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Andre Miller, professore emerito
10 apr 2020
La storia e la carriera di uno dei giocatori più cerebrali degli anni 2000.
(articolo)
26 min
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Nella lingua inglese la parola “craft” ha un significato duplice. Da una parte significa attività manuale, mestiere, abilità; dall’altra però ha anche il senso di astuzia, di uso del cervello per arrivare a risultati che altrimenti sarebbero irraggiungibili. Nell’ultimo periodo mi sono spesso ritrovato a pensare a cosa rendesse speciale Andre Miller, uno dei miei giocatori preferiti di sempre pur non essendo neanche lontanamente uno dei più forti che ho visto, e forse ci sono arrivato qualche settimana fa parlando dei dieci giocatori più intelligenti della NBA.

Quello che mi piaceva di lui era proprio il senso di “craftiness” che trasudava dal suo gioco, come se ogni suo singolo movimento in campo — un palleggio, una finta, un passaggio illuminante — fosse il frutto di anni e anni di lavoro, di studio, di mestiere. Vederlo giocare era come assistere a una lezione silenziosa di maestria, come quando da bambino mi mettevo a guardare mio padre che faceva il pane e non diceva una parola per tre ore. Ero decisamente troppo giovane per poter seguire e apprezzare Miller a pieno ai tempi del college e dei primi anni in NBA, quando le gambe ancora gli permettevano di schiacciare. Certo, bisogna pur dire che non è mai stato propriamente noto per i suoi voli sopra al ferro (pur avendone qualcuno in carriera). Anzi, proprio il fatto che schiacciare non gli interessasse per niente gli è probabilmente costato qualche riconoscimento in più per un giocatore sottovalutato per buona parte della sua carriera.

Ma ad Andre Miller è sempre andato bene così: alla partita rookie contro sophomore dell’All-Star Weekend del 2000, mentre Jason Williams entrava nella leggenda con il passaggio di gomito e prima che Vince Carter riscrivesse la storia della gara delle schiacciate facendo impazzire Oakland, lui veniva fischiato dal pubblico perché in un paio di occasioni ha avuto la brutta idea di appoggiare a canestro invece di schiacciare, pur avendo abbozzato un salto per riuscirci.

Solo che poi la sua squadra ha vinto al supplementare e lui ha chiuso con 21 punti, miglior realizzatore dei suoi — eventualità inconsueta per uno come lui che non è mai stato un grande realizzatore.

Dopo la partita, pur essendo solamente un rookie per i Cleveland Cavaliers, Andre Miller ha fatto capire a tutti di avere già ben chiaro in mente chi era e cosa doveva fare per rimanere a lungo nella NBA: «Le giocate da highlight e le schiacciate non mi interessano, l’importante è vincere. Ci sono giocatori appariscenti; ci sono quelli super atletici; e poi ci sono quelli a cui piacer andare in campo e giocare a pallacanestro. Io sono uno di quelli».

Diventare grande in fretta

Scavando a ritroso nella carriera di Andre Miller si capisce in fretta più o meno da qualsiasi profilo scritto su di lui che non è uno a cui piace parlare di sé, anzi. Praticamente per i primi dieci anni della sua carriera non si è concesso ai giornalisti ed è difficile trovare un articolo su di lui prima del 2010, quando scollinati i 30 anni ha cominciato ad aprirsi un po’ di più.

Il motivo principale di questa ritrosia secondo sua madre Andrea Robinson deriva dalla sua famiglia, visto che «mia mamma era fatta così e lei lo aveva preso da suo padre, che a sua volta era fatto nella stessa maniera di suo nonno». A questo si aggiunge poi la storia della sua vita: cresciuto da una madre sola tra i quartieri di Compton e Watts nella Los Angeles degli anni ’80, Miller è dovuto diventare grande in fretta per via della malattia del fratello minore Duane, affetto da encefalite viralica ed entrato in coma nel 1982 quando Andre aveva solamente 6 anni. Duane avrebbe resistito in stato semi-comatoso prima di arrendersi alla malattia il 7 settembre 1988, che per uno strano scherzo del destino era anche il compleanno di mamma Andrea. In tutti quei sei lunghi anni Andre aveva imparato come gestirlo e accudirlo, facendolo mangiare attraverso una sonda gastrica e assistendo sua madre come meglio poteva, tanto da meritarsi il soprannome affettuoso di “Dr. Dre” quando l’altro Dr. Dre era solo un DJ in attesa di far decollare la sua carriera.

