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05 feb 2016
Se i calciatori sono solo lavoratori ben pagati noi cosa tifiamo? Le storie di Benoit Assou-Ekotto, Ricardo Goulart e Dario Conca.
(articolo)
12 min
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Nella prima puntata di Mercenari mi ero chiesto cosa sarebbe successo se nel mondo del calcio fosse continuato a vigere il divieto di qualunque retribuzione, com’era tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Avevo immaginato un universo parallelo in cui i mercenari non esistono e l’aristocrazia è l’unica a potersi permettere di giocare a calcio con continuità, al punto da farlo diventare uno sport di nicchia, rappresentativo dell’intera categoria, come nel nostro universo sono la caccia, il polo o il dressage.

In questa puntata, invece, provo a fare il contrario: immaginare cosa succederebbe se nel calcio esistessero solo i mercenari. Cioè, se tutti i calciatori si spostassero da un club a un altro esclusivamente per denaro. Se il calcio diventasse davvero un lavoro come un altro (sempre che esista un lavoro che non possa definirsi in questo modo), depurato da ogni tipo di sentimentalismo e sovrastruttura, con scatti automatici di carriera basati sul rendimento e tutto il resto.

E, chissà, se i club fossero semplici aziende alla ricerca del profitto, la rivalità con altri club e valori come l’attaccamento alla maglia sparirebbero del tutto. Sarebbe un mondo migliore o peggiore?

Ricardo Goulart: l’inconsapevole

Chi è già entrato in un universo di questo tipo, anche se forse inconsapevolmente, è Ricardo Goulart. Nato e cresciuto (calcisticamente) al Santo André, Goulart si afferma molto presto nel massimo campionato brasiliano passando nel gennaio del 2013 al Cruzeiro. Qui diventa un idolo dei tifosi vincendo nel 2014 il campionato e poi la Bola de Ouro, il pallone d’oro brasiliano.

L’offerta irrinunciabile arriva nel gennaio del 2015, quando il Gangzhou Evergrande arriva a pagarlo 15 milioni di euro, la cifra più alta mai sborsata da un club cinese fino a quel momento per un calciatore. E possiamo solo immaginare le cifre del contratto quadriennale, perché non vengono svelate al pubblico. Anche se possiamo immaginarla bella grossa, perché alla fine come in tutti i mercati del lavoro anche nel calcio le aziende devono ritoccare i contratti al rialzo se vogliono che i propri dipendenti accettino destinazioni lontane o svantaggiose. Goulart al momento del trasferimento in Cina ha 23 anni.

Una foto pubblicata da Ricardo Goulart (@ricardogoulart11) in data: 22 Mar 2015 alle ore 03:08 PDT

Goulart esulta con la maglia del Guangzhou. La didascalia: «Andando a un’altra partita. Porto con me l’allegria di realizzare con molta passione il dono che Dio mi ha dato».

Nelle sue prime parole dopo l’ufficialità del trasferimento c’è la fiduciosa consapevolezza di dover superare gli ostacoli che la sua scelta gli porrà di fronte: «Il mondo ormai è così connesso che tutti sanno quello che succede in Cina o in Inghilterra. Dovrò fare tutto ciò che posso per attirare l’attenzione su di me». La strategia di Goulart è quella di fare il percorso opposto a quello che di solito fanno i giocatori brasiliani: arrivare in Europa passando per la Cina, emergendo così in un posto di lavoro più retribuito e meno competitivo. La sua è una scalata professionale atipica, e solo apparentemente più semplice. La prima stagione in Cina è esplosiva: segna 27 gol e 16 assist tra campionato cinese e Champions League asiatica vincendo il premio MVP in tutte e due le competizioni. A un anno di distanza dal suo trasferimento, però, gli effetti sperati ancora latitano: l’interesse dell’Europa non si è certo scaldato e Dunga si ostina a non convocarlo in Nazionale, nonostante la penuria di attaccanti.

Una foto pubblicata da Ricardo Goulart (@ricardogoulart11) in data: 15 Mar 2015 alle ore 05:42 PDT

Goulart fa il churrasco in Cina «senza dimenticarsi delle origini».

