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Perché Allegri e la Juventus sono fatti l'uno per l'altra
19 apr 2019
Il tecnico livornese rispecchia perfettamente il DNA bianconero.
(articolo)
12 min
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Nei minuti immediatamente successivi all’eliminazione dalla Champions League per mano dell’Ajax dei “ragazzini terribili”, come sono stati ribattezzati, sia il presidente della Juventus Andrea Agnelli che il suo allenatore Massimiliano Allegri hanno confermato la volontà di continuare il loro rapporto di lavoro. L’eventualità che Allegri continui ad allenare la Juventus anche oltre la scadenza naturale del suo contratto - prevista per giugno 2020 - però non piace a parte della tifoseria bianconera.

Va ricordato, anzitutto, che le vittorie di questi ultimi cinque anni hanno aiutato a far sbocciare un amore nato tra le spine. Allegri era stato accolto a Vinovo tra le contestazioni: agli occhi dei tifosi, sedotti ed abbandonati da Antonio Conte, Allegri era ancora l’allenatore del Milan che aveva conteso alla Juventus lo scudetto 2011/12. Lo stesso Allegri, ai tempi, aveva polemizzato in occasione del gol fantasma di Muntari nello scontro diretto che probabilmente aveva deciso quel campionato. Tra l’altro, in quella stagione era caduta la prima tessera del domino di successi raccolti dalla Juventus nelle ultime otto stagioni.

Ad ogni modo, dopo 5 scudetti, 4 coppe Italia, 2 finali di Champions League – un rosario mourinhesco che lo stesso Allegri ormai non manca di predicare appena ne ha l’occasione – le voci di chi si oppone alla permanenza del tecnico livornese sulla panchina della Vecchia Signora in questa stagione si sono fatte insistenti. E sotto al bruciore dovuto all'eliminazione giace il solito conflitto tra risultati e bel gioco, tanto più paradossale quando si parla di Juventus e di Allegri.

Allegri secondo Allegri

È lo stesso tecnico con la passione per i cavalli che si professa da sempre un allenatore anti-assiomatico. Recentemente ha dato alle stampe il suo primo libro e le convinzioni di Allegri sono persino troppo chiare, fin dal titolo: “È molto semplice” (Ed. Sterling & Kupfer), sottinteso il calcio.

Nelle primissime pagine del testo Massimiliano Allegri esplicita ancora più chiaramente: «Io la faccio più breve di qualche teorico che tratta il calcio come una scienza esatta. Lo scopo del gioco è passare la palla ai compagni, privilegiando la soluzione più semplice. Niente di più, niente di meno».

Queste sue posizioni, si sono ancora di più irrigidite la stagione scorsa, quando Allegri è stato messo in contrapposizione con Maurizio Sarri e il suo Napoli bello da guardare e anche efficace, che ha conteso lo Scudetto alla Juventus fino alle ultime giornate. Più volte Allegri è stato richiamato a commentare in TV la presunta dicotomia tra bel gioco e gioco vincente e spesso ha trovato modo di rispondere piccato al suo interlocutore. Nel suo libro, Allegri ha provato a chiarire, usando comunque la sciabola e non il fioretto: «Non riesco proprio a spiegarmi perché si sta riducendo il calcio a troppa teoria. Per esempio, sono fermamente convinto che ci siano momenti di una stagione in cui si può accettare di giocar male pur di vincere. Accontentare la gente ricercando l’estetica è sbagliato».

Insomma, Allegri rivendica il diritto a giocar male pur di arrivare al risultato. Forse è ancora più importante quando, sempre nella sua bibbia calcistica, Allegri si definisce un allenatore aziendalista: un manager che persegue gli obiettivi societari, che lui stesso individua nella rivalutazione economica degli asset aziendali, cioè i propri calciatori.

