Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Alla ricerca del franchise player
28 mag 2015
Sam Hinkie sta rivoluzionando il ruolo di GM in NBA, distruggendo quanto costruito ai Philadelphia 76ers. Il motivo? Ricostruire meglio.
(articolo)
10 min
Dark mode
(ON)

Estate 2012.

Gli Houston Rockets e i Philadelphia 76ers si avvicinano alla offseason in situazioni tecnico-salariali simili, ma con prospettive diametralmente opposte.

La squadra texana ha chiuso al nono posto nella classifica della Western Conference per la terza stagione consecutiva, mancando la qualificazione ai Playoffs nonostante un record positivo—42-40 nel 2010, 43-39 nel 2011 e 34-32 nel 2012 (66 partite causa lockout). Il General Manager Daryl Morey e il suo fido assistente Sam Hinkie prendono atto dell’impossibilità di migliorare la squadra mantenendone intatto il nucleo e decidono di dare il via a un profondo restyling: Kyle Lowry, Goran Dragic, Courtney Lee, Chase Budinger e Luis Scola lasciano la franchigia, in cambio sostanzialmente di scelte al Draft e/o spazio salariale.

Nella città dell’Amore Fraterno, invece, non solo ci si è qualificati per la postseason—terza occasione in quattro stagioni—ma per la prima volta dal termine dell’era-Iverson si è anche superato un turno, passando sulle macerie dei poveri Chicago Bulls privi di Derrick Rose (il primo infortunio al ginocchio avvenne durante gara-1 di questa serie) e Joakim Noah (assente da gara-3 in poi). Il GM Tony DiLeo ha grandi progetti per i 76ers e si inserisce nella trade che porta Dwight Howard da Orlando a Los Angeles: via giovani (Vucevic e Harkless) e scelte, via il capitano Iguodala (a Denver), dentro Andrew Bynum (e Jason Richardson) per scalare le gerarchie della Eastern Conference.

Cosa sia successo a Houston nei mesi e anni successivi, dall’arrivo di Harden a ottobre 2012 alle Finali di Conference 2015, è storia. Ed è, purtroppo, storia anche la stagione 2012-13 di Phila, comprese le idioz… ehm… disavventure di Andrew Bynum tra parrucchieri, bowling, distributori di benzina e altro. Pochi mesi dopo in casa Sixers è tempo di cambiamenti e ricostruzione e c’è bisogno di un nuovo General Manager: uno dei candidati è ovviamente Sam Hinkie, che durante una cena con la proprietà espone un’articolata presentazione in PowerPoint con la quale illustra nel dettaglio tutte le idee, manovre, analisi e sfumature del Salary Cap che hanno permesso ai Rockets di trovarsi nelle condizioni ideali per poter arrivare a un franchise player come il Barba. E ottiene il posto.

Sam Hinkie con Nerlens Noel.

Fast forward, estate 2015.

Se fossimo in un videogame, in cui il valore degli asset disponibili è espresso in stelle su scala 1-5, Sam Hinkie sarebbe il cheat code definitivo, guidato dall’intelligenza artificiale, ma con l’opzione Forza Scambio sempre attiva. Analizzate singolarmente le sue mosse e non ne troverete una, una sola, in cui abbia ceduto un giocatore che secondo il suddetto criterio avesse valutazione superiore a ciò che ha ricevuto nello scambio.

Questo ai colleghi/rivali risulta tremendamente indigesto, proprio perché spesso durante le trattative vengono costretti ad accettare condizioni poco vantaggiose per mancanza di alternative. Così come risulta indigesta l’intoccabilità del suo posto di lavoro nonostante la squadra stia ottenendo risultati sul campo non certo memorabili, in una Lega in cui ormai la certezza del posto è riservata solo a pochissimi fortunati, quasi tutti operativi in Texas.

È da qui che si deve partite per provare a capire il discusso operato del discepolo di Morey. Prima di tutto, sta facendo esattamente ciò che gli è stato chiesto dalla proprietà, nel modo in cui gli è stato chiesto, con un discorso del genere: «Non costruire una squadra ragionando sul breve periodo, ma prova a creare basi solide che possano garantire buoni risultati per alcuni anni (vincere un titolo è l’obiettivo principale, ma non l’unico), facendo tutto ciò che è necessario e sacrificando anche un paio di stagioni alla causa».

