Lo sanno i tifosi più fanatici: il momento emotivamente più duro di una partita di calcio non è quello dopo una sconfitta ma quello appena prima di una vittoria. Di una potenziale vittoria risicata e sofferta, ottenuta col minimo scarto. Una vittoria importante, che gli avversari minacciano con l’energia disperata degli ultimi minuti. Si soffre nella resistenza, si “stringe i denti”. Si soffre quando si perde una partita, ma si soffre di più quando non si vince una partita che si era molto vicini a vincere.
Nessuno sa questa cosa meglio di Massimiliano Allegri. Nessuno sta peggio di lui nei tremendissimi minuti finali, là dove il margine è stretto: pochi dettagli fanno la differenza tra il successo e il gettare via tutto il lavoro fatto. Cosa sarebbe l’inferno per Allegri: una lunga sequenza di gol subiti al novantesimo, di vittorie sciupate. Sono i minuti della sua follia, quelli in cui il suo corpo viene tutto piegato e deformato della tensione. Sono i minuti del suo lancio giacca. Se ne è fatta una convenzione, una firma, un marchio d’artista: come i movimenti di macchina di Scorsese, le luci del tramonto dei dipinti di Turner. I lanci di giacca di Max Allegri.
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Lo vediamo in panchina vagamente agitato, fare di là e di qua con la riga laterale, ben oltre l’area tecnica. Siamo nei minuti di recupero di una finale di Coppa Italia in cui la sua Juventus partiva da una condizione di inferiorità creata da lui stesso. Allegri ha talmente destrutturato la Juventus negli ultimi anni da averla portata a giocarsi una finale con l’Atalanta da sfavorita. Lo ha anche rivendicato ai microfoni. Tutto il suo lavoro alla Juventus sembra finalizzato a quell’ultima partita: ha cucito sulla sua squadra il vestito da underdog, così da preparare una gara da underdog. Una gara con gol del vantaggio ottenuto dopo cinque minuti e conseguente desertificazione degli eventi. Allegri lo sa meglio di tutti: per vincere una partita, specialmente una finale, basta un errore dell’avversario, e non commetterne nessuno.
Quando si arriva agli ultimi minuti, però, la Juventus sembra aver accumulato fin troppi rimpianti potenziali. Un gol annullato per un millimetro, una traversa con un tiro troppo pulito di Miretti, un rigore solare negato dall’arbitro. Prendere gol in quei minuti di recupero sarebbe inaccettabile. Allegri se ne sta mansueto a bordo campo, inespressivo, immobile come un Budda. E poi esplode, impazzisce. Si toglie la giacca, porta la sua faccia a un pochi centimetri da quella del quarto uomo, e la mascella si tende al punto da staccarsi dal teschio. Gli occhi spiritati di un guerriero antico, la cravatta che si reclina dietro le spalle come una sciarpa, rovesciamento della dignità borghese. Continua a gridare: “Vergogna! Vergogna! Vergogna”.
Va detto che in quel momento non è chiaro con chi ce l’abbia: con l’arbitro, ok, ma per cosa? Quel rigore precedente, l’intera gestione della gara? Quel grido di indignazione allora sembra più una specie di urlo esistenziale di tensione. Uno schifo per la vita. L’urlo espressionista di tutti gli allenatori italiani sconvolti dallo stress e che non sanno più distinguere la realtà dalla fantasia. Delle sbroccate di Allegri, che abbiamo già sistematizzato in un’enciclopedia, quella con l’Atalanta ha segnato un salto qualitativo. Un’incongruenza di fondo.
Certo, queste sbroccate arrivano in momenti simili tra loro e c’è da credere che abbiano uno scopo apotropaico per Allegri. Un rituale di scongiura. Qui però c’è stato qualcosa di deliberato. L’arbitro non poteva che espellerlo dopo una protesta tanto plateale, in un mondo in cui estraggono cartellini rossi per braccia mezze alzate. Lui, che in genere sa anche prendere con auto-ironia questi momenti, stavolta rilancia. Dice qualcosa a Maresca, poi butta anche la cravatta per terra, a simbolo del fatto che non è mai stato così inferocito in vita sua; e uscendo per le scale tira via i primi bottoni della camicia e si ferma proprio sul limite dell’ultima frontiera del patetico.
Come poteva fare peggio di così, come poteva peggiorare la sua situazione?
Tornato per la premiazione, Allegri si è messo a insultare il direttore sportivo Giuntoli davanti a tutti. Dal televisore a quel punto volevamo fermarlo, come si fa con un amico che sta commettendo una cazzata davanti ai nostri occhi. Una volta sbollito forse si rende conto di quella folle corsa e allora si concede un po’ di romanticismo hollywoodiano, sedendosi sui tabelloni, la medaglia in mano, guardando la curva come di fronte alla casa che si sta per lasciare.
