Oggi Massimiliano Allegri ha rilasciato un’intervista a Mario Sconcerti sul Corriere della Sera. Essendo un’intervista scritta - strutturata sulla formula domanda-risposta - è molto difficile decifrare il contesto e usarlo per capire meglio cosa intendesse Allegri, cosa di per sé non semplice. Allegri non fa che ripetere che il calcio è semplice, che ci sono troppi filosofi (il titolo dell’intervista è addirittura “Vedo in giro troppi filosofi”), ma quando parla di calcio finisce sempre a discutere con toni assoluti e mistici dei massimi sistemi del calcio. Proprio come fanno i filosofi.
In questa intervista ha parlato di diverse grandi questioni: il futuro del calcio, l’eredità dei più grandi tecnici di oggi, il rapporto tra sport e tecnologia, il cambiamento del mestiere di calciatore, la politica del calcio italiano. Eppure da ogni risposta traspare il tono spartano e cinico che abbiamo imparato a conoscere nelle sue migliori interviste ai microfoni post-partita.
Come altre volte, Allegri è entrato nelle vesti del suo personaggio ai microfoni: un allenatore reazionario che ce l’ha con chi, secondo lui, vuole fare del calcio una scienza, un gioco complesso e con l’idea di progresso in generale. Stavolta però sembra meno lucido del solito. Allegri sembra prendersela contro un imprecisato tifoso progressista così come Salvini nei suoi discorsi cita i radical chic. Allegri ce l’ha con i “filosofi” come Salvini ce l’ha con “professoroni” e “intellettualoni”.
È interessante che il personaggio che vuole veicolare è poi diverso dal tipo di allenatore che era Allegri, cioè un tecnico con un’estrema attenzione ai dettagli e con un’idea di controllo tattico molto forte sulla partita.
In quest’intervista ha però detto anche cose oggettivamente false, insieme ad altre tendenziose, che rischiano di confonderci le idee su alcuni concetti calcistici. Le abbiamo raccolte e commentate.
1. «Ci sono due cose sopra le altre: la prima è che i giocatori africani stanno spostando il calcio sul lato fisico. La qualità resta fondamentale, ma la base del calcio sta cambiando. La seconda è che sto rivedendo un grande ritorno del contropiede».
Qui la cosa sorprendente è che la domanda non era: “Come stanno evolvendo i calciatori?”, oppure “Cosa ne pensa della globalizzazione nel calcio?”. La domanda, la primissima, era innocua: “Com’è il calcio visto da fuori?”. Che, va detto al volo, si riferiva piuttosto al fatto che Allegri non sta allenando in questo momento.
Inoltre, dato che del contropiede se ne parla anche dopo, qui rispondiamo solo alla prima cosa che per Allegri è più importante delle altre: che gli africani stanno spostando il calcio sul lato fisico.
Si tratta di una gigantesca, come dire, generalizzazione. Sarebbe interessante sapere se Allegri si basa su qualche studio o se si tratta di una sua semplice osservazione. Perché ci vuole davvero un grande spirito di osservazione, non solo per notare uno “spostamento” del calcio ma anche per individuarne una causa diretta e unica.
Ma sarebbe anche interessante capire cosa intende Allegri per “giocatori africani”, dato che tra africani di parti diverse del continente ci sono moltissime differenze fisiche oltreché culturali, sociali etc. Così sembra che Allegri lo usi come sinonimo politicamente corretto per “giocatori neri” e che, senza studi a supporto o specificazioni di nessun tipo, stia ribadendo lo stereotipo (cioè un’idea vaga, una costruzione sociale) della superiorità naturale atletica dei neri.
Stereotipi di questo tipo hanno ricadute sociali quotidiane enormi e per questo andrebbero evitati o quanto meno discussi nei media, invece Allegri è libero di dire una cosa del genere senza contraddittorio di alcun tipo. Ancora una volta, anziché discutere sulla natura di opinioni del genere (se siano razziste o meno), finendo inevitabilmente per tirare i ballo i valori di chi le esprime (su cui in casi come questo non possiamo sapere abbastanza), sarebbe più utile discutere della sensibilità con cui sono state divulgate al pubblico. È un tema sensibile, appunto, e non andava lasciato senza ulteriori spiegazioni, come se si trattasse di una verità oggettiva.
Anzitutto va detto chiaramente che non ci sono prove scientifiche a sostegno di una naturale superiorità atletica di nessun gruppo sociale, culturale o politico (una Nazione), sugli altri. Il concetto stesso di “etnia” è stato fortemente messo in discussione dall’antropologia contemporanea e anche negli studi che approfondiscono il discorso sul piano genetico o antropometrico non si arriva a conclusioni così generiche.
