Il 4 aprile del 2018, al Madison Square Garden di New York, il commissioner della NBA Adam Silver sale sul palco per fare da cerimoniere in un Draft fuori stagione. Di fronte a lui la composizione della platea è quella delle grandi occasioni, seppure in proporzione ridotta: dirigenti, giornalisti specializzati, qualche celebrità di passaggio, parenti, un manipolo di tifosi, Adrian Wojnarowski che twitta in anticipo le scelte e 102 giocatori che incrociano le dita nella speranza di sentire Silver pronunciare il loro nome. Quei giocatori però non sono cestisti in senso stretto, sebbene il campo da basket su cui giocano sia quello pixellato di un videogioco, ma gamer professionisti.
Come vuole la tradizione NBA, il Draft è l’atto inaugurale anche della 2K League, una competizione all’esordio assoluto che sancisce il matrimonio tra la lega professionistica americana e la Take Two Interactive, produttore che guida il mercato delle simulazioni sportive. Il suo titolo dedicato alla pallacanestro ha appena festeggiato vent'anni con il titolo 2019, NBA 2K19 per l'appunto. Ancora più importante, l’istituzione della 2K League celebra il sodalizio tra l’NBA e il mondo degli eSport. A conferma di quanto la cosa sia seria, lo stesso Silver definisce la neonata 2K League “il nostro quarto campionato”, inserendola insomma nella stessa famiglia di NBA, WNBA e G-League.
Qualcuno potrebbe pensare che per questi gamer arrivare al mondo del professionismo sia più facile che per gli atleti in NBA. D’altra parte, anche Tracy McGrady e Byron Scott, negli studi ESPN insieme a Rachel Nichols, si stupivano della scalata al successo di Artreyo “Dimez” Boyd, prima scelta assoluta, anche lui invitato alla trasmissione. «Portatemi la mia copia di NBA 2K che ci provo anch’io», dice Byron Scott, appena sente menzionare gli incassi di Dimez in carriera. Per quanto il mondo degli eSport non può ancora definirsi sviluppato e competitivo come quello degli sport tradizionali, e soprattutto quello dell’NBA, la realtà è che la trafila per guadagnare uno dei centodue posti nella 2K League è lunga e faticosa, dimostrando quanto le stick skills facciano la differenza tra un campione e un comune giocatore.
Nella maggior parte dei casi si tratta di ragazzi che frequentano da molti anni la scena competitiva di NBA 2K, cimentandosi in tornei dal montepremi di qualche migliaio di dollari: cifre modeste se paragonate a quelle di eSport multimilionari come League of Legends, Dota 2 o Overwatch, non sufficienti a proiettarli al rango di quei gamer. Per quello ci voleva l’intervento di un ente come la NBA, con risorse abbondanti e nessun timore nell’investirle. Ciascuno dei centodue giocatori a roster ha guadagnato 35.000 dollari – in linea con gli stipendi della G-League, appena ritoccati al rialzo - comprensivi di vitto e alloggio nella gaming house della squadra. Il montepremi tocca invece il milione di dollari.
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Il rapporto tra NBA e 2K
Ma come si è arrivati a questo punto? Per rispondere bisogna fare un passo indietro, per guardare il fenomeno nella sua totalità.
Ai server di NBA 2K18, NBA 2K, oltre 10 milioni di copie vendute per l'edizione 2018, si connettono ogni giorno 1,6 milioni utenti e la modalità più gettonata è “La mia carriera”, dove costruire un avatar che rappresenta il giocatore in partite NBA, sfide al playground o in palestra. Vittoria dopo vittoria, si guadagnano crediti per aumentare l’abilità dell’avatar e personalizzarne l’aspetto estetico. Il segmento più competitivo è quello del Pro-Am, tornei di alto livello a cui partecipano team ben organizzati e completi nei cinque ruoli in campo.