Non c’è bisogno di impegnarsi nemmeno troppo per capire perché il rapporto tra mamma Andrea e Andre è sempre stato strettissimo sin dai giorni in cui lei faceva su e giù a bordo campo alle sue partite e vendeva torte fatte in casa per poter comprare i trofei ai tornei delle sue squadre. È per merito di mamma Andrea se il figlio ha potuto frequentare la scuola privata di Verbum Dei (sì, lo stesso del Raymond Lewis di Black Jesus). Ed è sempre per merito suo e della famiglia allargata di cugini e parenti se Miller non si è cacciato nei guai nelle strade di Compton e Watts, che lui considera praticamente la stessa cosa pur dichiarandosi un prodotto del secondo quartiere.

Già da quando era ragazzino, infatti, Andre girava per tutti i campetti dove si potesse giocare insieme ai suoi cugini, pur essendo un ragazzino “grassottello, lento e sottodimensionato”. Non ci sono però racconti di sue straordinarie prestazioni tramandate oralmente, quanto piuttosto il suo racconto di quello che ha imparato in quegli anni: uno stile di gioco altruista e votato alla squadra piuttosto che al singolo, con dettami da “Play the Right Way” che avrebbero reso orgoglioso Larry Brown. Anche perché se avesse provato a “fare il fenomeno”, tanto i suoi compagni quanto soprattutto gli avversari non gliela avrebbero fatta passare liscia, visto che le partite erano spesso interrotte per risse e minacce di botte più o meno velate. «Facevano parte del gioco: si accendeva una rissa durante la partita e poi esisteva solo quella. La partita veniva cancellata, si tornava il giorno dopo e si ricominciava da capo: prima il gioco, poi le botte».

Miller riesce comunque a farsi conoscere come “quello che sa giocare a basket”, e nessuno vuole togliere a un ragazzo nero la possibilità di volare via da Compton, come direbbe Kendrick Lamar. È in quegli anni però che Andre impara a utilizzare il corpaccione in post basso, un po’ copiando quello che vedeva fare a Magic Johnson in televisione, e un po’ rubando la finta di tiro a due mani esageratissima di suo cugino Keith Arrington, che sarebbe poi diventata uno dei suoi marchi di fabbrica in NBA. Miller sostiene che in quegli anni era un tiratore molto migliore rispetto a quanto sarebbe diventato poi da professionista, ma che aveva bisogno di trovare la sua “nicchia” — e quella nicchia si è poi rivelata il post basso, dove era solito confrontarsi con gente molto più grande di lui nelle Midnight Leagues utilizzando non solo la forza fisica (che pure non gli mancava), ma l’equilibrio e il tocco.

«Quando eravamo piccoli era una quasi una sfida: andavamo in post basso e vedevamo chi era più forte fisicamente» avrebbe detto molto anni più tardi in una delle poche interviste in cui si è aperto. «Non sembra ma ho un sacco di cuore, sono competitivo e non mi tiro indietro davanti a niente. Non mi importa se sei grosso o piccolo, io gioco sempre duro. Vengo da uno dei quartieri più difficili che uno possa immaginare, ma sono cresciuto con l’esempio di mia madre: la sua durezza e la sua capacità di superare le avversità me le sono portate dentro. Il merito di quello che ho fatto non è mio, ma di ma madre e dei miei nonni, dei parenti e degli amici che mi hanno spinto a diventare la persona e il giocatore che sono oggi».

A scuola da Rick Majerus

Al momento di scegliere il college, però, subentrano dei problemi. Pur non essendo uno studente disinteressato o negligente, Miller fallisce i test accademici e i pochi college che si erano interessati a lui spariscono, anche perché non sembrava poter diventare un atleta di livello e avrebbe dovuto passare un anno fermo senza giocare per poter avere i voti necessari a scendere in campo. Di tutte le borse di studio a disposizione ne rimane sostanzialmente solo una: University of Utah, dove allena il pantagruelico Rick Majerus e ad assisterlo c’è Donny Daniels, un ex alunno di Verbum Dei che conosce molto bene le qualità di Miller ed è ferreo nel volerlo con gli Utes. Già, peccato che l’università sia a Salt Lake City e Andre non sia mai andato a scuola con un bianco in vita sua. Un problema? Macché, sentite mamma Andrea: «So che non ci sono tanti neri là, ma non è un problema per noi. Esiste solo una razza ed è la razza umana. Questo è ciò che ho sempre insegnato ad Andre».