Allegri ha fatto del rigetto delle scuole filosofiche e del “pensiero unico” calcistico la sua filosofia. Nella sua idea è intorno ai giocatori di livello, già formati nelle proprie caratteristiche tecniche, tattiche e atletiche, che va costruito il sistema, e non viceversa. L’integrazione delle singole parti funziona quando tutti sono messi in condizione di rendere al meglio secondo le proprie qualità, garantendo l’equilibrio nelle due fasi di gioco.

Foto di Tullio M. Puglia / Getty Images.

La partita di ritorno contro l’Atletico Madrid è l’ultima circostanza in cui si è manifestato concretamente il modo in cui il livornese intende il calcio: una rimonta ottenuta con uno stravolgimento tattico mirato ad annullare i punti di forza dell’avversario (ad esempio, con la posizione di Emre Can ad impedire le ripartenze di Griezmann e Morata) ed esaltando le qualità dei propri interpreti (la posizione tra le linee di Bernardeschi garantita dall’ampiezza fornita dagli esterni di centrocampo).

Un altro esempio: nel vivo della stagione 2016/17, Allegri a metà gennaio, in uno scontro di campionato piuttosto importante contro la Lazio (i bianconeri primi in classifica avevano un solo punto di vantaggio sulla Roma, pur con una partita da recuperare) provò il 4-2-3-1 mai utilizzato prima. Allegri disse di “aver deciso una mattina, appena sveglio” il cambio di sistema e che cercava soltanto il modo per mettere tutti i suoi talenti offensivi contemporaneamente in campo. Quel cambio risultò determinante per le sorti della stagione: la Juventus vinse il suo sesto Scudetto e arrivò fino alla finale di Champions League, persa a Cardiff contro il Real Madrid.

Non è che Allegri non ha un’idea di gioco, come dice qualcuno in queste ore, è che piuttosto non ha paura di cambiare idea nemmeno in corso d’opera: i sette minuti nei quali ha sbancato Wembley nella partita dello scorso anno contro il Tottenham, ribaltando il tavolo di una doppia sfida in cui la squadra di Pochettino si era fatta preferire in tutto e per tutto, ne sono forse l’esempio più fulgido.

Mi viene da dire che Allegri utilizzi tutta la prima parte di ogni stagione per accumulare informazioni: al di là degli scontri diretti di campionato e delle serate di Champions League, Allegri sperimenta nelle partite ufficiali. Mette vicini i pezzi e controlla gli incastri, fino a che la figura del puzzle viene fuori nella seconda metà della stagione, da marzo in avanti, quando a detta di Allegri - ma anche del presidente della Juventus Andrea Agnelli - è importante trovarsi ancora in corsa su tutti i fronti.

La Juventus di Andrea Agnelli

I due, presidente e allenatore, puntano allo stesso obiettivo pur partendo da presupposti diversi. Per Allegri è una questione meramente sportiva: se hai lavorato per essere almeno testa a testa prima della volata finale, se hai risparmiato le forze grazie al turnover scientifico, allora puoi giocarti la vittoria finale fino in fondo.

Per Agnelli è anche una questione di sostenibilità del progetto: per garantirsi un ritorno economico – oltre che sportivo e d’immagine – attraverso i premi, i diritti TV e gli incassi al botteghino, in modo tale da permetterle di arrivare al punto di pareggio, la Juventus deve arrivare in primavera ancora in corsa per il campionato e per la Champions League. Come dire: se poi si portano a casa i trofei, tanto di guadagnato.

https://twitter.com/SwissRamble/status/1052452326739505154

Andrea Agnelli è presidente della Juventus dal 19 maggio 2010. Nel 2011 il fatturato della Juventus superava di poco i 150 milioni di euro. Negli esercizi 2017 e 2018 ha registrato importi superiori ai 400 milioni. Se in Italia la forza economica della Juventus non è eguagliabile – il fatturato dei bianconeri supera del 147% quello della seconda, l’Inter – a livello mondiale la società torinese è solo al decimo posto, e le prime cinque del mondo sono su un livello di redditività che attualmente sembra incolmabile.

