Abbiamo avuto modo di partecipare a una tavola rotonda insieme a Son Heung-min e Erik Lamela, con altri giornalisti da tutto il mondo, per discutere di alcuni dei temi della docuserie All or Nothing: Tottenham disponibile su AMAZON PRIME VIDEO (ora anche con i sottotitoli in italiano). Nel testo abbiamo integrato alcune nostre riflessioni con le risposte che ci hanno fornito i due giocatori.
L’importanza di Moussa Sissoko e i problemi di Tanguy Ndombele
Durante i suoi primi giorni al Tottenham Mourinho sparge i suoi uccellini come Varys, il consigliere politico di Game of Thrones, per capire lo spogliatoio della squadra prima di capirlo. In quei primi giorni gli dicono che Moussa Sissoko è molto influente nello spogliatoio, che è il tipo di informazione che forse non avremmo mai appreso senza la serie tv. Il tipo di informazione che può sorprenderci, e che infatti forse sorprende Mourinho, altrimenti come dovremmo interpretare il suo “Fuck!”? Era una cosa che lo preoccupava per qualche ragione?
Dopodiché questa influenza non è così percepibile dalla tv, tranne quando Sissoko segna e viene acclamato nello spogliatoio con i cori che si riserverebbero a un re. Lo sentiamo parlare pochissimo, ma spesso le persone parlano di lui, e sempre in toni elogiativi. Diventa importante nell’ultima puntata, quando viene affrontato il tema di Tanguy Ndombele. Come viene gestito all’interno di un club il flop dell’acquisto più costo dell’ultimo calciomercato?
È una delle parti più interessanti di All or nothing. Ndombele viene richiamato a un colloquio con lo psicologo del club, in cui è presente anche il presidente Levy. È un colloquio interessante: il tuo capo ti convoca per capire perché lavori male, ma in sostanza non può cacciarti e sa che una cattiva manipolazione psicologica non può che peggiorare le cose. Levy dice che ci vuole fortuna perché un nuovo acquisto renda bene nel club, e forse ha ragione: per quante cose possiamo cercare di controllare, la dimensione umana di un trasferimento non sarà mai pienamente in controllo dei club. Durante il colloquio Levy dice che Sissoko ha avuto gli stessi problemi di Ndombele, ma dice anche che «Moussa è un grande combattente», come a voler sottintendere che lui non lo sia.
Levy poi racconta una parabola personale, su quando gli era stato chiesto di lasciare la scuola, e dice di essere anche lui un lottatore. È strano come provi a mettersi su un piano superiore a Ndombele, che è pur sempre un ragazzo di origini congolesi cresciuto alla periferia di Parigi.
L'incidenza degli infortuni sulla stagione del Tottenham
«Ogni volta che proviamo a rimettere la testa fuori ci arriva un calcio fra i denti» dice Mourinho affranto in una scena di All or Nothing, parlando degli infortuni che hanno falcidiato la stagione del Tottenham. Lungo tutta la serie gli infortuni sono un tema fondamentale, la serie sembra girarci intorno come Breaking Bad gira intorno alla produzione di metanfetamine. Influiscono sulle scelte di Mourinho, della società, dello staff. Ancora prima del suo arrivo a infortunarsi è Hugo Lloris, portiere e capitano della squadra, la cui importanza anche emotiva sulla squadra sarà evidente dopo il suo ritorno. Durante la prima partita dell’allenatore portoghese è Ben Davies a infortunarsi gravemente ai legamenti della caviglia sinistra.
Gli infortuni, piccoli e grandi, iniziano a crescere proprio nel momento più caldo della stagione, che per il calcio inglese è sotto le festività natalizie, quando il Tottenham è chiamato a giocare 8 partite in un mese. Geoff Scott, il capo dello staff medico del Tottenham, diventa uno dei personaggi più importanti della serie: le scene in cui si incontra con Mourinho per fare la conta degli assenti sono le più drammatiche, sembrano ricostruzioni di tempi medievali in cui i consiglieri andavano dal Re a dare brutte notizie.