Per accedere alle selezioni della 2K League era necessario vincere cinquanta partite Pro-Am nel mese di gennaio (il procedimento si ripete quest'anno, per tutto il mese di novembre, ma la soglia sale a cento vittorie). Da lì, i 72,000 candidati sono stati invitati a una Draft Combine, con un procedimento molto simile a quanto avviene nella NBA tradizionale: un server privato in cui giocare l’uno contro l’altro sotto lo sguardo degli scout che hanno scremato il gruppo fino a duecentocinquanta, convocati di persona per colloqui individuali, e così infine ai 102 talenti. L’ultimo passo era distribuire gli atleti tra le diciassette squadre partecipanti fino a formare dei roster da sei elementi: cinque titolari, ciascuno assegnato a una posizione in campo, e una riserva.
I team sono dirette emanazioni delle franchigie NBA, ne condividono persino nome e logo: in qualche caso anche la struttura dirigenziale, come il vulcanico MarK Cuban, proprietario dei Dallas Mavericks, che si è esposto in prima persona coi neonati Mavs Gaming. Ci sono gli Heat Check, i Celtics Crossover, i Warriors Gaming Squad, i 76ers, i Blazer5, i Knicks. Adam Silver ha in mente di espandere la lega fino a ospitare tutte e trenta le franchigie del campionato maggiore, e già dall’anno prossimo il lotto delle partecipanti potrà vantare le aggiunte di Atlanta, Brooklyn, Los Angeles Lakers e Minnesota, inserite in corsa tramite un expansion draft. Anche l’organizzazione è in pieno stile NBA, con una pletora di professionisti a spalleggiare i giocatori: head coach, preparatori atletici, agenti e un organigramma di figure “in colletto bianco” – annoveriamoci pure Shaquille O’Neal, general manager dei Kings Guard.
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Se il legame tra NBA ed eSport si concretizza dopo un lungo corteggiamento, l’artefice è in primo luogo lo stesso Adam Silver con la missione che si è preposto fin dalla sua nomina a commissioner: sganciare la lega dalla competizione “domestica” con NFL e MLB per rendere il logo di Jerry West in blu, rosso e bianco una delle figure più riconoscibili al mondo. Si è sempre distinto per posizioni aperte (la disponibilità al dialogo col sindacato dei giocatori), progressiste (l’atteggiamento verso le problematiche razziali pre e post-Trump) e “giovanili” (nonostante l’aspetto impiegatizio in comune coi predecessori, saluta i giocatori col dap).
Nel 2015 Silver raccontò la sua esperienza da spettatore alle North Americas League of Legends Championship Series Finals, uno dei 22.000 che affollava gli spalti del Madison Square Garden in una sera d’agosto. Il potenziale del settore gli fu improvvisamente evidente: al di là delle cifre sul fatturato, che sicuramente già erano passate per la sua scrivania, Silver comprese le somiglianze tra i videogiochi e lo sport di cui aveva fatto il suo mestiere, specialmente nella capacità di unire le persone e di regalare sogni, passione e intrattenimento a prescindere dalle categorie di appartenenza.
In un certo senso, la creazione di una lega patrocinata dalla NBA era un passo obbligato, facile da prevedere. Se i videogiochi conquistano anno dopo anno una fetta maggiore della cultura popolare, questo è particolarmente vero per il microcosmo NBA dove il titolo 2K è, a tutti gli effetti, un ingrediente dell’immaginario collettivo, un’istituzione. Gli aneddoti sulle stelle NBA che impersonano il proprio alter-ego virtuale, con alterni risultati, sono numerosissimi. Paul George è uno dei più abili e appassionati, non a caso compariva anche come “personaggio non giocabile” nella modalità “La mia carriera” di NBA 2K18, ma è sempre possibile fare come Kevin Durant, che nel 2015 ammetteva candidamente di giocare coi Cavaliers di LeBron James, pur di vincere. Wade Baldwin IV è un assiduo frequentatore dei playground virtuali, dove è facile avvistarlo col nickname Goldenram4 accompagnato dal logo NBA, che certifica l’autenticità dell’account. «L’unico posto dove può ottenere un minutaggio decente», commentano i più sarcastici, in riferimento al suo scarso successo nelle prime due stagioni tra Grizzlies e Trail Blazers. Ogni estate poi si ripete la tiritera dei giocatori insoddisfatti del rating che gli sviluppatori hanno assegnato alle loro controparti digitali, e promettono una stagione tra fuoco e fiamme pur di sbugiardarli.