Un’uscita di scena degna di un personaggio WWE, Massimiliano Allegri ormai trasformato nella maschera di sé stesso, o meglio nella propria stessa action figure, capace di scenate codificate a favore di pubblico. Un momento di teatro puro. Uscendo ha guardato verso la tribuna gridando: «Dov’è Rocchi?! Dov’è Rocchi?!», riferendosi al designatore arbitrale. Lo staff arbitrale in campo lo aveva già masticato e ora voleva sotto mano l’antagonista più in alto: il loro capo. A quanto pare avrebbe anche minacciato il direttore di Tuttosport, Guido Vaciago, con minacce creative ed estreme: «Ti strappo le orecchie».
Chissà se è stato qualcosa di pre-meditato o solo la foga del momento. È lecito domandarsi, come ha fatto più di qualcuno, se tutto questo Allegri non lo abbia fatta apposta per farsi cacciare. Una tesi implicitamente confermata dallo stesso Max, che quando gli hanno fatto notare che ha perso il controllo lui ha risposto, serissimo, da comico consumato: «No, tutto normale». Sono stati diversi i momenti in cui Allegri avrebbe potuto fermarsi, e invece non lo ha fatto.
Se ormai quasi una settimana dopo stiamo ancora parlando di questo momento di teatro è per le sue conseguenze. Se tutta Italia la prendeva a ridere, la Juventus lo ha esonerato. Non lo avevamo pensato possibile, finché non è successo, e a quel punto ci è sembrato inevitabile. Quale club accetterebbe di vedere un proprio tesserato insultare platealmente un altro, davanti alle telecamere, in un contesto così sfrenato? Quale club accetterebbe la perdita del controllo, l’insubordinazione alle istituzioni, le minacce a un giornalista. Secondo indiscrezioni, pare che Allegri e Giuntoli abbiano continuato a litigare anche al rientro negli spogliatoi. E poi tutta la scenata di per sé è stata grave da più o meno tutti i punti di vista da cui la si voglia vedere.
Eppure la Juventus non deve aver preso la decisione a cuor leggero. Ci ha messo quasi 48 ore a partorire l’esonero, e non è una società che ama mostrarsi così caotica e vulnerabile. In più, la Juventus sapeva che non tutti i tifosi l’avrebbero presa bene, perché forse non c’è figura più divisiva di Allegri nell’intero calcio italiano - e tra tifosi bianconeri. Circa la metà dei tifosi lo considera ancora il miglior allenatore possibile per la squadra, mentre tutti i tifosi gli sono comunque, e per forza, riconoscenti. Allegri ha vinto una quota di significativa delle coppe e degli scudetti della Juventus, e ha portato la squadra a giocarsi due finali della Champions League. Stiamo parlando di una leggenda vivente, comunque la si voglia pensare.
Non è stata usata solo l’indignazione, o l’ironia, per commentare la sfuriata di Allegri. Alcuni juventini ci hanno visto un uomo che difendeva il club. Anche a costo di mettersi in ridicolo, o di perdere il posto di lavoro. Lo sbrocco, insomma, come segno d’attaccamento. Altri ci hanno visto comunque un segno di autenticità, di connessione ai propri sentimenti: un momento di libera espressione in un mondo ipocrita e ingessato. Chi non può condividere del tutto questa perdita del controllo ha comunque parlato di Allegri come si fa con uno zio un po’ suonato ma a cui siamo tutti affezionati. I giocatori si sono mostrati tutti dalla sua parte, o comunque grati. Adrien Rabiot ha scritto: "Meritavi un addio diverso". Andrea Agnelli ha scritto che “Allegri rappresentava la Juventus con ogni cellula”, e se lo scrive un Agnelli la cosa ha un certo rilievo. Parole che stridono invece con la freddezza del comunicato della Juventus, che non ha mai ringraziato Allegri, lasciando tutti col ghiaccio nel cuore.
Anche nella sua uscita di scena, Allegri è stato profondamente divisivo. Del resto è impossibile che non lo sia: è il ruolo che si è scelto. Se la prima era di Allegri alla Juventus è stata caratterizzata dal pragmatismo, questa possiamo dire che si sia sviluppata sotto il segno dell’ideologia. Allegri il guru del calcio autentico e semplificato, ultimo baluardo della resistenza alla sofisticazione tattica; ma anche: l’esteta del pragmatismo, l’attore consumato, il livornese cinico, l’appassionato di ippica. Un personaggio che non gli è stato cucito addosso, ma che ha edificato lui stesso, volontariamente, attraverso prese di posizione, dichiarazioni e prove pratiche, un pezzo alla volta. Sempre con un certo gusto della chiacchiera, del confronto, usando il mezzo televisivo e le conferenze stampa come il palco di un leader politico, e allo stesso tempo con la cialtroneria divertita di chi spara battute a raffica dal bancone del bar.