Alla fine dell’anno scorso, nonostante la fiducia cieca nei confronti della globalizzazione, Goulart inizia a perdere qualche certezza: «Il calcio cinese non è così male come dice la gente. Non c’è grossa differenza con quello brasiliano. Anche i cinesi sanno giocare la palla ed hanno una buona struttura. È un nuovo mercato che stiamo iniziando a conoscere».

Solo qualche settimana fa, in un’intervista, Goulart ha probabilmente iniziato a rendersi realmente conto della sua scelta: «La via che avevo scelto di seguire non sta funzionando fino a questo momento. Sto seguendo un’altra strada per andare a giocare in Europa. Il mio sogno è giocare lì».

Le parole di Goulart sono quelle di chi è rimasto intrappolato in una scelta sbagliata: «Ci sono cose della nostra vita che capiamo solo dopo che sono accadute».

Boa sorte, Ricardo.

Assou-Ekotto: l’onesto

Benoît Assou-Ekotto è uno dei primi calciatori che ha parlato fin da subito con franchezza della condizione di calciatore come lavoratore. Il camerunense, nato in Francia, è diventato particolarmente famoso nel 2010 quando ha dichiarato in un’intervista al Guardian che il calcio non è la sua passione e che ci gioca esclusivamente per lo stipendio che gli garantisce.

Nel 2010 è al Tottenham già da quattro anni, dopo una prima parte di carriera passata al Lens. Per lui, che sembra non provare nessun tipo di attaccamento alla Francia (nella stessa intervista dichiara che la Francia non vuole che gli immigrati facciano parte della società e «quindi ci identifichiamo più con le nostre radici»), il trasferimento è solamente un gradino scalato nella sua carriera e i soldi sono lì a certificare quello.

Una foto pubblicata da AssouEkottoOff (@assouekottooff) in data: 13 Set 2015 alle ore 09:51 PDT

La foto di un’intervista ad Assou-Ekotto sul suo profilo Instagram. La didascalia: «Odiatemi o amatemi. Sono troppo onesto per questo lavoro… Non sono ancora pronti».

«Non capisco perché mentono tutti. Il presidente del Lens, Gervais Martel, ha dichiarato che me ne sono andato per prendere più soldi in Inghilterra e che non me ne frega niente della maglia. E io ho detto: C’è per caso un giocatore che firma per un club dicendo: Oh quanto mi piace la vostra maglia, la tua maglia è rossa, mi piace? Non interessano a nessuno queste cose: la prima cosa di cui si parla sono i soldi». Poi continua: «Tutti, tutti, cercano un lavoro per i soldi. Quindi non capisco perché, quando dico che gioco per i soldi, le persone rimangono scioccate. Oh, è un mercenario. Tutti i calciatori lo sono».

Una foto pubblicata da AssouEkottoOff (@assouekottooff) in data: 24 Ott 2013 alle ore 02:10 PDT

Assou-Ekotto sul treno per andare al campo d’allenamento. Una persona come tante.

Assou-Ekotto ha scoperto in giovane età il valore effimero del suo talento, la mortalità della sua carriera di calciatore. Nel dicembre del 2006, infatti, ha avuto un grave infortunio al ginocchio che, secondo quanto dichiarato alla BBC, gli ha fatto cambiare idea sul suo lavoro: «Prima i soldi continuano a fluire sul tuo conto e va tutto bene, ma quando ti dicono che la tua carriera potrebbe finire a 22 o 23 anni… Forse è per questo che sono cambiato».

Nella realtà dei fatti Assou-Ekotto è un calciatore molto più “romantico” di quanto si possa pensare. Ha scelto la Nazionale camerunense anche per questioni identitarie, nonostante quella francese gli garantisse molto più mercato (non ha ricevuto chiamate ufficiali ma avrebbe potuto aspettarle considerando che giocava in un campionato importante); ha cambiato squadra solo tre volte: dopo Lens e Tottenham, ha vestito solo le maglie di Queens Park Rangers e Saint-Etienne; e a Londra ha sviluppato un rapporto con il quartiere d’appartenenza che va ben oltre la fondazione da lui costituita per aiutare i giovani che vogliono intraprendere degli studi in matematica, ingegneria, tecnologia e scienza.