Ma il rapporto è bidirezionale. Lo YouTuber Chris Smoove, ad esempio, ha un canale da quattro milioni di follower dove, oltre a condividere coi fan le sue peripezie su 2K, sforna quotidianamente un recap delle partite della notte, quelle della NBA vera s’intende, accompagnate dai suoi commenti caustici. Una volta sfidò pure Tony Parker, che accettò e lo sconfisse.
Se torniamo indietro di qualche anno, poi, troviamo Gordon Hayward come strenuo avvocato dei diritti degli eSport fin dal suo esordio nella lega. Quando dichiarò di reputarsi il migliore dell’NBA – limitatamente alla skill su League of Legends – per molti fu un’occasione per aggiungere alla mappa un puntino dedicato ai videogiochi competitivi; una disciplina che lo stesso Hayward ha praticato in passato, sui campi di battaglia di Halo o Starcraft, con la stessa smania agonistica che dedicava a tennis e basket. C’è un altro turning point nella storia, che coinvolge ancora Hayward. Nel 2015, dopo una partita coi Jazz, è collegato a distanza con gli studi NBA TV dove Rick Fox ha una domanda per lui. L’ex ala dei Lakers è diventato un imprenditore nel campo degli eSport, ha investito in squadre di successo fino a diventare proprietario dei Gravity, ribattezzati Echo Fox. «Cosa ne pensi », chiede a Hayward, «del passaggio di Doublelift ai Team SoloMid?» Si parla di una celebrità di League of Legends, tra la perplessità degli altri presenti che non hanno verosimilmente mai sentito prima quel nome.
Fox e Hayward non sono gli unici anelli di collegamento tra NBA ed eSport: Ted Leonsis, proprietario dei Wizards, Peter Gruber dei Warriors e Magic Johnson dei Lakers hanno tutti investito nei Team Liquid, mentre le televisioni americane e internazionali trasmettono ogni giorno eventi eSport, con buoni ascolti per giunta.
Culturalmente, insomma, il clima intorno agli eSport è cambiato molto negli ultimi anni. Fino a qualche tempo fa l’immagine del videogiocatore NBA si sovrapponeva a quella del nerd, l’introverso. La passione di Tim Duncan per i giochi di ruolo e per il fantasy, ad esempio, rimase a lungo un tema di secondo piano: un po’ per la riservatezza del diretto interessato, un po’ perché non era cool parlare di certi argomenti. I racconti di Channing Frye e Richard Jefferson, incentrati su sessioni di gioco notturne a World of Warcraft e sfide a Call of Duty che coinvolgevano l’intera spedizione olimpica del 2004, sembrano preistoria dell’intrattenimento videoludico se confrontate con Ben Simmons e Karl-Anthony Towns che si sfidano a PlayerUnknown’s Battleground in diretta streaming, cuffie e microfono sulla testa, la notte prima di una partita. «Puoi anche fare tardi», dice Simmons, «tanto domani giocate contro gli Hawks».
La trasformazione estetica di Gordon Hayward offre poi un curioso parallelo per l’elevazione di rango dei videogiochi: appena uscito da Butler era uno sbarbatello con un taglio di capelli fuori moda, pallido e magrolino; oggi, con diversi chili di muscoli in più e una reputazione da All Star, è diventato un modello anche sul piano del look. Merita una citazione anche il video che League of Legends ha dedicato a Hayward proprio in occasione del suo rientro sui parquet dopo il devastante infortunio della scorsa stagione: un autentico crossover tra videogiochi e NBA.