E se mamma dice una cosa quella è, visto che Andre è talmente legato a lei — secondo alcuni compagni addirittura “succube” — da tagliarsi i capelli in maniera super ordinata il giorno prima che lei arrivi al campus per vederlo giocare, solo per non farla arrabbiare. Miller riesce a sistemare in qualche modo i voti e ci mette mezza stagione per entrare in quintetto senza più uscirne, ma è nel suo terzo anno in campo (quindi il quarto all’università) che gli Utes spiccano il volo. Nel 1997 la stella della squadra Keith Van Horn, grazie anche ai suoi assist, viene scelto alla seconda assoluta dai Philadelphia 76ers dopo Tim Duncan e Miller si prende ulteriori responsabilità, passando da 9.8 a 14.2 punti a partita pur diminuendo gli assist da 6.1 a 5.2. Insieme a Michael Doleac (dieci anni di onorata carriera NBA, un paio anche a Cleveland e Denver insieme) e Hanno Möttölä (primo finlandese di sempre in NBA e poi ovunque in Europa, tra cui anche Bologna e Pesaro), Miller guida la squadra fino al traguardo storico delle Final Four nel Torneo NCAA eliminando nientemeno che i campioni in carica di Arizona che schieravano il quotatissimo Mike Bibby (poi seconda scelta assoluta al Draft) insieme a Miles Simon e Jason Terry in uscita dalla panchina.

Questa rimane probabilmente la singola prestazione più bella della carriera di Miller, che realizza l’unica tripla doppia del torneo (18 punti, 14 rimbalzi e 13 assist) dominando in lungo e in largo praticamente da solo in una partita stravinta 76-51. Nei primi due canestri c’è già tutto il suo gioco “old-school”: la capacità di prendere il tempo al difensore in aiuto alzando la parabola del tiro e la finta imparata dal cugino per far saltare il difensore e appoggiare al tabellone. Da notare a 00:28 anche la stoppata e la caparbietà con cui va a prendersi il fallo, sempre con la schiena piegata a 45 gradi con cui si muoveva per il campo.

Miller avrebbe segnato altri 16 punti con 14 rimbalzi e 7 assist nella partita successiva contro la North Carolina dei lanciatissimi Antawn Jamison e Vince Carter, rispettivamente quarta e quinta scelta assoluta al Draft di pochi mesi dopo ed entrambi nei primi due quintetti All-American (di cui non c’è traccia di Miller, mentre c’è quella di Paul Pierce, Raef LaFrentz e Rip Hamilton). La cavalcata dei ragazzi di Majerus si interrompe solamente in finale dove perdono 78-69 contro Kentucky subendo 47 punti nel secondo tempo, dopo aver chiuso il primo avanti di dieci sul 41-31. Miller segna altri 16 punti con 6 rimbalzi e 5 assist, ma commette 8 palle perse in 37 minuti (ne avrà solamente altre 8 così in tutta la carriera da professionista) e perde la partita più importante della sua vita.

La soluzione più logica sarebbe quella di “capitalizzare” sul grande Torneo appena disputato ed entrare nel Draft del 1998, ma Miller per sua stessa ammissione non si sentiva pronto, preferendo rimanere un altro anno tra le sagge mani di Majerus. «Ai tempi la NBA era davvero competitiva: potevi anche essere una scelta alta al Draft, ma non c’era alcuna garanzia di minutaggio. Ho usato quell’anno in più per raffinare il più possibile il mio gioco». Nel 1998-99 Miller vince i premi che non gli erano stati riconosciuti l’anno precedente, venendo votato nel primo quintetto All-American e giocatore dell’anno per la WAC, ma senza Doleac la squadra si ferma al secondo turno del Torneo perdendo contro la Miami di Wally Szczerbiak nonostante i suoi 20 punti. La sua carriera al college si conclude con 114 vittorie e 20 sconfitte, il record di rubate nella storia dell’università (254), il secondo posto per assist (721) e una laurea in sociologia.