Eppure era difficile non provare una certa impressione di decadenza, nascosta sotto le tante risate.
Allegri era il grande pragmatista del calcio italiano, l’uomo in grado di costruire squadre flessibili e camaleontiche, capaci di interpretare tutti gli spartiti. Un allenatore con un grande talento da alchimista, in grado di far associare fra loro i giocatori più tecnici, esaltandone l’estro individuale. Squadre, ovviamente, erette su un’impostazione difensiva ferrea. Col tempo, però, come succede a molti di noi, Allegri si è irrigidito. Mentre continuava a ripetere che allenava per vincere, è sembrato sempre più evidente che in realtà Allegri allenava per dimostrare qualcosa. In un certo senso, è diventato tutto ciò che ha sempre odiato: un ideologo. La sua battaglia fuori dal campo contro il cosiddetto “bel gioco”, le statistiche avanzate, la professionalizzazione del calcio, è sembrata diventare più importante dell’efficacia delle sue squadre. Nel suo secondo ciclo alla Juventus, Allegri è sembrato l’alfiere di una guerra santa. Un uomo che ha usato la Juventus per dimostrare che un calcio reattivo, asciugato di desideri offensivi fino quasi al nulla, fino quasi alla negazione stessa del calcio, poteva essere ancora efficace. Poteva ancora dare battaglia dell’epoca della marketizzazione della tattica, della guardiolizzazione del mondo. Allegri ha voluto costruire una Juventus reattiva, scaltra, tatticamente oltranzista. La fase offensiva della sua Juve era ridotta al quarto d’ora di ricreazione. Per una finestra di tempo limitata, i ragazzi potevano uscire in pressing, attaccare, divertirsi, per poi tornare a fare le cose serie, ovvero difendersi intorno alla propria area di rigore. Anche quando forse non ce ne sarebbe nemmeno bisogno.
In questo è difficile non vedere contraddizioni: come fa un allenatore che si dice un cultore della tecnica, un amante del bello, essere lo stesso che dice a Yildiz di non provare a segnare ma di andare alla bandierina? Come fa un allenatore che dice di fare questo lavoro per amore del “bel gesto”, essere lo stesso che ostruisce la libera espressione del talento dei suoi migliori giocatori?
Non è sempre stato così. Allegri è l’allenatore che ha tirato fuori il meglio da talenti sensibili come Dybala o Pogba, che costruiva squadre leggere e aeree. Ora la Juventus sembra avere la camicia di forza.
I segni di un cambiamento si potevano leggere già durante il rancoroso tramonto della sua prima era. La diatriba con Adani, il conflitto con Sarri, che sarà poi il suo successore, sembravano già averlo destabilizzato. Aveva preso una postura cupa, nichilista. Un profeta arrivato a dirci che nulla può sopravvivere. Nel 2019 si era preso un anno sabbatico. Si diceva potesse andare al Real Madrid, al Bayern Monaco, all’Arsenal. Probabilmente ha rifiutato queste panchine, anche se iniziavamo a percepire che la sua figura si stesse scollando, via via, dalle esigenze del calcio contemporaneo. C'è stata un'intervista significativa, di quelle che gli allenatori rilasciano per farsi pubblicità all'estero, a James Horncastle, all'epoca a ESPN. Nell’epoca della razionalizzazione assoluta del calcio, Allegri continuava a sostenere un approccio scettico, stranamente anti-positivista. Contro la scienza, i dati, il controllo. «Dico sempre ai miei assistenti di vedere come i giocatori muovono le gambe, non il computer». Ha ammesso di non possederlo proprio, un computer. Eppure c’erano tanti spunti profondi in quell’intervista, tipo: «Se rendi tutto troppo meccanico non avrai più giocatori pensanti». Allegri, però, più che parlare in maniera onesta, sembrava interessato a promuovere il proprio approccio.
Nessuna di queste cose rappresentava un problema, ma loro esibizione era, come dire, stravagante. Nell’epoca dei laptop trainer e dell’intellettualizzazione del calcio, Allegri ci teneva a passare per anti-intellettuale. Un allenatore con un approccio quasi stregonesco ai match, che vede una partita di calcio come un iper-oggetto aleatorio e incontrollabile. «Nel primo tempo un allenatore deve pensare soprattutto a non fare danni, e poi nel secondo tempo si rimedia». E questo tipo di approccio poteva ancora godere di una sua credibilità d’alto livello forse solo in Italia. E forse solo alla Juventus poteva trovare un club disposto, in quel momento, a dargli un contratto triennale a 7 milioni netti a stagione, oltre a un potere quasi sconfinato.