Inizialmente la reazione del Tottenham è comunque positiva: Mourinho può attingere al settore giovanile, su cui negli ultimi anni la società ha puntato molto, tirando fuori un giovane di belle speranze come Japhet Tanganga. Nato a pochi chilometri dallo stadio, entrato nelle giovanili a 10 anni, è il classico prodotto locale che i tifosi adorano e che arriva a esordire nella sfida più importante della stagione, contro il Liverpool già lanciato verso il titolo. La sua è una delle poche storie felici, in una stagione piuttosto nera per la squadra inglese.
Ma la situazione precipita e gli infortuni smettono di essere un’opportunità per diventare una tragedia greca: contro il Southampton Kane segna un gol (annullato) e poi si tocca una coscia chiedendo il cambio. Sembra uno di quegli infortuni muscolari che richiedono pochi giorni per risolversi, ma i medici si accorgono subito che potrebbe essere più grave. Nella serie si vedono i compagni fare previsioni spaventate mentre attendono il risultato dell’ecografia. Alcuni incrociano le dita, Dele Alli sentenzia «se non è al tendine non dovrebbe essere grave», poi lo si vede in una scena simil-confessionale dire che gli infortuni «ti fanno fermare il cuore, perché sai».
Vediamo anche le reazioni nel momento in cui arriva la notizia che Kane dovrà fermarsi per almeno 12 settimane. Scott la riceve al telefono ed esclama come tramortito «Oh my God»; di Kane vediamo la faccia l’espressione del volto in primo piano imbambolato.
L’espressione più simile alla frase “gli è caduto il mondo addosso” che potete vedere.
Mourinho, che nella stessa partita ha perso anche Moussa Sissoko per un problema al ginocchio, riceve la notizia da Scott mentre è sul campo d’allenamento a passare palloni ai suoi giocatori che eseguono un esercizio. La sua reazione è impercettibile, un «ma dai» buttato lì come quando rovesci un bicchiere d’acqua sulla tavola. Subito dopo intima ai suoi giocatori di cambiare lato per l’esercizio, come se non avesse appena perso per la parte più importante della stagione uno dei migliori attaccanti al mondo, nonché l’unico vero in rosa.
Le cose cambiano quando si avvicina al suo vice Joao Sacramento e gli dice solo «Tre mesi, minimo». L’altro reagisce sbuffando, Mourinho aggiunge solo, in portoghese, «siamo fottuti». È solo l’inizio di una spirale che getta l’allenatore nello sconforto, fino ad arrivare all’infortunio di Son, il giocatore che si era preso le maggiori responsabilità in campo in assenza di Kane.
È forse una delle scene più ambigue della serie. Son subisce un infortunio al braccio contro l’Aston Villa, ma rimane in campo e segna il gol decisivo nei minuti di recupero. Il giorno successivo però i medici vogliono fare delle lastre per capirne la gravità. Son non è d’accordo, è convinto che se non viene rilevata l’entità del suo infortunio, potrà continuare a giocare e non deludere i suoi compagni. Ma i medici lo convincono che è la cosa giusta da fare e la diagnosi è tremenda: c’è un brutta frattura vicino al gomito.
Abbiamo chiesto a Son di ricostruire questo momento e soprattutto come si è comportato Mourinho: «Mi sono fatto male durante la partita con l’Aston Villa, non volevo sottopormi alla lastra perché volevo giocare. La sua reazione è stata “fai quello che vuoi, quello con cui ti senti a tuo agio”».
Nel documentario vediamo la reazione dell’allenatore portoghese dopo aver saputo che la frattura di Son è più grave del previsto e il giocatore deve essere operato. Mourinho, che si è rasato a zero come un bonzo forse per cercare dentro di sé una pace interiore, nega semplicemente la realtà. Son può giocare con un braccio rotto. Racconta che anche lui ha avuto la stessa frattura ma che ha continuato a giocare. Teneva il braccio ingessato per tutta la settimana, poi il giorno della partita glielo sostituivano con una fasciatura e lui giocava. Lo racconta quasi urlando, come se fosse lui il capo dei medici.