Come è andata la prima stagione
La NBA 2K League è strutturata su dodici giornate di regular season più tre tornei interstagionali e i playoff conclusivi, con ogni incontro trasmesso in diretta sull’apposito canale Twitch e gli highlights della notte condivisi da tutti i profili social NBA.
La stagione inaugurale si è conclusa il 25 agosto, in una finale al meglio delle tre partite, con la vittoria dei Knicks Gaming sugli Heat Check. La loro cavalcata è stata quella classica degli underdog: da qualificati ai playoff in ultima posizione, grazie alla conquista del torneo The Ticket che garantiva un posto nella griglia delle migliori otto, fino a estromettere i superfavoriti Blazer5 – solo due sconfitte in stagione – in una partita a eliminazione diretta al primo turno.
L’attenzione del pubblico è stata buona, in linea con le aspettative. Un picco di 500,000 spettatori su Twitch era il minimo che ci si potesse aspettare per un prodotto così ben confezionato, ma sono numeri che al momento non pareggiano quelli totalizzati dagli eSport più affermati. Nell’ambito delle simulazioni sportive il termine di paragone per la NBA 2K League è il franchise FIFA, il cui filone competitivo è ben conosciuto anche in Italia grazie ai successi internazionali di giocatori come Mattia “Lonewolf” Guarracino e Daniele “IcePrinsipe” Paolucci.
La community di NBA 2K invece, soprattutto fuori dagli Stati Uniti, deve ancora abituarsi a considerare la dimensione agonistica del proprio videogioco preferito: i protagonisti della 2K League sono i primi pro gamer a cimentarsi nel titolo. Anche gli sviluppatori del videogioco hanno una missione cruciale: creare una simulazione che sia realistica nei confronti del basket reale, e quindi particolarmente invitante per i gusti di un casual gamer, ma al tempo stesso adattata per l’esperienza competitiva, in termini di bilanciamento e varietà. Un campionato dove si segue un’unica strategia, tirando solamente da tre punti ad esempio, o concentrando l’attacco esclusivamente sotto canestro, sarebbe noioso per il pubblico e limitante per gli atleti, che non sfrutterebbero l’ampia gamma di opzioni proposta dal gioco. Non siamo lontani, in questo senso, dalle critiche mosse alla stessa NBA in merito alle più recenti tendenze. L’obiettivo di mantenere una buona varietà di soluzioni tattiche è stato parzialmente raggiunto, con buone prospettive per il futuro.
I margini di miglioramento e le prospettive
Nella NBA 2K League i giocatori sono chiamati a scegliere tra personaggi con attributi prestabiliti, denominati “archetipi”, come succede ad esempio in un MOBA come League of Legends, dove si seleziona il proprio campione da un pool limitato. In questo caso, però, gli archetipi sono modellati sulle stelle NBA. Si può impersonare uno sharpshooting playmaker (playmaker cecchino) che imita Stephen Curry o Damian Lillard, oppure uno slashing playmaker (playmaker penetrante), meno incisivo nel tiro dalla distanza ma più esplosivo sotto canestro, come Russell Westbrook o John Wall. Tra gli archetipi più diffusi c’è anche il pure sharpshooter (cecchino puro), un tiratore da tre micidiale, oppure lo slashing shot creator (creatore di tiri penetrante) in posizione di ala piccola, ispirato a “giocatori totali” come LeBron James o Giannis Antetokounmpo. Spostandoci sotto canestro troviamo il pure rim protector (protettore del canestro) – Rudy Gobert è il primo nome che viene in mente -, lo stretch five (centro polivalente) abile nel tiro da fuori come gli “unicorni” di ultima generazione, o l’athletic finisher rebounder (finalizzatore atletico rimbalzista), un’ala grande dall’alto impatto offensivo, come Karl Malone o Kevin Garnett, che fatica a trovare spazio nell’NBA contemporanea.