Lui dei suoi anni al college dice di non aver più incontrato un gruppo di giocatori intelligenti quanto quelli a Utah e che con Majerus aveva imparato a essere un giocatore completo, una point guard naturale in grado di prendere decisioni: «Ho sempre avuto un talento da strada, ma è facile prendere un pallone, palleggiare e cercare di metterla nel canestro. La cosa difficile è pensare il gioco e impararlo: grazie a lui ci sono riuscito». Dal canto suo, Majerus ha detto solamente: «Se avessi potuto lo avrei fatto giocare ogni minuto di ogni partita. Capiva il gioco in maniera straordinaria. È la miglior point guard che io abbia mai avuto».

Una carriera a rendere migliori gli altri

La scommessa di rimanere un anno in più al college paga i suoi dividendi, visto che Andre Miller viene scelto alla numero 8 dai Cleveland Cavaliers nel Draft del 1999. È un rookie per modo di dire, visto che ha già 23 anni compiuti e ha lasciato il liceo ormai da cinque anni: Jonathan Bender, che viene scelto alla 5, è di cinque anni più giovane di lui. La sua esperienza ad alto livello collegiale gli permette però di guadagnarsi il posto da titolare già nel primo anno, anche perché la concorrenza nel ruolo era rappresentata dai non irresistibili Brevin Knight e Earl Boykins. Rimane a Cleveland per tre stagioni facendo capire a tutti di che pasta è fatto: migliora costantemente, salta solamente una partita in tre anni e nel 2001-02 è il miglior passatore di tutta la NBA, viaggiando a quasi 11 assist a partita insieme a 16.5 punti. Il talento in squadra non è granché, anche perché Zydrunas Ilgauskas è molto spesso infortunato, ma con Miller in campo non si scende sotto un certo livello di rispettabilità, vincendo 32, 30 e 29 partite tra il 1999-2000 e i 2001-02.

Con il suo contratto da rookie a un anno dalla scadenza, la dirigenza di Cleveland si ritrova a dover fare una scelta: Miller voleva un accordo al massimo salariale da 84 milioni, ma i Cavs non erano per niente disposti a darglielo, convinti che con lui non avrebbero fatto molta strada (un tema ricorrente nella carriera di Andre). Inoltre c’era un teenager di nome LeBron James come premio finale di una stagione 2002-03 interamente sacrificata sull’altare del tanking, e a Cleveland decisero che valeva la pena smantellare tutto pur di avere una chance di vincere quella lotteria. Non che a Miller stesse male: tramite il suo agente Lon Babby aveva di fatto già richiesto di essere ceduto («Sentiamo che sarebbe nei migliori interessi di tutti se venisse scambiato» le sue parole a Sports Illustrated) e nell’estate del 2002 venne accontentato, peraltro facendolo tornare a casa.

Ai Lakers? Ovviamente no, ai Clippers — che per lui cedono Darius Miles e Harold Jamison. Il General Manager Elgin Baylor è convinto di aver fatto il colpo del secolo, prendendo una delle migliori point guard della Eastern Conference e inserendolo in un quintetto giovane e di prospettiva con Quentin Richardson, Corey Maggette, Elton Brand e Michael Olowokandi, a cui si aggiunge Lamar Odom dalla panchina. «Sulla carta siamo tra le squadre più talentuose della lega e Andre era il pezzo mancante» dichiara Baylor, entusiasta di aver trovato la point guard che mette assieme tutte le varie anime della squadra.

E sulla carta la squadra sarebbe anche buona, ma tutti i migliori giocatori sono a caccia del primo contratto in grado di cambiare la loro carriera e la stagione va rapidamente a rotoli, visto che non si crea mai alcuno spirito di squadra. I Clippers vincono solo 27 partite a fronte di 55 sconfitte, penultimi nella Western Conference davanti solo ai Denver Nuggets, e le cifre di Miller calano in maniera talmente drastica (-3 punti, -4 assist e -5% dal campo praticamente con lo stesso minutaggio di un anno prima) da rendergli impossibile raggiungere il contratto a cui aspirava. Questa delusione si va ad aggiungere al quinto posto nei Mondiali del 2002 giocati in casa, una delle peggiori edizioni di Team USA della storia pur con giocatori del calibro di Paul Pierce, Reggie Miller, Michael Finley, Ben Wallace, Shawn Marion, Jermaine O’Neal e Elton Brand. Miller è il terzo miglior realizzatore di squadra con 10.3 punti a partita dietro Pierce e Finley, ma la sua unica esperienza con la nazionale è un fiasco.