Le fondamenta imprescindibili per un progetto di questo tipo sono essenzialmente due: un capo allenatore competente e un franchise player. Brett Brown sembra l’uomo giusto al posto giusto e al momento giusto, prima di tutto per l’impostazione difensiva data alla squadra: con un roster decisamente rivedibile, giovane e continuamente modificato da scambi e acquisizioni, i Sixers hanno concesso agli avversari 102.1 punti per 100 possessi, come Jazz e Celtics, 12.esimo miglior Defensive Rating della Lega (valore che con Nerlens Noel in campo scende a 100.4, cioè sesto migliore, alle spalle solo di Warriors, Bucks, Spurs, Grizzlies e Wizards).

Una delle principali critiche mosse abitualmente a chi fa del tanking il proprio mantra è che, se “vincere insegna a vincere”, anche perdere insegna a perdere, contribuendo a creare una cultura fatta di atteggiamenti tecnici deleteri e mancanza di stimoli e di voglia di sacrificarsi. Offrire un rendimento difensivo di alto livello è certamente un ottimo segnale in questo senso e testimonia la bontà del coach australiano di scuola Spurs, anche come motivatore. Per tutto il resto—fase offensiva in testa—ci sarà tempo, anche se le linee guida appaiono chiare e decisamente ispirate al Moreyball giocato a Houston: correre in transizione (settimi per numero di possessi nella Lega, i Rockets hanno il secondo dietro agli Warriors) e cercare tiri ad alta efficienza, cioè da tre punti (il 31.9% delle conclusioni prese arrivano da dietro l’arco, solo Rockets, Cavaliers, Clippers e Hawks hanno valore più elevato) e al ferro (30,3 a partita, di più solo per Pelicans e Pistons).

Per quanto riguarda la ricerca del franchise player invece tutto, ma proprio tutto quel che Sam Hinkie orchestra sul mercato è proiettato in questa direzione. Breve premessa: un ricetta unica per arrivare ad una Stella (e in un secondo momento eventualmente a un anello) non esiste, le percentuali di riuscita sono basse in ogni caso e ciascuna delle tre strade—free agency, scambi o Draft—presenta notevoli controindicazioni. Esistono capacità, opportunità e fortuna, non un modello prestabilito.

Joel Embiid, scelto come terza scelta al Draft 2014.

La free agency tende storicamente a premiare due tipologie di squadre: quelle situate in uno dei cosiddetti “big markets”—cioè le grandi metropoli che offrono ai giocatori qualità di vita elevata e possibilità di guadagni collaterali infinite (leggi: Los Angeles, New York, Chicago); e quelle che già hanno tra le proprie fila un Campione (C maiuscola, perché meglio se con anello al dito). Phila—pur non essendo una piccola cittadina né uno small market—non rientra in nessuna delle due casistiche, ma questo non significa che, ad esempio, Hinkie non abbia offerto un contratto a LeBron James nell’estate del 2014. Semplicemente, è estremamente improbabile che questi tentativi vadano a buon fine.

Il mercato degli scambi non può prescindere da una condizione: per poter acquisire un giocatore, c’è bisogno che qualcun altro lo renda disponibile. Compito di un General Manager è aumentare le proprie chances di successo, facendosi trovare pronto con asset e flessibilità tali da poter sfruttare l’eventuale occasione, come appunto fatto nel caso Harden. Ma l’occasione si presenta molto, molto, molto raramente.

Il Draft è una scienza inesatta per definizione e per ogni storia a lieto fine (vedi ad esempio ritrovarsi con la prima scelta assoluta nell’anno in cui si presenta Anthony Davis) ci sono innumerevoli casi in cui il livello medio dello specifico Draft è basso, la fortuna guarda altrove in sede di Lottery, vengono commessi errori di valutazione, i prospetti non mantengono le promesse e/o si infortunano, etc… Compito di un General Manager è aumentare le proprie chances di successo, garantendosi il maggior numero possibile di scelte e raccogliendo il maggior numero possibile di informazioni sui prospetti (ad esempio, il GM dei Sixers è l’unico a essersi recato in Cina per osservare direttamente le prestazioni di Emmanuel Mudiay).

Esaurita la premessa e individuato il fine, è decisamente più semplice leggere i movimenti di Sam Hinkie: perché cedere per due volte il proprio playmaker titolare, prima Jrue Holiday e ora Michael Carter-Williams? Perché in entrambi i casi in cambio è arrivata una una scelta al Draft. Che ha probabilità di trasformarsi in franchise player estremamente marginali... ma comunque superiori a quelle dei due giocatori (rispettivamente: zero e negative). Soprattutto, un asset “5 stelle” scambiato per un “3 stelle” può rivelarsi fondamentale, se il mercato dovesse presentare l’occasione gusta.