Ovviamente, ciascun archetipo ha i suoi pregi e i suoi difetti, ma alcuni si sono rivelati troppo dominanti limitando di fatto la varietà delle scelte. Per questo la 2K Sports è intervenuta a metà stagione con una correzione in corso d’opera (quelli che in gergo si chiamano “balance change” o “nerf”) volta a indebolire alcuni archetipi giudicati troppo forti e rilanciare invece soluzioni che sembravano troppo svantaggiate.
Tali accorgimenti, però, si rivelano spesso armi a doppio taglio, e in questo caso ad esempio si è passati dallo stradominio dell’accoppiata sharshooting playmaker/pure rim protector all’abuso di tattiche del tipo “cinque fuori”, un termine che suonerà familiare a chiunque abbia praticato pallacanestro, cioè isolamento in punta e quattro tiratori a raccogliere gli scarichi: un set offensivo, poco spettacolare se reiterato, che è valso a Mehyar “AuthenticAfrican” Ahmed-Hassan dei Grizz Gaming il record di 84 punti in una partita, mentre fenomeni come Juan “Hotshot” Gonzalez e Austin “Boo” Painter ne totalizzano tra i 40 e i 50 a partita.
In uno di questi casi, la 2K Sports è arrivata addirittura a vietare una mossa promettendo multe e sospensioni a chi approfittasse del cosiddetto stiff arm, che permetteva al giocatore in penetrazione di “sbracciare” spostando il difensore senza che venisse fischiato sfondamento. La parte più smaliziata della community ha rivolto accese critiche a questi dettagli tecnici, posti sotto una lente d’ingrandimento per via della potente diffusione della 2K League, ma si può intendere questa prima stagione come un anno di esperimenti, un trampolino utile per realizzare titoli sempre più bilanciati e rivolti a un pubblico di gamer competitivi, già dalla versione 2019. NBA 2K19, infatti, propone già un gameplay più curato del suo predecessore, che premia il gioco di squadra, e ha messo sotto la lente d'ingrandimento gli archetipi più “problematici” della scorsa stagione stimolando i giocatori a far valere le proprie abilità anche in difesa.
Tra gli aspetti positivi, invece, al primo posto va il grande lavoro che l’NBA ha svolto per rendere riconoscibili i propri atleti, prestando effettivamente fede a quell’idea di “quarto campionato” menzionata da Silver. In un mondo dove le partite si disputano dietro uno schermo, per giunta seminascosti da cuffie e microfono, agli occhi del pubblico i campioni eSport rischiano di diventare nomi non riconducibili a volti. L’NBA ha invece preso esempio da quanto accade sul parquet e ha disposto telecamere e fotocamere ovunque, ha realizzato interviste e approfondimenti, ha coinvolto i giocatori in iniziative sociali, spesso benefiche come quelle organizzate dai Raptors Uprising, vincitori del Community Engagement Award di fine stagione. Un documentario in quattro episodi, North Code, mostra giocatori e staff alle prese con allenamenti di basket reale insieme ai bambini delle scuole, che ricevevano poi in regalo materiale hi-tech.
Assistere a una partita della 2K League in diretta su Twitch è un’esperienza entusiasmante, non solo per ammirare le giocate dei campioni – sottolineate dal tifo del pubblico in sala - ma anche per apprezzare le loro reazioni. I cinque in campo si coordinano e si motivano via microfono, in costante contatto col coach, poi schizzano in piedi dopo una stoppata o una schiacciata spettacolare, inveendo contro gli avversari disposti dal lato opposto dello studio. Inoltre, c’è più trash talking in una partita della 2K League che nella NBA attuale, o quantomeno è più visibile.
Non a caso, la lega ha preso provvedimenti comminando sanzioni a chi calca troppo la mano, e d’altronde le problematiche di abusi e bullismo sono particolarmente sensibili nel mondo del gaming: basti pensare che i team hanno a disposizione uno psicologo, un lusso che in NBA non è ancora divenuto regola nonostante i numerosi campanelli d’allarme sul tema della salute mentale. Dall’altro lato, se i giocatori hanno possibilità di esprimersi in maniera così vocale, risulteranno più riconoscibili per il pubblico e comunicheranno una forte idea di agonismo.