Miller nei minuti finali della partita segna la tripla del -1 che riapre i giochi, gli viene fischiato un fallo contro mentre prova a superare un blocco, regala due punti facili a Reggie Miller con un passaggio spettacolare e fallisce la tripla del pareggio sulla sirena: la squadra è comunque aggrappata a lui.

Sul mercato dei free agent Miller riesce comunque a strappare un contratto di sei anni a 51 milioni di dollari complessivi, solo che a offrirglielo sono i Denver Nuggets — facendo quindi un passo indietro e non in avanti per raggiungere i playoff per la prima volta in carriera. Denver però ha appena scelto Carmelo Anthony al Draft e pensa che Miller possa essere il playmaker perfetto per fargli arrivare il pallone al posto giusto e al momento giusto, e non ha torto. Dal 2003 al 2006 la squadra torna alla rispettabilità e partecipa per tre volte in fila alla post-season, anche se viene sempre eliminata al primo turno in cinque partite da Minnesota, San Antonio e L.A. Clippers. Miller non salta neanche una partita in tre anni (fanno 571 gare su 574 possibili nei primi sette anni di carriera sempre giocando 34 minuti di media) ed è estremamente continuo nel suo rendimento, ma non ha quella scintilla in grado di portare la squadra al livello superiore.

Nel 2006-07 la dirigenza decide di inserirlo nello scambio che porta Allen Iverson in Colorado e Miller — che pensava di aver trovato una situazione stabile a Denver — deve fare i bagagli e andare a Philadelphia. Ci mette esattamente una partita a prendersi il posto da titolare e per due stagioni e mezza non salta una gara, mancando i playoff al primo anno ma arrivandoci al secondo (eliminati al primo turno da Detroit) e soprattutto al terzo. Nel 2008-09 le aspettative attorno alla squadra sono alte dopo i rinnovi di Andre Iguodala (che lo adora e dice «Mi faceva segnare dai 6 agli 8 punti a partita senza neanche impegnarmi, avrei dovuto dargli una parte del mio contratto») e di Elton Brand, ma la squadra comincia male e l’allenatore Maurice Cheeks viene licenziato dopo una partenza da 9-14. Come se non bastasse Brand si fa male alla spalla e rimane fuori per il resto della stagione, ma da gennaio in poi Miller — che a fine anno sarebbe diventato free agent — sale di livello e si fa conoscere in giro per il paese come un borderline All-Star, portando la squadra fino a un record di 41-41, buono per il sesto posto nella Eastern Conference.

Al primo turno contro Orlando Miller gioca la miglior serie della sua carriera segnando 21 punti con 6.3 rimbalzi a partita mettendone 30 in gara-2 e sfiorando la tripla doppia in gara-3 (24 punti, 9 rimbalzi e 7 assist), ma i Magic prendono il sopravvento nelle ultime due gare della serie e chiudono i conti nel primo passo della loro cavalcata verso le Finals. Nonostante le ottime prestazioni, Miller ha già 33 anni e secondo la dirigenza non vale la pena investire su di lui a lungo termine, sempre secondo l’idea che sia un giocatore di livello “medio” per il ruolo e non uno che capace di portarti a un livello superiore. L’offerta da prendere-o-lasciare è di un annuale a cifre sotto la mid-level exception, che Miller ritiene quasi un insulto: alla sua porta si presentano i New York Knicks di Mike D’Antoni (che lo definisce «Una delle migliori point guard della lega») e i Portland Trail Blazers, che ai tempi sembravano lanciatissimi verso un futuro da dinastia con il terzetto Brandon Roy-LaMarcus Aldridge-Greg Oden.