Alcuni miti che si danno per scontati sono stati smentiti: nel 1990, ad esempio, in uno speciale della NBC si sosteneva che gli atleti neri avessero un numero più alto di fibre muscolari veloci: non ci sono prove scientifiche (come dice Gary A. Sailes in uno studio del 1991) e sono pochissimi i fisiologi ad averlo sostenuto.
E nonostante ci siano delle differenze fisiche (sempre tenendo conto di misure “medie”, che non tengono conto di individui più o meno eccezionali) non si può sapere se le cause di tali differenze siano genetiche o piuttosto dovute a fattori ambientali (questo è il caso dei muscoli dei corridori keniani, adatti a correre lunghe distanze, che può essere dovuto al fatto che vivono in altitudine quanto al loro DNA).
Più importante ancora, però: non si può dire quanto le eventuali differenze fisiche influiscano sulle performance atletiche di alto livello rispetto a fattori sociali, economici, politici o storici. È più vantaggioso avere braccia più lunghe o nascere in un Paese in cui la mortalità è più bassa che altrove? È più vantaggioso avere ossa più pesanti o allenarsi in strutture migliori con allenatori più preparati?
Studi di questo tipo sono particolarmente complessi sia per ragioni intrinseche - quanto DNA “nero” c’è in un atleta afroamericano con magari qualche antenato bianco? - sia per ragioni pratiche: quanti atleti d’élite si riesce a convincere a farsi analizzare? Tutti concordano, però, che senza un allenamento di livello e un ambiente che favorisca un percorso adeguato si può parlare al massimo di “potenzialità”.
In poche parole: le differenze anatomiche sono differenze tra le "medie": il che significa che alcuni individui di un gruppo o dell'altro avranno valori molto più alti o bassi. Cioè: dire che i maratoneti etiopi hanno una differente capacità respiratoria è come dire che la nazionale di basket italiana è più alta di quella di calcio. Inoltre nessuno scienziato è in grado di dire se queste differenze abbiano contribuito al successo sportivo di un gruppo in particolare più di altri fattori di cui non si parla.
E a questo punto va detta un’altra cosa. Questi discorsi non solo si basano su un’identità etnica posticcia e astratta, ma di solito vengono fatti per togliere almeno un po’ di merito agli atleti neri, come se per loro fosse in effetti più semplice e richiedesse meno lavoro. E che allo stereotipo della superiorità atletica si abbina di solito quello dell’inferiorità intellettuale o, se si parla di calcio, tecnica e tattica.
Insomma, Allegri ha sbagliato a generalizzare parlando di calciatori “africani” e il presupposto che i calciatori neri siano naturalmente predisposti a un tipo di calcio “più atletico” è semplicemente falso (oltretutto di esempi di calciatori bianchi che “spostano il calcio sul lato fisico” è pieno: da Zaniolo a Haaland, passando per Bale, Barella, Milinkovic-Savic, Manolas).
Non si tratta di una questione di politicamente-corretto, ma di opinioni che non hanno nessuna base scientifica e che anzi la stessa cultura occidentale cerca di combattere da decenni. Ovviamente che non ci siano prove non interesserà minimamente a chi non vuole mettere in discussione le sue false credenze, ma sarebbe compito dei giornalisti quello di approfondire e chiarire.
2. Il calcio di Guardiola era irreplicabile
«Sì, abbiamo seguito per vent’anni Guardiola equivocando. Guardiola raccontava solo la sua eccezione, non era un calcio per tutti. Il Barcellona storico nasce con tre grandi giocatori che pressano alti e spingono le difese avversarie dentro la loro area. Così a sua volta i centrocampisti salgono e si inseriscono e la tua difesa può arrivare a metà campo. Ma devi avere Iniesta, Xavi e Messi. Noi abbiamo preso come lezione comune un argomento che riguardava solo loro».
In questa risposta sembra verosimile pensare che ci sia qualche errore di chi l’ha trascritta (e magari c’entra la vecchia abitudine di non registrare l’intervista e prendere appunti a penna). Perché tutta la seconda parte della risposta sembra confusa e sbagliata. Se ho capito bene, Allegri dice che la forza del Barcellona consisteva nella capacità di pressing di Xavi, Messi e Iniesta. Un pensiero così surreale da non poter credere sia stato davvero quello che intendeva Allegri.