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Juan “Hotshot” Gonzalez, uno dei più indisciplinati, racconta con un sorriso della multa in cui è incappato. «Solo 75 dollari sottratti dallo stipendio, non mi è andata male» racconta. «C’è un tizio con un cappuccio grigio in testa che gira dietro ai giocatori, controlla tutti. Quando ti si avvicina e ti dice qualcosa all’orecchio, vuol dire che hai esagerato». Il trash talking è anche un modo per gestire la tensione e nonostante la posta in palio il clima ricorda quello di una partita di playground: molti dei ragazzi si conoscono virtualmente da anni, impegnati ai massimi livelli del circuito Pro-Am, e si comportano come compagni di squadra che si motivano a vicenda con una sana dose di rivalità.
Il LeBron di NBA 2K e gli altri
Un’altra lezione che la 2K League ha appreso dalla NBA è che ogni giocatore ha una storia da raccontare. Artreyo “Dimez” Boyd, la prima scelta assoluta, è nativo di Cleveland, Ohio, e vanta qualcosa in comune col più celebre rappresentante di Mistake on the Lake. Come LeBron, Dimez è cresciuto in un ambiente difficile. Come LeBron, Dimez è considerato da sempre un predestinato nel suo settore, un talento naturale. Qualcuno ha preso a chiamarlo “il LeBron James di NBA 2K” per via dei suoi risultati nel circuito Pro-Am: «Che vincessi o perdessi» racconta lui, «arrivavo sempre in finale».
L’anno scorso, in un torneo organizzato durante l’All Star Weekend, la squadra di Dimez si è portata a casa 250,000 dollari, il premio più ingente prima dell’avvento della 2K League. A 23 anni Dimez si è ritrovato però senza lavoro e senza prospettive per il futuro: la decisione di puntare le sue chips sui videogiochi, osteggiata dalla famiglia, ha pagato.
Un’altra storia è quella di oFab, playmaker dei Celtics Crossover e leader del campionato nella categoria degli assist, all’anagrafe si chiama Albano Thomallari ed è figlio di immigrati albanesi che faticavano a parlare inglese ancora dopo anni dal trasferimento a St.Louis, Missouri. oFab è cresciuto con difficoltà di inserimento, in condizioni vicine alla povertà: a diciassette anni aveva sviluppato una profonda depressione che lo costrinse a vivere recluso in casa per tre anni, NBA 2K come unica distrazione. Il videogioco è stato la sua rinascita, la chiave per trasformare «il negativo in positivo», come dice lui.
Ancora più cupa è la storia di Michael “Stambreezy” Stam, il giocatore più anziano del campionato con 31 anni. Michael è guarito dal cancro e ha trovato successo come giocatore di poker professionista. Iamadamthe1st, conosciuto anche come Kuda o più semplicemente Adam, è un personaggio polarizzante. Playmaker dei Knicks, determinante per l’esito delle Finals, era stato scelto solamente al quarto giro del draft. Il suo talento era fuori discussione ma Kuda è prima di tutto uno streamer di successo, un ragazzo orientato più a intrattenere il pubblico del suo canale che al risultato in torneo: Adam è anche appassionato di cinema e sogna un futuro da regista. Era facile immaginare che la 2K League rappresentasse per lui una finestra verso altri obiettivi, e dopo le prime partite sottotono i tifosi dei Knicks – esigenti come quelli del Madison Square Garden – si scatenavano già con le critiche. Nel giro di pochi mesi Adam si è invece evoluto in un pro gamer a tempo pieno, elemento chiave per la rinascita dei Knicks.
È interessante poi notare come molti atleti si dividano tra basket reale e virtuale. Dayne “OneWildWalnut” Downey, californiano, è il centro dei Blazer5, MVP della lega e capofila nelle stoppate; una forza trascinante sotto canestro e un leader di carattere, tra i più esuberanti davanti alle telecamere. È anche un’ala per i Corsairs del Santa Monica College, lo si intuisce già dal fisico atletico e dall’abitudine alla competizione. Malik “MrSlaughter” Leizinger, dei Jazz Gaming, è invece uno dei migliori assistman negli annali delle high school dell’Ohio.