Miller è talmente interessato ai Blazers da presentarsi all’incontro con la dirigenza guidata da Kevin Pritchard sapendo tutto sulla squadra, elencando una serie di set offensivi che avrebbero potuto utilizzare per migliorare ancora — un colloquio da allenatore più che da giocatore. «Mai successa una cosa del genere» è il commento di Pritchard, che dopo aver visto svanire il piano A (Hedo Turkoglu) e quello B (Paul Millsap) della sua estate, investe un triennale da 21 milioni di dollari complessivi su Miller. Nel frattempo, a Philadelphia Iguodala non è per nulla contento dell’addio al suo playmaker, dicendo che «ovunque sia andato, tutti hanno commesso lo stesso errore: lo cedi e sei convinto di aver fatto un buon affare, ma poi ti rendi conto che ti manca qualcosa in campo. Quel qualcosa è quello che ti dava Andre Miller».

Una seconda vita dalla panchina

Ai Blazers per la prima volta in carriera Miller non è più titolare ma esce dalla panchina, visto che coach McMillan non vuole toccare l’equilibrio trovato da Steve Blake al fianco di Brandon Roy. Andre non la prende bene, ma fintanto che non viene interrotta la sua irreale sequenza di partite consecutive (a proposito: siamo a 978 su 984 in 11 anni di carriera, anche se quella da 632 in fila si interrompe per via di una sospensione a causa di una spallata a Blake Griffin) si fa andare bene la situazione. Sono gli anni in cui però le ginocchia di Brandon Roy cominciano a dare segni di cedimento, mentre quelle di Greg Oden sono ormai irrecuperabili: Miller si ritrova quindi a essere di nuovo utilizzato in quintetto e il 30 gennaio 2010 trova una serata di grazia a Dallas, dove il tiro dalla media distanza continua a entrargli fino a metterne 52 in faccia ai Mavericks, chiudendo con 22/31 dal campo in una vittoria al supplementare.

La difesa un po’ letargica di Jason Kidd gli permette di entrare in ritmo subito e poi chiunque si trovi davanti non riesce a fermarlo — neanche Shawn Marion che si vede segnare un incredibile gancio a centro area per pareggiare la partita.

La squadra vince comunque 50 partite e lui segna 31 punti in gara-1 contro i Phoenix Suns (massimo in carriera ai playoff pareggiato), ma ancora una volta viene eliminato al primo turno in sei partite. Lo stesso succede un anno più tardi, quando a 34 anni gioca 81 partite da titolare e assiste da vicino alla resurrezione per un quarto di Brandon Roy in gara-4 contro Dallas, ma la sua esperienza in post-season si conclude ancora una volta prima che il calendario arrivi a maggio.

Per l’ennesima volta nella sua carriera la dirigenza — visto che le sue doti difensive, mai particolarmente straordinarie tolte la capacità di rubare il pallone, si stanno deteriorando — decide di andare in un’altra direzione. Nella notte del Draft del 2011 Miller viene ceduto ai Denver Nuggets insieme alla scelta numero 26 (Jordan Hamilton) in cambio di Raymond Felton e Miller si ritrova di nuovo in Colorado, questa volta sotto la guida di George Karl. Nella stagione 2011-12 accorciata dal lockout ovviamente non salta neanche una partita uscendo dalla panchina come cambio di Ty Lawson e si trasforma definitivamente nel “Professore”: non può più garantire la continuità di rendimento su alti minutaggi della prima parte di carriera, ma quando entra in campo dispensa pallacanestro alzando lob che fanno felici i vari Kenneth Faried e JaVale McGee, oltre che il nostro Danilo Gallinari.

Nel 2012-13, dopo aver rifirmato con Denver per tre anni, la squadra decolla con l’arrivo di Andre Iguodala e vince 57 partite, di cui 15 consecutive tra febbraio e marzo. Ma a poche settimane dall’inizio dei playoff Gallinari si rompe il crociato contro Dallas e con lui vanno in fumo le speranze di fare strada dei Nuggets. Miller segna comunque il canestro della vittoria in gara-1 contro i Golden State Warriors, ma per l’ennesima volta viene eliminato ad aprile.

A 37 anni suonati, Miller svernicia un Draymond Green 23enne e segna a 1.3 secondi dalla fine: fanno 28 punti con 11/16 dal campo con 5 assist.

