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Il mistero della Boba
21 apr 2022
Un trick iconico dei primi anni 2000.
(articolo)
7 min
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Tra il 2000 e il 2003 l’informazione era ancora lenta, un’età di mezzo tra due fasi diverse di internet. Non c’erano i social network, non c’era YouTube: se un talento sudamericano aveva cominciato a mostrare magie, il suo nome arrivava in Europa già confezionato come leggenda. I calciatori erano figure dai contorni sfumati, la loro idea costruita attraverso l’accumulazione di aneddoti raccontati sui giornali, o nelle immagini mostrate fugacemente da un servizio di Studio Sport all’ora di pranzo.

C’era ancora l’idea messianica che dal Sudamerica potessero arrivare talenti calcistici speciali, capaci di esprimere una visione del calcio unica e mai vista. Ogni talento argentino o brasiliano poteva arrivare nel calcio europeo cambiandolo per sempre, con una promessa di bellezza e felicità. Nei primi anni del 2000 quello di Andrés D’Alessandro era il talento più misterioso, i servizi di Studio Sport su di lui erano un misto di magia ed esotismo. Invariabilmente, tutti i servizi presentavano D’Alessandro come l’autore della “boba”, una finta, un dribbling, entrata nel nostro immaginario come un trucco di magia. Siamo nell’epoca del Joga Bonito, della mania PES/FIFA, del calcio come espressione di un repertorio di trick, prova d’abilità e destrezza individuale che prescinde dalla sua dimensione collettiva. Andrés D’Alessandro con la “boba” aveva inventato una cosa nuova che prima non esisteva, come fanno gli artisti con le proprie opere. Aveva codificato un modo inedito di ingannare i difensori, mettendo in una relazione nuova i due corpi dell’arte calcistica, quello del dribblatore e del difendente, e la palla come oggetto fenomenico.

Sui campetti di Roma, con i miei amici, cercavamo di replicare i trucchi visti nei servizi televisivi o nelle poche partite che riuscivamo a sbirciare nei primi anni della tv via cavo. Il doppio passo di Ronaldo, la ruleta di Zidane, i tacchi di Totti, i tiri di prima di piatto di Henry sul secondo palo, che trasformavano l’arte di finalizzazione in qualcosa di freddo e cristallino. La Boba era però più vaga e sfuggente. Provavamo a decifrare le immagini passate dalla tv - immagini di stadi sudamericani vasti come deserti lunari, ricoperti da un’intensità notturna dentro cui le maglie bianche del River nuotavano come stelle lucenti. Era difficile però capire cosa ci fosse di speciale della Boba. D’Alessandro era chiamato El Cabezon perché aveva una testa grande e rasata sopra un corpo esile; aveva vent’anni o poco più, e provava la Boba quando era isolato sulla fascia e poteva sfidare il difensore in un duello western. D’Alessandro teneva la palla ferma sotto la suola del piede sinistro, la portava leggermente all’indietro, uno spostamento minimo. In quel momento c’è un’esitazione impercettibile, un momento di stasi, a cui segue un improvviso tocco in avanti. Può essere un tocco a fianco del difensore, un tunnel, uno scavetto, a seconda dello spazio che D’Alessandro ha intravisto per superare l’uomo davanti a sé. Non c’è niente di particolarmente complesso o barocco, e l’inganno del difensore rimaneva un mistero difficile da sciogliere dallo schermo. Col tempo ho capito che il segreto non era nel modo in cui D’Alessandro toccava la palla, ma nel modo in cui non la toccava. La Boba si realizzava nella flebile esitazione fra un tocco e l’altro, che pareva far precipitare i difensori in uno stato di ipnosi. Lo descrive bene un suo compagno ai tempi dell’Internacional: «Il pallone improvvisamente si muove, e sembrava fermo». D’Alessandro, quindi, ingannava i difensori stando fermo, o meglio: realizzando una complessa armonia tra stasi e movimento. Fabrizio Gabrielli nell’articolo malinconico che gli ha dedicato ha descritto così La Boba: « mascheramenti, eclissi, oblio, ma anche un abbacinante nitore, una luce di quelle che disorientano».

Quando a D’Alessandro riusciva, nel contesto di partite molto diverse tra loro, l’atmosfera si faceva più densa, i telecronisti esclamavano frasi come “Ha riacceso il calcio!” o “Ha fatto rivivere il calcio”, come se la Boba contenesse qualche verità essenziale sul gioco. D’Alessandro ne parla come se fosse da sempre una parte di sé. Ha iniziato a farla quando in argentina giocava a futsal, dove gli spazi sono stretti e bisogna inventarli. Con la Boba D’Alessandro creava lo spazio rallentando il tempo. A battezzarla così fu Edouardo Coudet detto “El Chacho” (“Il giovanotto”), uno che quando giocava in Spagna - secondo un giornale locale - «Ha lasciato per strada più acconciature strane che calcio». La “Boba” significa, letteralmente, “La stupida” o “La tonta” ed è un nome che sembra voler descrivere l’effetto che la finta faceva sui difensori. Allenandosi con D’Alessandro, Coudet conosceva quell’effetto, ma dalla televisione era impossibile capirlo. Era una specie di incantesimo che si vive sul corpo e fatto attraverso il corpo. Roberta Da Matta riguardo i dribbling di Garrincha diceva che «Monopolizzava a tal punto l’attenzione dei difensori da provocargli una dissonanza cognitiva». D’Alessandro non dribblava spostando la palla, né spostando il corpo, ma facendo come se stesse per spostare entrambe le cose, riuscendo nell’impresa impossibile di depistare le intenzioni più dichiarate. I difensori sapevano sarebbe andato da quella parte, ma quando dovevano ricordarselo vivevano un breve momento d’oblio. Aveva gambe corte ed esili di un ragazzino mal nutrito, non aveva la reattività incendiaria dei migliori dribblatori argentini, e nemmeno il corpo pesante da grosso mammifero del quasi contemporaneo Riquelme. D’Alessandro aveva bisogno di sviluppare un’arte dell’elusione.

Oggi Neymar ha nel suo vastissimo repertorio di dribbling una cosa che somiglia alla Boba. Sulla sinistra, col difensore davanti, la palla rimane completamente ferma, mentre lui incede in diverse esitazioni, per poi scegliere il momento più inatteso per portarsi avanti il pallone, a lato del difensore o tra le sue gambe. La velocità di Neymar è diversa, e il fatto che non tocchi la palla in precedenza riduce in qualche modo il senso di magia.

La Boba doveva essere solo il biglietto da visita pubblicitario per una carriera di alto livello, invece la vita di D’Alessandro è diventata bizzarra e indecifrabile, con una malinconia molto sudamericana - che di solito è quella dell’intraducibilità tra quel calcio e quello europeo. Si diceva che Moggi avesse offerto 28 milioni di dollari per portarlo alla Juventus; che su di lui ci fossero Manchester United e Real Madrid. Su di lui c’era ovviamente il dolce anatema di Nuovo Maradona, visto che Diego stesso aveva detto «Non c’è nessuno che mi somiglia di più» (ma com’era davvero possibile vedere una somiglianza?). D’Alessandro invece arrivò in Germania, al Wolfsburg, lasciando un segno trascurabile. Indossò anche le maglie del Real Saragozza e del Portsmouth prima di trovare la sua vera dimensione, che per certi versi non poteva che essere il Brasile, la patria della finta, del calcio che più ha elevato il dribbling ad arte barocca. All’Internacional de Porto Alegre D’Alessandro è diventato un idolo, una figura in bilico tra realtà e leggenda. Lì ha giocato quasi 300 partite distribuite in tre momenti diversi. Nel 2016 tornò la prima volta con la promessa di riportare il club nella massima serie dopo la retrocessione; nel 2022 è tornato ormai quarantenne, con l’aria di chi sta vivendo un difficile compromesso col tempo che passa. I capelli caduti acconciati in una cervellotica distribuzione di lunghezze per farli sembrare omogenei, la faccia bolsa, la barbetta fina di chi ha studiato un modo di mascherare le rughe col pelo. Giocò un’unica partita dove riuscì comunque a segnare. Negli ultimi anni continuava a realizzare Bobe lente, testarde e meravigliose.

Durante il suo addio sugli spalti sventolavano striscioni in suo onore, bandiere con la sua faccia. D’Alessandro, tutto tatuato e ormai pelato, è stato portato in trionfo dai compagni, con un corpo da bambino invecchiato troppo in fretta. Dopo ha salutato il pubblico in lacrime con una mano sul cuore, abbracciato a sua madre. Tutti a celebrare una grandezza che da qui proprio non riusciamo ad afferrare.

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