Uno dei quesiti archetipici degli eSport, in questo senso, è quanto gli sport tradizionali riescano ad influenzare quelli virtuali, e viceversa. Le risposte sono sfumate e difficili da definire con precisione ma alcune suggestioni sono già evidenti, tanto che le tattiche messe in piedi dalle squadre sono elaborate e la realizzazione tecnica del videogioco firmato 2K permette di formulare paragoni con lo stile di team autentici.
Il modello “cinque fuori” con isolamenti e tiro da tre, adottato da Heat Check e Wizards, per fare un esempio, ricorda i recenti Houston Rockets di James Harden e Chris Paul, oppure le versioni dei Cleveland Cavaliers più LeBron-dipendenti. I 76ers sono invece da considerarsi i Warriors della 2K League: attacco esplosivo, un playmaker funambolico e sottovalutato al Draft (Radiant), tanti tiri da tre e moltissimo movimento senza palla, specialmente dei lunghi. I Blazer5 rappresentavano invece la faccia più tradizionale del gioco: un solido asse play-pivot (MamaImDatMan e OneWildWalnut) supportato da due cecchini e un’ala grande dalle maniere forti. Nel gioco di squadra di Knicks e Cavs ritroviamo invece lo stile egualitario di Celtics e Spurs: non c’è una stella conclamata, ma si adattano le soluzioni tattiche in base all’avversario di turno, giostrando i giocatori tra archetipi diversi se necessario. Il giovanissimo Hood, il principale talento dei Cavs, è stato un vero trasformista nell’arco della stagione. Partito come point guard, è stato retrocesso in panchina per poi riconquistarsi il posto in quintetto col ruolo di ala grande: ha terminato poi la corsa nella sua posizione originale, con prestazioni realizzative degne dei top-scorer del campionato.
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Il contatto tra i due mondi, quello dello sport tradizionale e quello dell’esport, contiene al suo interno alcune risposte all’annosa questione su come rendere l’eSport godibile anche a chi non pratica quel determinato videogioco. Certo, le regole del basket sono uguali per tutti e un titolo sportivo può raggiungere un bacino di spettatori maggiore rispetto a quello di titoli meno “universali” come Call of Duty o League of Legends, soprattutto se lega il suo nome a una sigla globalmente rilevante, ma corre comunque il rischio di rimanere un prodotto minore, soffocato dalle alternative, sollevando altre domande. Perché un appassionato di basket dovrebbe seguire la 2K League, e non la NBA reale? E perché invece un appassionato di eSport dovrebbe seguire la 2K League, e non gli eventi di League of Legends o Overwatch?
Insistendo sulla personalità dei giocatori e sull’appeal delle franchigie, l’NBA sembra aver compreso che la chiave risieda nel rendere la sua succursale eSport uno spin-off del prodotto principale, non un surrogato, lavorando per costruire e comunicare l’identità di una lega che nasce sotto l’ala di una sorella decisamente ingombrante. Serve, in sostanza, l’equivalente digitale di una tripla di Steph Curry, di una chase-down block di LeBron James, di un The Shot di Michael Jordan. Insomma: una firma, una storia, un’epica. Certo, sono tutte cose che non si costruiscono in un giorno, ma con la spinta dal basso dalla community di appassionati le cose potrebbero velocizzarsi.
Oltre che della popolarità degli eSport, che veleggiano peraltro verso cifre da capogiro (si parla di 250 milioni di spettatori previsti per il 2020), ne va della loro dignità e del loro riconoscimento. Sia in termini di uno statuto che contempli i videogiocatori alla stregua di atleti, sia in virtù del loro confronto con gli sport tradizionali, anche nella tanto chiacchierata prospettiva olimpica. Siamo ancora all’inizio, ma l’NBA sembra aver imboccato la strada giusta.