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Che bello veder giocare Soulé
03 ott 2023
L'argentino è una delle rivelazioni di quest'inizio di campionato.
(articolo)
10 min
(copertina)
IMAGO / Giuseppe Maffia
(copertina) IMAGO / Giuseppe Maffia
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Per quanto possiamo sforzarci di non cadere nella trappola riduttivista, nella semplificazione brutale, nella decontestualizzazione, ci sono giocate che, compiute in un certo momento da un certo giocatore, si cristallizzano, come la famosa zanzara nell’ambra. Il gesto al quale sto pensando, di cui si è reso protagonista il calciatore a cui sto pensando, è questo:

Matías Soulé Malvano, spalle alla porta avversaria, va incontro alla palla; è nella sua metà campo, in una zona innocua, una porzione di campo che, se diciamo che la fascia destra d’attacco è casa sua, sarebbe il giardino sul retro. Frosinone - Fiorentina è iniziata da appena otto minuti, le squadre si stanno prendendo le misure, come si dice, e forse è esattamente in quell’istante che Lucas Martínez Quarta e Michael Kayode hanno un presentimento, la percezione di un suono quasi impercettibile, lo sfibrarsi del velo di Maya forse, il sibilo che preannuncia lo squarcio. Magari pensavano a una serata tranquilla, quando si sono trovati di fronte all’irruzione dell’imprevedibile, del fastidio dell’inafferrabile.

Il giovane argentino del Frosinone ammaestra – senza ammaestrarla davvero – la palla con il sinistro: la sua è una carezza che forse non ha mai la pretesa di trasformarsi in un’arpionata, e che finisce per rivelarsi assist vai a capire quanto consapevole, di certo funzionale. Con un movimento fulmineo, nervoso, alza la palla sopra la testa di Martínez Quarta, sempre con il piede sinistro; il controllo di coscia è l’interludio che precede un altro arco iridescente disegnato sulla testa, stavolta, di Kayode, che resta imbambolato a guardare, con l’espressione posturale di chi si trova nudo al mare per il primo bagno d’estate. Il colpo finale, il triplice botto che chiude gli spettacoli pirotecnici, è l’appoggio che Soulé compie di mezzo esterno, stendendo la gamba come un judoka sul tatami, al compagno al centro del campo. Ovviamente, sempre di sinistro.

Una giocata del genere, dal vivo, l’avevo vista fare una sola volta: Cafù aveva deriso Pavel Nedved in un derby di tanti anni fa, e da quella giocata – non già più decontestualizzata, perché comunque capitata in un derby piuttosto acceso, con la squadra di chi snocciolava il gesto di umiliazione in vantaggio – era tracimato un effluvio di futebol bailado che l’aveva resa iconica. Potremmo dire lo stesso, della prodezza di Soulé, che sembra – diciamocelo, che è – avulsa da ogni dinamica mitopoietica? Probabilmente no: è però innegabile che sia piena di significati, soprattutto per noi che la osserviamo.

I dribbling volanti sono sempre più affascinanti di quelli a terra: sono più eterei, galleggiano nel limbo dell’infinitamente possibile, a mezz’aria. E poi, nel sombrero, ancor prima dell’arroganza dell’affronto c’è l’afflato nobile dell'elevarsi dalle insidie terrene, dalle buche, dalla zolla che può deviare il corso del pallone, le insidie che gli argentini hanno imparato a conoscere sul potrero (e trovo particolarmente interessante che il primo a cascarci, a non immaginare quel potenziale sviluppo, Martínez Quarta, sia chiaramente argentino). Evitare l’avversario scavalcandolo è un gesto la cui riuscita dipende soltanto dalla tua sensibilità tecnica, casomai dalla fiducia che riponi nei tuoi mezzi. Il punto, in effetti, è proprio questo: Matías Soulé è esattamente un calciatore dai grandi mezzi tecnici, che in questo periodo della stagione si trova baciato dalla fiamma sacra della consapevolezza.

E per noi, quel doppio sombrero, anche se dietro Soulé c’è qualcosa di più, è stato un colpo al cuore, il prodromo di un innamoramento, il battito di ciglia di una donna che non ci fa più dormire.

Intendiamoci, sombreros Soulé ne aveva già fatti, e probabilmente continuerà a farne: ce n’è uno con la Juventus NextGen, contro il Vicenza, e un altro – peraltro di tacco – contro lo Standard Liegi.