https://twitter.com/SwissRamble/status/1052452291909967873

Preso atto della situazione economica, la Juventus sembra aver fatto di necessità virtù. Tutte le operazioni di player trading che Marotta, prima, e Paratici, ora, hanno concluso, sono nate da quelle che gli stessi dirigenti bianconeri hanno definito le opportunità che offre il mercato. E parlo sia della rapacità nell’aggiudicarsi degli svincolati a parametro zero – a partire da Andrea Pirlo fino ad arrivare ad Aaron Ramsey – sia dell’operazione che ha portato in dote Cristiano Ronaldo: la Juventus è sembrata attendere gli eventi, fiutare la corrente, fino al momento in cui si è decisa ad assestare l’affondo decisivo.

Nell’estate del 2016, la Juventus sembrava aver cambiato pelle, facendo un po’ come fa il Bayern Monaco in Bundesliga: rifornirsi sul mercato interno, prelevando i giocatori migliori delle dirette concorrenti, anche a colpi di clausole rescissorie. Sembrava che la Juventus potesse cambiare il proprio modus operandi permanentemente, invece se si parla di nomi di primissimo piano si è fermata quell’estate, dopo le acquisizioni di Higuain da Napoli e di Pjanic dalla Roma (certo, continua a investire, e molto, sui giovani, da giocatori come Mandragora, Caldara e Spinazzola, a Bernardeschi che oggi può essere considerato tra i 12-13 titolari di Allegri).

Ma se la Juventus preferisce attendere gli eventi, piuttosto che affidarsi ad una programmazione di lungo termine, è fondamentalmente per due motivi: anzitutto perché non potrebbe competere con i top club inglesi e spagnoli per garantirsi i giocatori migliori in circolazione, perché i livelli economici su cui possono viaggiare Manchester United, Real Madrid, Barcellona, Bayern Monaco, PSG e Manchester City, sono semplicemente troppo in là per le casse della società torinese.

In una simile situazione, per una società che vive ogni sessione di mercato sul filo del rasoio, un allenatore come Allegri, anti-dogmatico, in grado di assemblare una squadra esplorando sul campo ogni possibilità tattica, vale oro. Un allenatore che è sempre stato in grado, finora, di trovare una quadra a livello tattico, lavorando sugli elementi messi a disposizione alla fine delle operazioni di player trading.

Cos’è il DNA Juve

La seconda ragione che spinge la Juventus ad operare sul mercato nel modo descritto, ha a che fare con l’identità profonda del club. La Juventus si considera un club che non può assumersi il rischio di lanciare in prima squadra giocatori ancora da formare, dare loro occasioni di sviluppo in un sistema tattico stabilito a tavolino, affinché possano un giorno, eventualmente, diventare i migliori del mondo.

La Juventus non può regalare neanche una singola stagione, e non c’entrano solo le ragioni di sostenibilità economica. “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta” alla Juve non è soltanto un motto stampato sul retro del colletto, è parte stessa del DNA del club. Giampiero Boniperti, a cui vanno i diritti d’autore della frase, ha incarnato per decenni l’essenza stessa della juventinità. Riguardo al derby col Torino, il vecchio presidente amava dire: «Mi piacerebbe vincerne uno con un autogol al novantesimo».

Quello che poteva sembrare solo un caustico sfottò per animare la vigilia di una stracittadina, in realtà rappresentava il modo d’intendere il calcio in bianconero: vincere sempre, con ogni mezzo, anche immeritatamente, anche esprimendo un brutto calcio. Questo per me è il nodo della questione che spesso viene sottovalutato dai tifosi juventini stessi, più probabilmente da quelli che per ragioni anagrafiche non possono ricordare gli anni di Boniperti e le Juventus del passato. Senz’altro da quelli che si sono trovati di fronte a un vero conflitto filosofico dopo l’eliminazione con l’Ajax, un club dalla filosofia agli antipodi.