Quindi tralasciando la prima parte, la seconda invece recupera un vecchio argomento delle discussioni da bar, ovvero l’irreplicabilità del gioco del Barcellona di Guardiola. Se da una parte è vero che quel Barcellona era davvero unico - e l’unicità era data da giocatori con una sensibilità tecnica speciale come quella dei tre citati - dall’altra i suoi principi hanno attecchito nel terreno del calcio ad alti livelli. Ora moltissime squadre di alto livello hanno introiettato - con gradi e interpretazione diverse - i principi del gioco di posizione di quel Barcellona, o la fase di riconquista. Compresa la sua Juventus, oggi allenata da Maurizio Sarri.
Quando dice “Abbiamo seguito per vent’anni Guardiola” non si capisce esattamente a chi si riferisca, e sembra ignorare tra l’altro che il calcio di Guardiola (che allena da 12 anni) viene da un filo della tradizione che parte dal Calcio Totale e passa per Sacchi, per farla breve. Allegri quindi sta iper-semplificando: non c’è qualcuno che vuole scimmiottare Guardiola ma esiste un solido paradigma calcistico che parte da lontano, può essere declinato in modi diversi ma che di certo negli ultimi anni ha avuto successo. Lo stesso Guardiola fuori dal Barcellona ha dovuto e voluto cambiare e innovare instancabilmente il suo gioco prima con il Bayern e poi con il Manchester City, senza per questo rinunciare ai suoi principi, che quindi non esistevano esclusivamente in funzione di Xavi, Messi e Iniesta.
3. Il Milan di Sacchi come squadra di contropiede
«È uno dei miei argomenti sensibili. Quando sento Sacchi che parla di tenere il pallone e avere atteggiamenti propositivi non capisco cosa dica e mi arrabbio. Perché non dovrebbe essere propositivo giocare in verticale, perché dovrebbe esserlo fare venti passaggi di un metro? Ho visto venti volte le partite di Sacchi, ricordo quella a San Siro in cui il suo Milan segnò cinque gol al Real. Giocava dritto per dritto, come un fuso. Mentre il Real si scambiava con calma il pallone. Era un Milan verticale, esattamente di contropiede, che non è facile da farsi ma quando riesce è un grande spettacolo».
Allegri vuole mostrarci il calcio attraverso i suoi occhi e finisce per forzare le interpretazioni per far rientrare tutto dentro la sua visione. Usa un artificio retorico: finge di non capire il concetto di squadra proattiva secondo la teoria di Sacchi, dicendoci che per Sacchi essere verticali significa non essere proattivi, mentre lo è fare venti passaggi di un metro.
Lo fa anche dicendoci che avere una trasmissione di palla verticale significa fare un contropiede, cosa diversa rispetto a fare passaggi di un metro. Prova a confermare questa idea con l’esempio di una partita simbolo del Milan di Sacchi. Allegri dice che contro il Real Madrid il Milan “giocava dritto per dritto, come un fuso”; aggiunge poi che fosse allora una squadra verticale, e quindi di contropiede. In sostanza dicendoci che alla fine Sacchi stesso ora predica una cosa, ma da allenatore faceva altro.
Il Milan di Sacchi era una squadra che utilizzava la trasmissione di palla verticale, ma questo non ne faceva una squadra contropiedista. Il pallone è uno strumento per Sacchi esattamente come lo spazio, e questo serve alla squadra per imporre il proprio contesto di gioco sugli avversari. Questo significava per Sacchi essere una squadra proattiva. Il contropiede per Sacchi è la tattica che prevede una rinuncia a creare azioni di gioco che non nascano da un errore avversario in zona offensiva.
Il Milan invece creava azioni di gioco provando ad ordinarsi e a disordinare l’avversario. Il fatto che contro il Real Madrid (partita che abbiamo già analizzato qui) la trasmissione del pallone passasse in verticale attraverso tre passaggi - Baresi-Ancelotti-Gullit - dimostra solo che gli avversari non erano in grado di contrastare la rapidità d’esecuzione del Milan, non che la squadra giocasse in contropiede. C’erano contropiedi, sì, ma c’erano anche gestioni del pallone con passaggi da un metro. Quel che conta è che c’era di imporre sempre il proprio gioco utilizzando due strumenti: il pallone e lo spazio.
4. Giocare dietro le difese come invenzione italiana
«La base è la stessa del vero calcio moderno, avere tre attaccanti che pressino continuamente la difesa, la tengano chiusa dentro l’area. Se hai Mané, Salah e Firmino devi andare per forza per linee verticali. Klopp ha capito questo e anche che gli attaccanti vanno protetti in tutto il loro lavoro. Quando era al Dortmund prendeva molti più gol, me lo ricordo. Ma anche lui fa un gioco verticale, scatta continuamente, cerca spazio non di lato ma alle spalle dell’avversario. Non capisco perché ci si debba vergognare di avere inventato noi questo modo di giocare. Una cosa è difendersi per portare via un pareggio, quando il pareggio valeva la metà di una vittoria. Altra cosa è guidare l’attacco dalla difesa, cercare lo spazio in modo diverso. Non è un risparmio, è un altro modo di investire».