«Mi piace gambetear [dribblare, nda], ma non so a chi somiglio. Non sono tanto tipo da firulete o bicicleta, però mi sento a mio agio a giocare da enganche, dando passaggi» ha detto in un’intervista qualche tempo fa. Il firulete, una parola mutuata dal linguaggio del tango, è l’orpello, il gesto spesso complicato che il ballerino inscena per impreziosire la sua prestazione. La bicicleta, invece, è quella giocata in cui fai scivolare il pallone dall’interno al tacco per alzartelo dietro la schiena. Soulé, in effetti, non è un baller, un giocoliere schiavo dell’arte per l’arte. Eppure, tutta la fascinazione del suo calcio è proprio nel dribbling.

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E il dribbling, nel calcio, è l’incarnazione più sublime della spensieratezza: quando la palla scivola tra i suoi piedi, Soulé non è poi molto diverso, oggi, da quel ragazzino che era ieri, quando con la maglia del Kimberley si incuneava tra orde di avversari ragazzini, ripreso dal padre Néstor, il cui nome porta tatuato sull’avambraccio.

Sonia Abadi (nel suo Bazar degli abbracci, edito in Italia da Abrazos) ha scritto che «ballare il tango è non accontentarsi di una vita da spettatori, ma fronteggiare la sfida di essere protagonisti»: il verbo che mi sembra racchiudere meglio il senso di Soulé per il dribbling, per la gambeta, in effetti, è proprio encarar, “fronteggiare”. Tentenna sul posto, con il pallone tra i piedi, ondeggia. Aspetta che sia l’avversario a fare la prima mossa, è tutto una scossa elettrica, un arco in tensione, un fremito palpitante. Poi: accarezza la sfera, reattivo, esplosivo, e tira la volata. Una pisadita, e uno strappo. Un’altra pisadita, e una finta. Gli strappi successivi non sono mai sferzate violente, scudisciate, ma raffiche sospinte da qualcosa di impalpabile, di soprannaturale. Vogliamo chiamarlo talento?

Per movimenti, per posizione in campo – largo sulla fascia, come si conviene a ogni bravo wing (Roberto Fontanarrosa, in “Memoria di un wing destro”, contenuto nella raccolta Il mondo ha vissuto nell'errore, edito da Del Vecchio Editore: «Non me l’ha insegnato nessuno. Sono cose che uno le sa da sé») – e per statistiche di questo primo tratto di stagione, Soulé ricorda il primissimo Messi - in potenza ovviamente.

Ad oggi per dribbling tentati (tra i giocatori con più di 400 minuti già accumulati in stagione, secondo i dati in possesso di Statsbomb) è primo: 5.69. E anche il primo per dribbling riusciti: 2.63 (per dire a Leao, secondo, ne sono riusciti 2.60 su 4.88 tentati per 90 minuti). Contro la Fiorentina (qui i dati sono di Whoscored.com) la partita che ne ha visto dischiudere il bocciolo con la prepotenza di un time-lapse accelerato, è stato il calciatore che provato più dribbling (10!), a cui ne sono riusciti di più (7) e che ha creato più occasioni da gol (3, insieme a Bonaventura, Parisi e Duncan). Una mole di giocate così appariscente e affascinante che il dato forse più importante, il primo gol in campionato con il Frosinone, è passato quasi inosservato. Forse perché lo ha segnato in una maniera controintuitiva rispetto all’immagine che ci eravamo, che ci siamo fatti di lui. Di testa.

C’è un’azione, però, in questa sua partita manifesto con la Fiorentina, che forse più di quella del doppio sombrero ci apre gli occhi su che tipo di giocatore sia, realmente, Matías Soulé Malvano.

Il secondo tempo è iniziato da dieci minuti. Se ne sta largo sulla fascia, nella sua zona di comfort, il nido da cui decolla rapace nell’apertura alare dei suoi dribbling. Si accentra incuneandosi tra Sottil e Parisi, ma Martínez Quarta e Kayode, ancora loro, forse memori di quanto è successo un’oretta prima, fanno blocco e lo chiudono. L’azione sembra scemare, ma Mazzitelli la tiene viva con una bella e fortunosa veronica. C’è qualche batti-e-ribatti, e il pallone scivola verso Martínez Quarta. Soulé ha seguito il dipanarsi dell’azione attento, concentrato, e quando intuisce uno spiraglio si fionda, reattivo, sul pallone: lo sradica dai piedi di Kayode, per poi eludere Parisi, che gli si fa incontro minaccioso, con un tunnel leggero, prima di andare a terra.

Con Soulé viene istintivo giocare al gioco del “a-chi-somiglia”, un gioco dal quale è lui il primo ad astrarsi. A chi vorrebbe somigliare? Risponderemmo, inevitabilmente, a Messi, se solo Soulé, come tutti gli argentini della sua generazione, sa che a Messi non si può somigliare, a Messi si deve solo volere bene, essere grati per il solo fatto di esistere, casomai, e nel caso serigrafare una foto scattata insieme nel ritiro di Ezeiza sul thermos per il mate.