Foto di Central Press / Getty Images.

Lo scorso 28 febbraio, otto giorni dopo la sconfitta al Wanda Metropolitano per mano dell’Atletico, Allegri ha sospeso tutti i suoi account social. Pungolato sull’argomento, ha puntato il dito contro i tifosi: «Purtroppo i social sono in mano a tutti. È come mettere il mitra in mano a chi va a fare la guerra: se lo armi, spara. Gente poverina che, quando hanno distribuito l'intelligenza, andava da un'altra parte».

Il grosso delle recriminazioni social di una parte della tifoseria nei confronti di Allegri può essere riassunta così: ora che hai i campioni a disposizione, vogliamo vedere il bel gioco. Vincere non basta più, vogliamo stravincere. Il nocciolo di questa affermazione va in conflitto con l’identità stessa del club: la Juventus non è, e difficilmente sarà mai, il Real Madrid, cioè una squadra che scende in campo per il gusto dello spettacolo, prima che per la vittoria.

Ma se Allegri sta avendo successo alla Juventus è perché il suo sistema di valori, come allenatore e addirittura come uomo, coincide con il sistema di valori fondativi del club. Non è l’unico caso di questo tipo: Diego Simeone è stato un ex giocatore dell’Atletico Madrid, ne conosceva e ne condivideva i valori, che ha utilizzato come una leva, per creare una mistica nuova intorno alla sua squadra ed elevarne le prestazioni ad un livello mai raggiunto prima nella storia dell’Atletico.

E quando il sistema valoriale di un allenatore e quello di un club coincidono, tutte le componenti del lavoro finiscono per legarsi. In caso contrario, l’insuccesso è spesso dietro l’angolo: sulla breve e clamorosamente fallimentare esperienza di Brian Clough, allenatore inglese giovane e vincente, al Leeds United, da imputare proprio ad uno scollamento di valori sul modo di intendere il calcio, sono stati scritti libri e girati film.

Arsene Wenger, mal sopportato negli ultimi anni passati all’Arsenal, è stato uno dei pochissimi allenatori nella storia del calcio a portare a compimento un’impresa titanica, quella di cambiare il DNA di un intero club. L’Arsenal era il “Boring Arsenal”, una squadra speculativa, noiosa per i suoi stessi sostenitori che ancora oggi cantano “One-nil to the Arsenal”: uno a zero per l’Arsenal, il risultato più frequente col quale terminavano le partite dei "Gunners" negli anni Novanta. Wenger ha cambiato il modo dell’Arsenal di intendere il calcio: per riuscirci ha dovuto spendersi quotidianamente per ventidue anni in prima persona ad ogni livello societario, dai ragazzini alla prima squadra. Ha avuto bisogno di un’impresa irripetibile per imprimere il proprio marchio in maniera indelebile: il titolo dell’Arsenal degli Invincibili nella stagione 2003/04, prima squadra dal 1889 a conquistare una Premier League senza perdere una sola partita.

Chiedere alla Juventus di sostituire Allegri per avere un gioco diverso è una contraddizione. Questa società ha scelto questo allenatore. È come chiedere alla società di cambiare se stessa, di mutare geneticamente. Cambiare il DNA di un club è possibile, Wenger lo ha dimostrato, e forse anche la Juventus sta muovendo i passi in quella direzione (come dimostrano in parte le parole di Stefano Baldini e Giovanni Valenti sul settore giovanile bianconere, che trovate nella nostra intervista). Ma il cambiamento richiede una dedizione quotidiana, quasi fideistica, una comunione di intenti di ogni singolo componente della società, perché i risultati di questo processo si vedranno forse solo tra vent’anni. Nel frattempo la Juventus dovrà convivere ogni singolo anno con la spada di Damocle della vittoria a tutti i costi, che richiede di concentrare tutti gli sforzi oggi.

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