George Karl parla di lui in maniera entusiastica, rivelando di averlo visto giocare 25 partite con una spalla lussata. «Non ci sono dieci giocatori nella storia del gioco che avrebbero potuto fare una cosa del genere. Non poteva sollevare il braccio sopra la testa e per due settimane non ha fatto altro che tirare in sottomano o in semigancio. Non starebbe fermo neanche con un braccio solo e ci ha aiutato a vincere partite anche in quelle condizioni». Nell’estate del 2013 però se ne vanno sia Masai Ujiri che George Karl e Miller — che è il leader silenzioso dello spogliatoio — si trova particolarmente male con Brian Shaw, il quale in una partita ha l’ardire di tenerlo in panchina per 48 minuti — una mancanza di rispetto inaccettabile per uno orgoglioso come Andre. Miller è convinto che sia una rappresaglia perché qualche giorno prima aveva alzato la voce esprimendo il malcontento dello spogliatoio nei confronti dell’allenatore e dopo la partita gli animi si scaldano: Shaw lo allontana dalla squadra e Miller si allena da solo per diverse settimane. Oltre ai contrasti con l’allenatore, a Denver la tifoseria e le radio locali lo avevano già messo sul banco degli imputati per la sua difesa sotto media, rendendo inevitabile il suo secondo addio al Colorado.

Miller viene ceduto a Washington per fare da chioccia a John Wall e Bradley Beal. Al suo primo ritorno a Denver, ammette di aver sbagliato a «uscire così dal mio personaggio» (cioè di quello che sta zitto e lavora) e lo definisce quello con Brian Shaw «un errore di comunicazione da entrambe le parti». Nel 2013-14 con gli Wizards si toglie la soddisfazione di superare il primo turno di playoff per la prima volta in carriera battendo finalmente i Chicago Bulls, anche se il suo contributo per i destini della squadra è sempre più marginale, pur aiutando Wall ad apprendere i segreti del ruolo di point guard.

Tra gli highlight assoluti della carriera anche quello di aver fatto segnare un canestro del sorpasso a Kevin Seraphin: se questo non vale un posto nella Hall of Fame del vostro cuore davvero non so cos’altro dirvi.

Ciò nonostante il suo obiettivo rimane quello di arrivare a giocare fino ai 40 anni, avvicinandocisi con altre due stagioni e mezza passate a Sacramento (dove ritrova George Karl), Minnesota (dove gioca 26 partite prima di essere tagliato) e infine San Antonio (dove torna titolare per 4 partite su 13, a distanza di tre anni dall’ultima). A 40 anni e 54 giorni gioca la sua ultima gara in NBA, la sconfitta in gara-6 degli Spurs sul campo degli Oklahoma City Thunder che segna la fine dell’era Tim Duncan.

Ciò che rendeva straordinario Andre Miller

Se uscisse adesso dal college un giocatore come Andre Miller, non sono sicuro che riuscirebbe ad avere lo stesso successo che ha avuto nella sua lunghissima carriera. Miller è arrivato in NBA che aveva già 23 anni compiuti, un’età in cui i giocatori migliori sono già al loro secondo contratto nella lega. Era totalmente privo di tiro da tre punti, visto che è stato un tiratore da 21.7% in carriera dall’arco e i tiri con i piedi dietro l’arco rappresentano solo il 6.8% dei suoi tentativi. Anzi: ai tempi di Washington gli era stato fatto notare un difetto nella sua meccanica di tiro suggerendogli di migliorarla, ma Miller aveva rifiutato dicendo che «se lo facessi, mi verrebbe voglia di tirare di più e non è il mio compito».

Miller era però l’epitome della point guard, di quel giocatore che pensa prima agli altri che a se stesso e controlla i tempi del gioco in maniera straordinaria, facendo felici tutti. Non che fosse incapace di segnare: pur aggirandosi a malapena dalle parti dell’1.90, è stato probabilmente uno dei migliori playmaker di sempre spalle a canestro, prendendo in giro decine e decine di point guard inesperte con finte, contro-finte e tiri in allontanamento. Quando Miller apriva il suo ufficio in post basso era uno spettacolo: pur non essendo mai stato un giocatore noto per il suo atletismo, aveva una forza fisica sorprendente che utilizzava anche per lasciare lì il proprio marcatore in avvicinamento a canestro. Aiutava poi il fatto di avere un palleggio di livello sopraffino unito a una conoscenza dei tempi, degli spazi e delle dinamiche della pallacanestro davvero da Professore del gioco.

Miller è stato uno dei migliori alzatori di lob di sempre: qui regala un game-winner a Bradley Beal direttamente dalla rimessa.