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Riyad Mahrez, Ryan Giggs, il primissimo Cristiano Ronaldo (con il quale Soulé ha peraltro condiviso il campo, rarissimo caso di calciatore ad aver calpestato la stessa erba di CR7 e Messi), ma anche il Rodrigo De Paul della parentesi Udinese, Paulo Dybala e soprattutto il "Fideo" Di Maria. Soulé è un mélange in qualche modo unico, però, perché ha saputo assorbire influenze e ispirazioni reinventandole e interpretandole in una chiave personale, piuttosto cristallina, ritagliandosi un’identità precisa.

«Forse perché sono mancino e gioco in una posizione simile», ha detto lui dei paragoni con Di Maria, «e spesso vado all’uno contro uno, e convergo, anche se non sempre arrivo a tirare». «Quando ha visto come mi muovevo mi ha dato dei consigli su come fare, su come mettere il piede se voglio convergere e tirare, e da quando me lo ha spiegato sono migliorato moltissimo».

Con il "Fideo", Soulé ha condiviso una stagione juventina. In estate, quando ha disputato il Mondiale Under 20 in Argentina, Di Maria ha commentato un suo post su Instagram scrivendo “dale guacho che la 11 pesa moltissimo”, e Soulé gli ha risposto “sì, hai messo l’asticella un bel po’ in alto”. Prendersi questa confidenza con i grandi fa di te un grande? O un ragazzino un po’ sfrontato?

Soulé avrebbe tutti i crismi del giovane-che-può-bruciarsi-prestissimo: ha scelto di abbandonare il Vélez, l’Argentina per approdare alla Juventus, sapendo che le carte da giocarsi sarebbero state pochissime, rifiutando destinazioni che magari gli avrebbero garantito maggiori possibilità di scendere in campo con continuità. Ancor prima di esordire in Serie A (a Salerno, con la Juventus) Scaloni lo ha convocato per due gare di qualificazione ai Mondiali del Qatar. Erano gli inizi di novembre 2021, e per quanto la convocazione rientrasse in un’operazione di inserimento, nella rosa, di giovani talenti ai quali l’AFA (la federazione argentina di calcio) voleva dimostrare di tenere, insomma, per Soulé c’era materiale a sufficienza per montarsi la testa.

Lui, invece, sembra essersi votato all’umiltà (parlare con tutta quella disinvoltura con i grandi fa di te, ancora, un grande?). A Salerno non credeva possibile che gli stessero concedendo, all’esordio, la possibilità di calciare una punizione. In un minidocumentario che racconta la sua storia e quella di Enzo Barrenechea, altro argentino approdato alla Juventus e ora a Frosinone in prestito, lo racconta con una soddisfazione che però non ha nulla di presuntuoso, ma che al contrario tradisce una consapevolezza piuttosto matura.

Racconta anche che a convincerlo della bontà della scelta di una stagione in prestito a Frosinone sia stata una telefonata con Di Francesco, che gli ha spiegato quali fossero gli obiettivi, come voleva schierarlo. E nelle squadre di Di Francesco, in effetti, un giocatore come Soulé calza a pennello. Ma una spinta decisiva, c’è da credere, sarà arrivata anche dalla presenza di Barrenechea, al quale Soulé è legato da un’amicizia molto forte: «Gli ho chiesto se c’era la possibilità di venire anche io, della città, della squadra, dei compagni. Lui si è emozionato, quando gli ho detto che sarei potuto arrivare anche io».

«Cuando de estar se trata… el cielo es el limite», ha tatuato sull’avambraccio. Quando si tratta di esserci, solo il cielo può fare da limite. Soulé è ambizioso, ma di quell’ambizione spensierata, sognante, che hanno i giovani, che s’incarna nella sfrontatezza del dribbling, nella joie de vivre di una sfida uno-contro-uno dalla quale esci vincitore.

Quel fuoco sacro che, come lui, alberga in Gudmunsson, Samardzic, Rafa Leão, Almqvist, Jovane Cabral e Zito Luvumbo, cioè i calciatori che lo inseguono nella classifica dei giocatori con più dribbling a partita in questo primo scorcio di Serie A, giovani che ci stanno portando ad amare di nuovo il nostro campionato attraverso un insegnamento, in fondo, decisamente semplice come sa essere solo l’ingenuità fanciullesca.

E cioè che il calcio, tanto nel potrero quanto negli stadi di Serie A, è quel momento prezioso che si annida tra una carezza al pallone e la schiena dell’avversario al quale sei appena sfuggito mentre si allontana, distante.

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