Assou-Ekotto prendeva la metro con la gente comune e all’intervistatore della BBC che non gli credeva quando glielo ha detto ha tirato fuori la sua personale Oyster Card (l’abbonamento per la metro di Londra).

Dopo le rivolte che hanno sconquassato Londra nell’estate del 2011, Assou-Ekotto si è fatto filmare mentre gira per il quartiere e sulla scia di quella esperienza ha proposto che i calciatori di Premier League donassero l’1% o il 2% del proprio stipendio alle comunità d’appartenenza dei club.

Dopo aver chiuso la parabola ascendente della sua carriera con l’esperienza in Premier League, Assou-Ekotto è tornato in Francia, al Saint-Etienne, dove ha famiglia e amici.

Una foto pubblicata da AssouEkottoOff (@assouekottooff) in data: 18 Lug 2015 alle ore 06:48 PDT

«Non sono venuto al Saint-Etienne per i soldi ma per il calcio».

Alla luce di quanto detto, l’accusa di essere un mercenario appare ancora più paradossale: le sue scelte sono quelle di una persona normale, con l’unica differenza che il suo lavoro gli garantisce uno stipendio di molto più alto rispetto a quello di quasi qualsiasi altra persona.

Sarà possibile un giorno che il suo modello diventi la normalità? I calciatori saranno un giorno identificati solo come persone ricche? E cosa ci rimane da raccontare, tifare, comprare se i calciatori diventano solo degli impiegati?

Dario Conca: lo gnorri

Un esempio di ciò che in Assou-Ekotto rimane solo in potenza è la storia del calciatore argentino Dario Conca. Se oggi tra queste righe trovate il suo nome, infatti, è quasi esclusivamente per lo stipendio che recepisce.

Fino al 2011 la storia di Conca è invisibile al grande pubblico europeo, merito di una carriera del tutto latinoamericana. Conca inizia nelle giovanili del Tigre, poi passa al River Plate dove si scopre un giocatore solo leggermente sopra la media. Viene mandato in giro per l’America Latina in prestito: prima all’Universidad Catolica, poi al Rosario Central, poi al Vasco de Gama, infine al Fluminense.

In Brasile nasce una strana storia d’amore. Nel 2008 Conca arriva in finale di Copa Libertadores con il Fluminense e l’anno successivo viene votato come miglior giocatore del campionato brasiliano, un premio che successivamente descriverà come il più importante di tutta la sua carriera.

È il picco di maggiore attenzione mediatica per Conca che, per sua fortuna, arriva anche nel momento di massima maturazione fisica. Ma nonostante ciò, il centrocampista argentino non entra all’interno del circuito d’attenzione globale. Non riesce a farsi convocare dalla Nazionale argentina e allora dà la propria disponibilità a giocare per quella brasiliana che, però, a sua volta lo scarta. Passa altre due stagioni al Fluminense mentre i rumor di mercato si affievoliscono piano piano.

La svolta arriva, per l’appunto, nell’estate del 2011 quando finalmente si presenta l’offerta giusta. Anche in questo caso dalla Cina, dal Guangzhou Evergrande, che a fronte di un spesa per il trasferimento sostanzialmente modesta (secondoLa Gazzetta dello Sport circa 7 milioni di euro) gli offre uno stipendio completamente fuori mercato: un contratto di due anni e mezzo da circa 10 milioni di euro a stagione. Conca diventa il quinto giocatore più pagato al mondo (dopo Cristiano Ronaldo, Rooney, Messi e Yaya Touré) e il suo nome finisce finalmente su tutte le prime pagine sportive dei giornali.

Conca ricorda il personaggio interpretato da Benigni in To Rome with Love di Woody Allen che si ritrova ad essere famoso in maniera inaspettata e del tutto casuale. Tra i tanti titoli che girano su di lui in quel periodo il mio preferito è quello del quotidiano australiano The Sydney Morning Herald: “Dario Conca guadagna $10.4 milioni l’anno. Ma chi è?”.