In sostanza per Allegri il calcio moderno si basa sul pressing. Effettivamente possiamo dire che l’arrivo del pressing è stato davvero lo spartiacque tra il calcio del passato e quello contemporaneo. Ed è vero anche che quello di Klopp è un calcio verticale.
Il discorso di Allegri diventa più confuso quando equipara la verticalità di Klopp al “contropiede all’italiana”. Poi dice che Klopp ricerca lo spazio “dietro l’avversario” e non “accanto”. La ricerca dell’uomo dietro la linea di pressione avversaria non è però una prerogativa solo del calcio di Klopp, lo è anche del gioco di posizione di Guardiola, che si basa proprio sul concetto di cercare di costruire triangoli continui con movimenti di pallone e uomini per giocare dietro la linea di pressione avversaria e non accanto.
Insomma Allegri ancora una volta vuole riportare la sua visione del calcio all’idea di verticalità (per lui sinonimo di contropiede), contro quello che secondo lui è un possesso di palla orizzontale. Forse la differenza che intende Allegri è quella tra calcio proattivo e calcio reattivo.
Per Allegri il modo di giocare di Klopp è inventato in Italia, e non va molto lontano dalla verità. Ritiene il calcio di Klopp “un calcio di contropiede”, quando invece è un calcio proattivo, ma ha ragione quando dice che è stato ispirato in Italia («Non capisco perché ci si debba vergognare di avere inventato noi questo modo di giocare»). In effetti molte idee di Klopp arrivano da Sacchi, che è italiano, che però si è ispirato alla scuola del calcio totale olandese. Gli elementi chiave che accomunano Klopp a Sacchi sono il pressing e l’utilizzo del pallone in chiave proattiva. Il contropiede c’entra poco.
5. La tecnologia come nemica dell’uomo
«Che non esistono gli schemi, non esiste l’intelligenza artificiale, conta l’occhio del tecnico. Da gennaio metteranno i tablet a disposizione della panchina. Saprai quali sono i percorsi di campo più frequentati. Per fare cosa? Per riassumere in una frase quello che ho già visto. Il calcio è un campo, non un universo. Le cose si trovano, si toccano, non importa essere troppo elettronici. Serve un allenatore che sappia fare il suo mestiere la domenica, quello è il giorno in cui bisogna essere tecnici. Il resto tocca ai giocatori, alla loro diversità. Oggi giro, vedo il calcio dei ragazzi, dei dilettanti, parlo con i loro allenatori e sento cose che mi spaventano, parlano come libri stampati, come le televisioni, sono gli slogan più frequenti riversati su ragazzi che a loro volta scambieranno il calcio con un’altra serie di slogan».
Questa è la parte più filosofica del discorso di Allegri contro i filosofi. In questa risposta il tecnico livornese parla del rapporto tra uomo e tecnologia e della triangolazione tra uomo, calcio e tecnologia. In sostanza: a che serve digitalizzare tutto, elaborare gli algoritmi, tracciare tutto con i dati se l’occhio dell’allenatore può comprendere già tutto? L’intervista termina con un’invocazione tecno-pessimista degna di Blade Runner: «Siamo ancora noi più forti della tecnologia».
È la parte più rispettabile del discorso di Allegri, insieme a quella sui ruoli dei giocatori. Quando dice che è l’occhio del tecnico a capire meglio dei dati se un centrale gioca meglio insieme a un altro secondo me tocca una verità profonda. Il problema è che i discorsi di Allegri sono esclusivi, cioè fidarsi del proprio occhio, nella sua visione, implica non fidarsi di un approccio più scientifico e analitico. Allegri quindi è ideologico proprio mentre vuole farci credere che nel calcio c’è troppa ideologia.
Come ha scritto Alfredo Giacobbe in un articolo intitolato significativamente “Tutte le contraddizioni di Allegri” i due approcci dovrebbero integrarsi. Le statistiche sono uno strumento in mano a uno staff tecnico, e servono proprio a integrare, confermare o smentire le impressioni dell’“occhio”: «Un conto è dire che un giocatore ha “fatto molto”, un altro è vedere di quanti e quali eventi importanti di una partita (tiri, dribbling, tackle etc.) è stato protagonista. D’altra parte, Allegri stesso nel suo libro dice di consultare i numeri sui falli fatti e subiti, e sui duelli aerei vinti o persi, e di utilizzarli come indicatori dell’aggressività della sua squadra in fase di non possesso».