Allegri si è costruito un proprio pubblico di fedelissimi proprio per questa sua aria anti-sistema, per essere un allenatore che va contro il presunto pensiero unico per cui ci sarebbe un solo modo di vincere nel calcio. Ma se qualcuno dei tifosi della Juventus giudica positivamente anche quest’ultima esperienza in bianconero, non è solo per questioni ideologiche. Sotto una certa lente il bilancio di Allegri può essere letto in positivo, tutto sommato. Dire che il suo approccio è stato un fallimento su tutta la linea significherebbe cadere nella stessa falsa rigidità che il discorso attorno ad Allegri ha promosso. Ci sono luci e ombre in questi tre anni.
Sono successe tantissime cose, fuori dal campo, alla Juventus. È caduto un consiglio d’amministrazione, ci sono state due indagini per plusvalenze e manovre stipendi. La squadra ha subito una penalizzazione di punti a stagione in corso che avrebbe disorientato qualsiasi gruppo. È arrivato un nuovo direttore sportivo e la squadra non ha fatto calciomercato estivo, tra la scorsa stagione e questa. Allegri si è rivelato un ottimo comandante per il mare in tempesta. La squadra si sarebbe qualificata alla Champions lo scorso anno e ci si è qualificata in questo, dove ha anche provato una corsa scudetto che si è rivelata, col tempo, fatua. La vittoria nella finale di Coppa Italia è un successo da non sottovalutare, perché Allegri ha dimostrato che la sua formula di calcio può ancora essere vincente in una partita secca contro un avversario in forma ma alla portata. Magari non buona per vincere un campionato, ma una partita secca sì.
I risultati sono stati buoni, non si può negare, ma non sono stati eccellenti. Forse non sono stati nemmeno all’altezza delle possibilità della squadra. Per tutto l’anno Allegri ha rivendicato che l’obiettivo della Juve fosse la qualificazione in Champions, che non era competitiva per altro. Di certo un amante della vittoria come Allegri non può pensare di accettare di poter competere solo in Coppa Italia. In questo senso la sua figura in quest’ultima versione è sembrata più scarica del solito.
Nessuno può dire con certezza se, allenata diversamente, la squadra avrebbe potuto essere più competitiva, ma di certo chiunque può riconoscere che la Juventus, con quei giocatori, avrebbe potuto e dovuto giocare meglio di così.
Giocare un calcio difensivo e reattivo non significa giocare male, questo non dovremmo neanche ripeterlo. Su questa rivista abbiamo elogiato anche le versioni più terra terra della prima Juve di Allegri, ricordando che i parametri di estetica ed efficacia, nel calcio, sono molto legati tra loro. La Juventus, però, è sembrata incapace di difendersi quando attaccava, e incapace di attaccare quando si difendeva. E che quindi decideva di fatto di non attaccare: perché basta un errore dell’avversario per vincere e un proprio errore per perdere, e allora bisogna sperare che non succeda nulla, e vincerla col talento dei singoli. Azzerare gli eventi, le emozioni, le ambizioni. Abbracciare un'aurea mediocrità. Una squadra organizzata su una coperta troppo corta, che giocava al ribasso, quasi sul punto di rivendicare come una qualità la propria mancanza di coraggio.
La versione 2024 della Juventus di Allegri è stata una delle più grigie della storia bianconera. Non si tratta solo di divertimento: era una squadra a cui mancavano idee, coraggio, persino ambizione. Dal 21 gennaio la Juventus ha giocato 15 partite di Serie A e ne ha vinte 2 e ne ha perse 3. Il resto sono stati pareggi che fatichiamo a ricordare, che si perdono in un liquido amniotico di insignificanza che ha avvolto il girone di ritorno bianconero. La povertà del gioco della Juventus è sostenibile finché ci sono i risultati, dopo cosa rimane? Un’esperienza eccessiva, quasi d’avanguardia, in cui il calcio è trasformato in un memento mori.
Allora mi pare significativo che per rivitalizzare questa esperienza straordinariamente piatta Allegri si sia dovuto inventare quel colpo di teatro finale. Solo fuori dal campo, con una prova attoriale degna di De Niro, Allegri ha potuto mettere un po' di sapore a una stagione grigia. Non uscire di scena in modo mesto e remissivo, visto che un po' resto e remissivo era stato per tutto il resto dell'anno. Un alito di vita, una fiammata finale, finalmente Max. Un finale all'altezza della tua fama. Una recita che abbiamo amato, ma che è anche il sintomo che, una volta per tutte, il personaggio si è mangiato l’allenatore.