Con il passare del tempo, forse anche per la sua personalità schiva, attorno a Miller si è creato una sorta di culto pagano, spinto anche da Zach Lowe che lo inseriva sempre nei suoi articoli aggiungendo “PhD” ogni volta che lo nominava, facendo notare la maestria del suo gioco. Nei suoi ultimi anni di carriera è diventato di dominio pubblico il modo assurdo in cui si legava le scarpe (praticamente allacciandosele attorno alla caviglia e non davanti come il resto dell’umanità) e il modo meticoloso in cui si preparava i calzini, come quegli assurdi rituali delle persone anziane che hanno fatto così per una vita e guai a cambiare le loro abitudini.

In tanti hanno poi provato a capire il segreto della sua incredibile longevità e continuità di rendimento, pensando che ci fosse qualche tipo di allenamento o di dieta particolare a cui si sottoponeva in estate. La risposta invece è che non c’era assolutamente nulla: niente allenamenti, niente pesi, niente cardio, neanche prendere su il pallone per una partitella. «Si chiama off-season perché si è off, a me piace entrare in forma nel training camp. E la mia dieta non è per niente sana: mangio hamburger e salsicce come fosse sempre il 4 di luglio. Al massimo digiuno per tenere sotto controllo il peso».

Miller non ha mai dimenticato le sue origini, anche se non ha mai voluto comprare una casa a Compton. Ogni volta che tornava in estate rimaneva a casa di mamma Andrea, che a sua volta non ha mai voluto lasciare il quartiere rimanendo nelle strade e nella comunità in cui era impegnatissima, nonostante il figlio avesse guadagnato milioni di dollari in NBA. «Quando torno a casa, nessuno è sorpreso di trovarmi lì, nessuno può dirmi ‘Non ti si vedeva da un po’’. E mi rispettano per questo».

Soprattutto, Andre Miller ha avuto un rispetto quasi religioso nei confronti della pallacanestro, con uno studio dei filmati e delle situazioni di gioco quasi ossessivo. Miller è sempre stato convinto che ci fosse un modo giusto di giocare a basket e non ha mai cercato di discostarsene lungo tutta la sua carriera, mettendo il successo degli altri davanti al suo e cercando di rendere migliori i compagni attorno a sé, ma soprattutto parlando pochissimo di chi era e cosa voleva diventare, assumendo sempre un ruolo in disparte fuori dal campo dove era notoriamente “un tipo strano”.

https://twitter.com/cjzero/status/585649532098183169

Miller provava anche cose che non gli sarebbero dovute appartenere, andando in post basso contro giocatori molto più alti e forti di lui o lanciandosi in contropiedi caracollanti con poche possibilità di successo. Davvero pensava di poter schiacciare al volo a 38 anni suonati?

Andre Miller il solo giocatore della storia NBA con almeno 16.000 punti, 8.000 assist (per la precisione 8.524, 11° ogni epoca) e 1.500 recuperi a non aver mai disputato un All-Star Game, un riconoscimento che forse avrebbe meritato ma a cui non ha mai dato molto peso. «A questo livello è praticamente un concorso di popolarità» ha detto ai tempi di Washington. «Quelli sono i giocatori che vengono notati. Io non sono un nome che richiama la gente al palazzetto. Ma mi rende orgoglioso essere giudicato dal fatto che sono sempre stato pronto per lavorare e per giocare, e dal fatto che quando gli avversari vedono la mia faccia dicono “Miller è venuto a giocare, si metterà al lavoro e ci andrà giù duro”. Essere giudicato così dai miei colleghi è il mio orgoglio».

In carriera non ha mai vinto niente, andandoci solo vicino al college e mai realmente giocandosela tra i professionisti. Eppure bisognerebbe celebrare la carriera di un giocatore che per 17 lunghe stagioni è rimasto con le unghie e con i denti nella lega più competitiva del mondo, mentre il ruolo di point guard è cambiato vorticosamente attorno a lui. Andre Miller è però sempre rimasto fedele a quello che aveva deciso fin da giovane: sarebbe stato un generale in campo, un passatore prima che un realizzatore, si sarebbe sempre presentato per lavorare ogni singolo giorno e non avrebbe mai tradito quello che lui riteneva il modo giusto di giocare a basket, andando avanti al suo ritmo.

Lo ha sempre fatto, e per questo avrà sempre un posto nel mio cuore.

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