultimi anni, aiutato anche dal nuovo formato dell’Elam Ending adattato per onorare la memoria di Kobe Bryant e sua figlia Gianna. Un’idea nata nel 2007 da Nick Elam - ora professore alla Università di Ball State e ai tempi solo studente - che consiste nell’eliminare il cronometro dell’ultimo quarto e sostituirlo con un punteggio da raggiungere, detto “target score”. Alla fine dei tre quarti di gioco, con il Team di Giannis avanti 132-124, sono stati aggiunti 24 punti al punteggio più alto e quello è diventato l’obiettivo da raggiungere per entrambe le squadre, quindi 157. Una sfida a tempo è diventata quindi una sfida a punti, un po’ come in un campetto di cemento se per caso si incontrassero i migliori giocatori al mondo.

Una formula innovativa che ha aumentato la competizione anche grazie alla complicità dei giocatori, trasformando gli ultimi minuti di gioco in una partita di playoff per intensità e qualità delle giocate nella quale alla fine ha prevalso l’esperienza e il talento del team di LeBron James. Con la squadra capitanata da Antetokounmpo che entrava in vantaggio nel rettilineo finale, è servita una prestazione di nervi e classe dei veterani, che non hanno mancato l’appello. Ma riviviamo tutto con ordine.

Il primo quarto è scivolato via veloce e piacevole come in ogni All-Star Game canonico, con la squadra di LeBron che ha messo a tabellone 53 punti grazie alla vena realizzativa di Kawhi Leonard da fuori e Anthony Davis sotto canestro. Nel secondo è arrivata la risposta del team di Giannis grazie specialmente ai punti del capitano, e la tripla da metà campo di Trae Young che ha mandato i suoi in vantaggio all’intervallo. Il terzo quarto è molto più tirato e si è chiuso in perfetto equilibrio grazie alla schiacciata sulla sirena di Rudy Gobert. Quindi il cronometro è stato spento, è stato fissato il punteggio da raggiungere e si è cominciato a giocare per davvero.

Il quarto finale giocato secondo le nuove regole Elam.

Inizialmente le squadre si sono scambiate canestri con regolare semplicità; poi, con l’avvicinarsi del traguardo, il parquet ha cominciato a farsi paludoso. I tempi si sono dilatati, nessuno è più scappato via in transizione; ogni tiro andava procacciato cercando l’accoppiamento favorevole, ogni rimbalzo contestato alla faccia dei mismatch. Quando mancavano 15 punti per la squadra in vantaggio, Nick Nurse e Frank Vogel hanno messo in campo i loro veterani per chiudere la partita. Ed entrambi hanno sostituito i titolari votati dal pubblico, Trae Young e Luka Doncic, con i più esperti Kyle Lowry e Chris Paul. Come si dice: l’attacco vende i biglietti ma l’esperienza vince gli All-Star Game, o qualcosa del genere.

Con i tempi dilatati e con la stanchezza di un ultimo quarto senza pause pubblicitarie, all’improvviso nessuno ha più fatto canestro, con le difese che sono salite di due o tre livelli. Se nei primi tre quarti la percentuale di canestri segnati era sopra il 55%, nell’Elam è crollata al 35% con più palle perse che assist. Dentro allo United Center è cominciato a mancare l’ossigeno, con giocate che non avremmo mai osato chiedere in un All-Star Game: rotazioni difensive, stoppate in aiuto, tentativi (riusciti!) di prendere sfondamento. I veterani hanno quindi cercato di conquistare tiri liberi con tutti i mezzucci possibili, mentre gli arbitri inflessibili hanno mantenuto una linea da playoff, venendo costretti a controllare due chiamate con i Challenge per una stoppata di Giannis su LeBron e un fallo su Embiid. Alla fine, dopo che per varie volte Team LeBron aveva fallito l’appuntamento col game-winner, James ha pescato Anthony Davis in post mentre lottava per la posizione in pitturato con Lowry, costretto a tirarlo giù e a fare fallo per evitare un canestro sicuro.

Un finale adeguato, con Davis che non ha urlato “Confidence, baby, confidence” come Rolando Blackman durante i tiri liberi decisivi dell’All-Star Game del 1987, ma che ha chiuso con il secondo libero a disposizione un grande All-Star Game, in grado incredibilmente di mettere d’accordo tutti: giocatori in campo, pubblico a casa e addetti ai lavori. C’è però chi non ci sta. Per Kyle Lowry, che ovviamente non ama perdere, bisogna cambiare la regola per far decidere le partite con un canestro e non con un libero. Si vedrà, anche perché quando ci si accorge che le regole di uno sport non sono invenzioni della natura ma sono prodotte dalla cultura, si aprono le porte del cambiamento.

Non sappiamo quanto questa partita impatterà sulle future scelte della NBA, dal formato dei playoff al tanto chiacchierato torneo di metà stagione. Siamo però sicuri che l’All-Star Game abbia ritrovato il senso che sembrava aver smarrito. Nonostante nel periodo finale ci siano state solamente tre schiacciate dopo le 49 nei primi tre periodi, gli ultimi minuti sono stati più palpitanti di Uncut Gems. Alla fine lo sport è un sottile equilibrio di spettacolo e competizione, e questo fine settimana a Chicago ha raggiunto entrambi.

La mia personale Top-5 dell'All-Star Game:

5) Il passaggio dietro la testa di Tatum per Simmons;

4) il tunnel di Trae Young a Harden;

3) le stoppate di Giannis su LeBron, più la seconda ma anche la prima va bene uguale;

2) LeBron che tratta Harden come J.R. Smith dopo che non ha tirato da solo sotto il canestro;

1) La faccia di Kyle Lowry dopo aver causato un qualsiasi fallo in attacco.


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