Interessa talmente poco la sua storia sportiva che nel giro di due anni il suo nome è già sparito. Sul Daily Mail, ad esempio, si legge: «Che fine ha fatto l’uomo da 170mila sterline alla settimana che una volta rivaleggiava con Ronaldo e Messi per essere il calciatore più pagato al mondo?».

A nessuno interessano i suoi frequenti malumori in Cina. In un’intervista del gennaio del 2012, ad esempio, al programma televisivo brasiliano Esporte Espectacular, Conca parla dei suoi problemi: in cinese non sa dire nemmeno ciao, in campo non parla con nessuno e per capire l’allenatore, che è coreano, ha bisogno di una doppia traduzione. Quando annuncia che il suo bambino nascerà a maggio in Cina, lo dice con lo stesso entusiasmo dell’esiliato.

Dichiarazioni che finirebbero nella categoria dell’accusa o dello scandalo per qualsiasi altro giocatore, mentre l’intervista a Conca rimane su un tono scherzoso, quasi demenziale. Subito dopo che il centrocampista argentino dice che «è complicato vedere che tutti gli altri stanno parlando, ridendo, mentre tu non capisci» in sottofondo si sente suonare una specie di tamburo cinese. L’intervistatore lo tratta come un amico a cui è stato offerto un contratto vantaggioso dall’altro capo del mondo che si lamenta per il cibo.

Una foto pubblicata da Dario Conca (@concaoficial) in data: 30 Apr 2014 alle ore 06:01 PDT

Dario Conca con il figlio, in campo.

Nel maggio del 2012 finisce per prendersela direttamente con il proprio allenatore. Sul suo profilo Weibo scrive: «Non capisco perché mi sostituiscono sempre con la scusa che sono stanco e ho bisogno di riposo. Come avrei potuto segnare un rigore cruciale se non ero in condizione? E perché l’allenatore fa sempre riposare Conca?», parlando di sé in terza persona. A causa di questo messaggio la dirigenza decide di tenerlo fuori squadra per nove partite e di multarlo per una cifra vicina ai 160mila dollari. Poco dopo rischia di essere multato di nuovo, portando suo figlio sul campo da gioco durante una partita di Asian Champions League nonostante le regole della competizione lo vietino.

Il suo ritorno al Fluminense, nel gennaio del 2014, potrebbe essere visto come la chiusura di un cerchio, il ritorno a casa, la redenzione. E invece dopo appena un anno Dario Conca torna in Cina, questa volta allo Shangai SIPG, ancora una volta allettato da un contratto stellare da quasi 11 milioni di dollari a stagione.

Non c’è nessun eroismo, riscatto o lotta contro i propri limiti nella storia di Dario Conca, nulla di spendibile. Dario Conca già non è più un calciatore, è solo un miliardario che gioca a calcio.

Una foto pubblicata da Dario Conca (@concaoficial) in data: 31 Lug 2014 alle ore 03:00 PDT

Tutte le foto del profilo Instagram di Dario Conca sono automaticamente autografate. Gli hashtag si dividono sostanzialmente in #minhavida (la mia vita) e #minhacarrera (la mia carriera). Qui dei fan cinesi tengono un cartellone senza entusiasmo.

E questa non è una differenza di poco conto. Qualche settimana fa Daniele Manusia scriveva acutamente in un pezzo: «Se la cosa che conta dei calciatori è che facciano il loro lavoro allora perché vendono scarpe, magliette, cuffie, prodotti per i capelli, abbonamenti telefonici…?».

Il paradosso verso cui il calcio moderno si sta avvicinando sempre di più, spinto ulteriormente dalla globalizzazione, è proprio questo: da una parte ha bisogno di storie per vendere biglietti, sciarpe e bandiere, abbonamenti telefonici, dall’altra si sta dirigendo verso il punto in cui è sempre più palese che queste storie sono fittizie e costruite a tavolino. Se i calciatori diventano “normali” lavoratori specializzati, per quanto ben pagati, attirare tifosi dentro uno stadio o consumatori dentro un negozio sarà sempre più difficile.

E se potremmo sempre di più identificarci con i mercenari in quanto persone, presto diventerà impossibile farlo in quanto tifosi.

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