Nella sua risposta Son sembra giustificare questa sua reazione che ai nostri occhi potrebbe sembrare egoista: «La sua reazione è stata di tristezza, perché come allenatore quando vedi qualcuno che si infortuna è triste, devastante. Lui era giù, come si vede nel documentario. Giocatori, allenatore, nessuno vuole che qualcuno si faccia male, quindi credo lui sentisse lo stesso come allenatore e come essere umano».
In assenza di Son, ad entrare nella formazione titolare dovrebbe essere Erik Lamela. Ma l’argentino è uno di quei giocatori che deve convivere con gli infortuni come se fossero l’ossigeno per respirare. In quasi tutte le scene in cui appare sta curando qualcosa, o la ricaduta di qualcosa. In una scena lo vediamo tornare sui campi di allenamento dopo un infortunio e fermarsi praticamente subito dopo: ha sentito qualcosa a un muscolo della coscia che alla fine si rivela essere un infortunio più grave del previsto.
«Per me è stato difficile affrontare gli infortuni, come si vede nel documentario», ci ha detto Lamela «Ovviamente avrei voluto che non rimanesse di me solo questa impressione nella serie. Nell’ultima stagione ho sofferto un lungo infortunio e riguardandolo so di cosa si tratta, anche se la gente da fuori forse non capisce. Ma il calcio è così: tanti giocatori si infortunano, fa parte del gioco. Il documentario mette in mostra come recuperiamo dagli infortuni ma anche quanto è difficile quando ti fai male». Dopo la tormentata stagione passata, per fortuna adesso Lamela sta attraversando un periodo di relativa tranquillità e sta riuscendo a ritagliarsi di nuovo un suo spazio. Sarebbe stato interessante vedere questo suo momento in una seconda stagione di All or Nothing: Tottenham, che però purtroppo non è prevista.
Il rapporto tra i compagni
L’unico aspetto di una squadra che non viene modellato dai risultati - o almeno non totalmente - è il rapporto tra i giocatori. In All or Nothing si nota la naturalezza con cui i giocatori del Tottenham si rapportano l’uno con l’altro. La squadra inglese è uno dei pochi club di prima fascia che è riuscito a tenere intatto un buon nucleo di giocatori per diversi anni e la complicità tra di loro si può vedere in molte delle scene del documentario. Toby Alderweireld e Jan Vertonghen giocano insieme da quando erano nelle giovanili dell’Ajax praticamente. Il loro rapporto ha raggiunto quel livello d’intesa delle persone che si conoscono da sempre, che quando sono insieme sembrano una famiglia allargata, fratelli più che colleghi.
Lo dice chiaramente Eric Dier mentre lo vediamo giocare a FIFA con Bergwijn e Dele Alli: «Se ho un buon rapporto con le persone fuori dal campo, sento che il nostro legame è più forte in campo». L’amicizia tra di loro, come gruppo e come singoli, riempie i momenti più rilassati del documentario, nonostante in qualche modo l’allenatore provi a metterli l’uno contro l’altro, almeno sportivamente parlando, perché pensa che i giocatori del Tottenham «siano troppo buoni». Son si arrabbia per un’entrata dura da parte di Dier in un allenamento particolarmente intenso, poi litiga con Lloris per un rimprovero a fine primo tempo di una partita. Eppure l’amicizia tra i giocatori pare particolarmente vera e, in maniera non banale, complice nelle fortune del Tottenham.
Nel documentario tra i vari rapporti molto stretti viene dedicato uno spazio speciale alla complicità tra Son e Kane, molto evidente nella scena in cui si allenano insieme al rientro dai rispettivi infortuni. Son sembra allegro anche quando parla con noi del suo rapporto con H. (durante l’intervista lo chiama proprio così, H.): «Lavoriamo insieme da più di 5 anni. Ci intendiamo molto, viviamo vicini, ogni tanto andiamo all’allenamento o in aeroporto insieme, torniamo a casa insieme. Ho un rapporto stretto con ogni giocatore della squadra, ma certamente con H. c’è un’intesa speciale».
È un rapporto che funziona anche in campo: contro il Southampton, poco meno di un mese fa, Son ha segnato 4 gol, su 4 assist di Kane. «Harry semplicemente mi capisce. Con lui non devo fare troppo lavoro, perché la sua qualità è unica. Ovviamente mettiamo molto impegno, parliamo spesso di ogni singola situazione di gioco, anche durante gli allenamenti, le sedute tattiche. Come si dice “la pratica ti rende perfetto”, noi ci mettiamo molto impegno per migliorare».
Il rapporto con le telecamere
Guardando All or Nothing è facile dimenticarsi che non siamo lì, ma che stiamo assistendo a un prodotto filmato. In questo tipo di documentari si cerca il più possibile di nascondere l’occhio della telecamera, farci sentire in maniera naturale nello spogliatoio mentre Mourinho fa i suoi discorsi motivazionali o a pranzo con i giocatori mentre parlano delle voci di mercato. Ma per i giocatori è stato lo stesso, avendo invece le telecamere di Amazon a scrutarli in ogni momento? Come hanno reagito davanti alla presenza delle telecamere anche nei loro luoghi più sacri, quelli che storicamente si considerano “privati” (fin dentro "lo spogliatoio", un topos della cultura sportiva, il luogo mistico dove le cose accadono lontano dagli occhi dei comuni mortali).
Per Son non è cambiato nulla: «No, avere le telecamere davanti non ha cambiato il nostro comportamento» anche se poi, in parte, si contraddice, ammettendo come in alcuni momenti si dimenticavano della presenza delle telecamere e si sentivano più a loro agio «come ad esempio nel ristorante, dove teniamo discorsi più rilassati, sul calcio, la vita».
Per Lamela, invece, avere le telecamere davanti tutto il tempo «all’inizio è stato strano», ma lentamente si è abituato: «Abbiamo parlato tra di noi di questa cosa diverse volte. In mezzo alla stagione, però, però ci siamo dimenticati delle telecamere e ci comportavamo come se non ci fossero state».
Eppure, anche rispetto al precedente All or Nothing: Manchester City, in questa stagione non sono mancate scene molto intense, difficili da immaginare accadere sotto l’occhio di una telecamera. Abbiamo potuto assistere - ad esempio - al “dietro le quinte” dell’accesa discussione tra Lloris e Son, che alla fine del primo tempo di una partita di Premier sono quasi arrivati alle mani in campo, prima che i compagni li riportassero nello spogliatoio (come poi si vede nel documentario). Abbiamo chiesto al giocatore coreano se è stato strano rivedersi in quel momento e se le telecamere hanno in qualche modo influito sulle loro reazioni: «Con Hugo… è successo durante la gara, volevamo vincere, eravamo nervosi, ma dopo la gara è andato tutto a posto rapidamente. Non abbiamo modificato il nostro comportamento».
Nessuno dei due, però, ha mai pensato di eludere le telecamere, cercare di nascondersi. «Onestamente ho fatto tutta la stagione come sempre, non ho mai provato ad evitare delle cose» ci ha detto Lamela. L’argentino ha accettato con filosofia la presenza di un occhio indiscreto, anche se la sua non è stata una stagione fortunata, come abbiamo visto: «Quando ero infortunato, e non ero dell’umore migliore, comunque non ho fatto caso alle telecamere, ero normale. D’altra parte il documentario è stato fatto proprio per questo: per mostrare cosa succede dietro le quinte, come ci prepariamo durante la settimana e prima di una partita». Anche Son sembra aver capito come le telecamere non fossero lì per spiarli, ma per creare un prodotto d’intrattenimento. Dopotutto, in maniera diversa, anche i calciatori fanno parte di quell’industria: «Certo ci sono dei momenti più buoni, molti altri meno, soprattutto tanti infortuni. Questa situazione è stata sicuramente positiva per Amazon e per il pubblico, ma per noi è stato un po’ triste da guardare».