Perché scegliere al Draft giocatori come Nerlens Noel (infortunato), Joel Embiid (infortunato) e Dario Saric (sotto contratto in Europa), che non avrebbero giocato un singolo minuto della loro teorica prima stagione da professionisti? Perché ciascuno di loro era il miglior giocatore disponibile (o BPA, best player available, secondo la terminologia del Draft) al momento di effettuare la scelta, quindi quello che nel medio periodo ha le possibilità maggiori di trasformarsi in un franchise player o anche solo nel, appunto, miglior giocatore tra quelli disponibili.

Perché cedere un titolare come Thaddeus Young, vicino alla scadenza del proprio contratto, per una prima scelta? Perché Young a fine stagione avrebbe certamente lasciato la squadra. Lo scambio ha permesso di trasformare un asset “3 stelle” prossimo ad esaurirsi in uno “4 stelle” con validità maggiore.

Per comprendere perché Hinkie abbia accumulato oltre venti scelte al secondo giro per i Draft del prossimo lustro è invece necessario uscire dall’assioma “scelta=giocatore”: se a ciascuna di queste dovesse corrispondere un posto a roster il problema di abbondanza sarebbe evidente (e comunque il rischio è presente, si veda l’esempio di—of course—Morey, costretto a regalare Robert Covington e Tarik Black proprio per questo motivo). Ma così non è. Il ragionamento corretto è “scelta=chance”: all’aumentare del numero di scelte, aumentano le possibilità di trovare quel che si cerca.

Ci sono innanzitutto chance marginali che si trasformino in giocatori importanti (Khris Middleton e soprattutto Draymond Green i casi più recenti); ma se anche solo se ne ricavasse materiale da panchina (Will Barton, Mike Scott, Mike Muscala, sempre per restare all’attualità) o come scelte in quanto tali, si tratterebbe comunque di asset “1 stella”, facilmente utilizzabili in scambi successivi o per completare il roster. Oppure possono essere considerate come “cambiali”, dato che ogni squadra può, nell’arco di una stagione, spendere e incassare fino a 3 milioni di dollari “in contanti” all’interno dei tradizionali scambi e che la compravendita di seconde scelte (abitualmente valutate mezzo milione) è all’ordine del giorno in sede di Draft—come ad esempio hanno fatto i Knicks l’anno scorso, quando si sono comprati due scelte del secondo giro. O ancora, possono essere utilizzate per garantirsi a costo zero i diritti su giocatori non immediatamente pronti al salto in NBA, ma che possono essere lasciati maturare in Europa (processo definito Draft-and-Stash) o in D-League e giudicati in un secondo tempo.

Senza dilungarsi ulteriormente in dettagli, è evidente che ci si trova di fronte ad un modus operandi che non ha precedenti, che difficilmente sarà ripetibile e che quindi non può essere giudicato utilizzando i criteri abituali. Può piacere o meno, ma non ci sono gli strumenti per affermare che “non può funzionare”. È giusto porsi domande e sollevare obiezioni, ma non si può ignorare che i giocatori si impegnano alla morte; che la peggior squadra possibile non è stata la peggior squadra NBA in nessuna delle due stagioni di tanking (che, va ricordato, è concetto che si applica all’ambito manageriale: salvo rarissime eccezioni imputabili ad attività illecite, nessun professionista va in campo per perdere volontariamente una partita, neanche nei casi più estremi); che la stragrande maggioranza dei tifosi Sixers preferisce la Speranza di un Futuro Migliore alla mestizia derivante dalla mediocrità; e che tutto questo è stato espressamente richiesto da una proprietà costituita da imprenditori il cui obiettivo è guadagnare denaro, e che quindi hanno previsto e accettato come rischio imprenditoriale il calo di introiti derivante dalla minore affluenza al Wells Fargo Center e dal poco interesse mostrato dal pubblico per le partite.

In sostanza: se tra due o tre stagioni il progetto di Hinkie dovesse essersi arenato si potrà parlare di fallimento; oggi si può solamente attendere che arrivi a concretizzarsi, preparandosi a scoprire se la terza scelta del Draft 2015 (D’Angelo Russell?) e il rientrante Joel Embiid avranno le parvenze di un franchise player, se una delle scelte al secondo giro permetterà di scoprire un nuovo Draymond Green o se, magari, si presenterà l’occasione di scambiare quanto accumulato in questi due anni per un giocatore di alto livello in uscita da un’altra franchigia. L’avete visto James Harden nelle finali di conference, no?

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura