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Andrés Iniesta, diverso da tutti
25 mag 2018
Dopo l'addio al Barcellona celebriamo il leggendario centrocampista spagnolo, talento sempre più raro nel calcio contemporaneo.
(articolo)
17 min
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Le novità della primavera-estate del 1984 nel Bar Luján di Fuentealbilla, nel cuore de La Mancha, Spagna profonda, erano sostanzialmente due. La prima, che aveva scatenato nei bambini - e non solo - un entusiasmo mai visto prima, era l’arrivo del Calippo nel bancone gelati: prezzo 45 pesetas. Nella Spagna appena uscita dalla cosiddetta fase della Transizione, cioè il passaggio dalla dittatura franchista alla monarchia parlamentare, anche queste piccole novità sembravano avere importanza. In quel periodo storico, la Movida, inteso come movimento sociale e artistico controculturale, si stava trasformando in brand commerciale che la politica spagnola offriva al mondo come simbolo del cambiamento e delle libertà riconquistate. Il Partito Socialista, arrivato al potere nel 1982 (anno in cui la Spagna ospitò i Mondiali di calcio), aveva appena riformato il Codice Penale per depenalizzare il possesso di droghe leggere per consumo personale, ponendosi così all’avanguardia nel mondo. Bisognava rompere totalmente con il passato, offrire una nuova immagine a livello internazionale, anche per poter finalmente entrare nella Comunità Europea.

Di tutto questo a Fuentealbilla non c’era traccia. La seconda novità, oltre al Calippo, che ha modificato la routine del Bar Luján, il vero grande cambiamento di quell’estate ‘84, era la nascita del piccolo Andrés, l’11 maggio. La madre, Maria Luján, aiutava nel bar di famiglia ed era sposata con José Antonio Iniesta, muratore con la grande passione per il calcio: non potevano sapere che quel bambino avrebbe portato a compimento un’altra transizione epocale, quella del calcio spagnolo.

Un ragazzo sensibile

In quel momento, in quella parte di Spagna, diventare calciatori non era un’aspirazione da prendere sul serio, soprattutto per una famiglia così umile. E quando il piccolo Andrés, piccolo sul serio, di statura e corporatura, dimostra di essere molto bravo, tanto da poter andare all’Albacete, a Fuentealbilla la famiglia è quasi presa in giro. “Eravamo gli scemi del villaggio”, ricorda proprio Iniesta nella sua autobiografia La jugada de mi vida. Erano scemi perché facevano avanti e indietro con la Ford Orion, e 100 chilometri sono tanti da percorrere quasi tre volte a settimana; e perché il padre dovette risparmiare soldi per più di tre mesi solo per potergli comprare degli scarpini nuovi.

Era fortissimo, Andrés, certo: ma era piccolo, pallido, introverso, ed era molto difficile immaginare che sarebbe diventato calciatore. Lo pensavano in molti, anche una volta arrivato all’Albacete, a 8 anni. Un bambino estremamente sensibile e di pochissime parole: alcuni ricordano di avergli sentito dire solo “¡Si Señor!”, ad allenatori e arbitri.

Il primo cartellino di Iniesta all’Albacete.

Il contesto educativo di Iniesta, anche a livello emotivo, è fondamentale per capire lo sviluppo della sua carriera. Quando viene notato dal Barça a un torneo di calcio a 7, infatti, ha appena 12 anni: inizialmente rifiuta l’offerta, ma dopo qualche settimana ci ripensa (sensibilità e dubbio vanno spesso a braccetto) ed è lui personalmente a dire al padre di essere pronto.

Settembre 1996, la Ford Orion di José Antonio Iniesta stavolta arriva fino a Barcellona: il piccolo Andrés viene lasciato alla Masia, residenza per i giovani del vivaio blaugrana, a cavarsela da solo, con grande sgomento familiare (seppure la madre abbia sempre assecondato ogni velleità calcistica del figlio) e ancor più personale. Iniesta, ovviamente, non era pronto a quel salto: nessun bambino di 12 anni potrebbe (dovrebbe) lasciare la famiglia per ritrovarsi in un collegio, in questo caso calcistico. È anche una piccola lezione sulla difficoltà estrema di diventare calciatori professionisti: quanti abbandonerebbero (a 12 anni è un termine corretto) i propri figli in una città come Barcellona per permettergli di inseguire un sogno con scarse probabilità di successo (circa il 65% dei residenti della Masia non diventa calciatore professionista)?

L’inizio della sua carriera da blaugrana è così raccontato da chi gestiva la struttura: “era un bambino di 12 anni che passava 22 ore al giorno piangendo per tutti gli angoli della Masia”. La sua sensibilità lo stava privando del sogno di diventare un calciatore: la vita della Masia, però, lo ha in qualche modo aiutato a trovare un percorso. In fondo, non si può capire davvero l’epopea del grande Barça (da Guardiola in poi) senza considerare l’aspetto umano: molti di quei giocatori non si erano solo allenati insieme, ma avevano vissuto insieme, erano cresciuti scherzando tra i corridoi e nelle stanze. Puyol e Víctor Valdés erano i suoi custodi (“non permettevano a nessuno di farci male, ci proteggevano”): e si può immaginare facilmente di quanta protezione avesse bisogno Iniesta, 12 anni, introverso, piccolo, pallido e incline alle lacrime. L’anno dopo arriveranno nelle giovanili anche Fàbregas e Piqué; quattro anni dopo, toccherà a Messi arrivare alla Masia. Crescere insieme in quel contesto significa non solo conoscersi tecnicamente, ma anche elaborare delle regole, che per vivere in una struttura del genere sono necessarie.

“Messi, Xavi, Iniesta e tutta la combriccola sembravano tanti scolaretti. I migliori giocatori del mondo stavano lì a inchinarsi, e io non ci capivo niente” (da “Io, Ibra”): Ibrahimovic non capiva (e non poteva, visto il differente background - per crescere Ibra aveva dovuto caricarsi tutto sulle spalle) che quei giocatori erano diventati i più forti del mondo proprio grazie alla Masia, dove avevano imparato sulla loro pelle la difficoltà di diventare giocatori e l’importanza degli altri nella crescita, umana e calcistica. Era tutta una combriccola perché avevano vissuto insieme (o quasi) uno dei momenti più difficili per una persona, l’adolescenza. E forse nessuno più di Iniesta può davvero simboleggiare il dolore, la disciplina e il modello della cantera del Barcellona.

Un calciatore precoce

Come in tutte le storie di successo, c’è una serie di coincidenze a spingere Iniesta. La prima grande fortuna è di crescere, bambino, durante l’epoca del cruyffismo e il suo accento sul pallone e sull’importanza della comprensione di gioco. Perché da quello che raccontano persino i suoi compagni nelle giovanili dell’Albacete, Iniesta non sembrava destinato a diventare un atleta: dalla sua aveva un grande controllo non solo del pallone, ma anche del gioco. I compagni lo cercavano non solo per fargli risolvere le partite ma soprattutto perché facilitava le giocate: l’intelligenza calcistica di Iniesta quindi può essere davvero considerata una dote naturale, poi affinata nella migliore delle scuole. Fin da piccolo, Iniesta cercava di sistemare le cose in campo, di dargli un senso, di ordinare il caos: era un tipo già abbastanza preciso di talento.

Dopo due stagioni nel Barça B (nella terza divisione spagnola), ci pensa Van Gaal a capirne il valore, e questo è l’altro decisivo soffio di vento per la sua carriera: un allenatore che preferisce i giovani perché più malleabili e plasmabili ai suoi principi di gioco. Iniesta debutta nel Barça a 18 anni, da titolare, in Champions League nella trasferta di Bruges. Ottiene altre 5 presenze da titolare, costringendo addirittura Riquelme alla panchina: ma a fine gennaio 2003 Van Gaal viene esonerato e Iniesta ritorna nella squadra B.

Iniesta umilia alcuni tra i più grandi calciatori al mondo, senza quasi scomporsi: e soprattutto non cade mai, neppure quando effettivamente lo falciano (il vantaggio posizionale e numerico ottenuto è per lui più importante di un’eventuale sanzione contro l’avversario).

Precoce in tutto, Iniesta non è però uno di quei talenti che esplodono, e non ha una personalità così forte da imporsi immediatamente: nella magica stagione del suo primo doblete, 2005-06, Iniesta gioca tantissimo tra tutte le competizioni, 49 partite, ma solo 23 da titolare. Iniesta gioca dove serve a Rijkaard (davanti alla difesa, mezzala, esterno offensivo) e per l’allenatore è più utile averlo in campo a partita in corso, come revulsivo, il termine spagnolo per indicare un giocatore che entra per cambiare la gara, una sorta di ingrediente extra a seconda del contesto. In particolare, in quella stagione c’è forse uno dei suoi ricordi più difficili da elaborare, la panchina nella finale di Champions League contro l’Arsenal: entra nel secondo tempo, cambia la partita (insieme agli altri panchinari Larsson e Belletti), ma non riesce a festeggiare come si deve. Il suo rapporto con Rijkaard rimarrà per sempre freddo, per quella partita.

L’Iniesta giovane era un giocatore diverso, con un ruolo ancora poco definito perché ancora piegato alle esigenze dell’allenatore: inizialmente trequartista, poi usato spesso da ala sinistra, perché veloce quanto bastava nel breve e abile nel sistemarsi tra le linee, oppure da esterno sinistro. Nel corso della sua carriera, riuscirà a giocare in praticamente tutti i ruoli dal centrocampo in su, garantendo sempre una sua interpretazione dei compiti affidatigli, persino in quest’ultimo Barça che lo costringeva ormai 33enne sulla fascia, e fuori dal gioco. In questo, forse, l’unico vero centrocampista totale del Barça: i suoi compagni storici Busquets e Xavi sono troppo specializzati nella creazione della manovra per poter giocare sulle fasce o vicino all’area avversaria. Iniesta è sempre riuscito ad aiutare la squadra perché la sua idea di calcio richiama la facilità, come un grande decodificatore: dare significato a parole calcistiche incomprensibili, restituire ordine al caos del campo, facendo apparire soluzioni non immaginate neppure dagli altri.

Sono tutte facili, le giocate di Iniesta, perché quasi mai forzate: il contesto di gioco viene elaborato in anticipo, anche grazie a principi e strumenti di gioco ormai codificati ed elaborati sin da bambino, da quando cioè viene educato ai principi del gioco di posizione.

Nella sua teoria delle intelligenze multiple, Gardner definisce l’intelligenza come “la capacità di risolvere problemi, o di creare prodotti, che sono apprezzati all'interno di uno o più contesti culturali”. Iniesta è il re dell’intelligenza spaziale, che “riguarda movimento, spazio e tempo. [...] Questa intelligenza è strettamente legata alla capacità di percepire, trasformare, decifrare immagini e riconoscere un oggetto osservandolo da diverse angolature. Un tipo di intelligenza che sviluppa la lateralità, la dimensionalità e l’orientamento [...]. Fondamentale per anticipare le giocate e decidere con rapidità” (da Mentes Deportivas, della psicologa Rosa Coba). Difficile trovare una migliore sintesi delle qualità di Iniesta, che è appunto intelligenza fatta calciatore.

Iniesta presenta ovviamente altri tipi di intelligenza molto sviluppati, ma forse quella meno evidente è la musicale: nel suo caso, la capacità di alzare e abbassare i ritmi anche in contrasto con l’andamento della partita. Quando il gioco è eccessivamente frenetico, per paura che la propria squadra si disordini, Iniesta rallenta la velocità del pallone, attraendo avversari o ricominciando dal basso: la sua eterna necessità di mettere ordine al caos. Quando la partita è in fase di stanca, però, il numero 8 del Barça riesce ad accelerare come in un videogioco: queste sono le sue azioni più da Youtube, quando anche palla al piede sembra attraversare gli avversari.

Le sue compilation palla al piede non scherzano: è interessante come emerga la sua capacità di rubare il tempo all’avversario, spesso quasi andandogli incontro. Ci sono più croquetas (destro-sinistro per dribblare l’avversario) in questo video che in un bar di Albacete.

Iniesta ha saputo facilitare il gioco della propria squadra in tutte le zone del campo, persino giocando da vero idraulico liquido dell’avanzamento del pallone: nel corso degli anni, si è trasformato anche in Xavi, ingrandendo i suoi compiti in modo quasi mostruoso. Quando gli avversari bloccano Busquets, è lui a intervenire per portare il pallone oltre la metà campo.

Le abilità di Iniesta con il pallone sono evidenti: la sua tecnica nello stretto lo fa uscire in modo stilisticamente perfetto da ogni situazione, pur non essendo agile come Messi, e spesso grazie alla croqueta, la sua firma stilistica. La capacità di ricevere tra le linee e di dominare gli spazi di mezzo, insieme alla sua capacità associativa, sono state decisive per il Barça di Guardiola, l’allenatore che più lo ha esaltato. Guardiola è stato l’allenatore che, capendone appieno l’intelligenza tattica, è riuscito a cambiarne la carriera. Invece di sfruttarlo come un jolly, ha reso Iniesta il punto di riferimento per Xavi, il giocatore a cui aveva affidato le chiavi della squadra. Con un passaggio logico che all’epoca sembrava controintuitivo, ha associato due calciatori dai pregi e difetti molto simili tra loro. Non coprire le debolezze, quindi: ma aumentare la capacità di ordinarsi e anche difendersi con il pallone.

Iniesta è stato il migliore nell’associarsi a Xavi, nel creare linee di passaggio nella propria metà campo, e ancora di più nel fornirne tra le linee. Iniesta era al servizio della squadra, ma come base di partenza del sistema, come decodificatore in grado di ingigantire i pregi del sistema di Guardiola. Forse l’unico con un accenno di vertigine verticale nel Barça, e davvero a suo agio in spazi stretti. Nessuno come Iniesta ha saputo essere un degno pari di Messi, neppure Neymar: perché Iniesta sapeva leggere benissimo lo spartito dell’argentino, e adeguarsi a quel tipo di musica. Le giocate a muro tra i due, cioè l’avanzamento del pallone con continui scambi avanti-indietro, rimangono la migliore espressione della loro intesa, come se ci fosse un filo a legarli nei movimenti.

In un'epoca in cui nessuno vuole essere Robin, lui lo è stato praticamente per tutta la carriera, fedele scudiero di Batman-Messi. Eppure, quando gli è toccato salvare il mondo in prima persona, lo ha fatto. Iniesta è stato, se possibile, persino più importante nella Spagna, dove appunto Messi non c’era: perché l’argentino genera un’attrazione gravitazionale che fagocita chiunque altro. E invece nella Spagna è stato ed è ancora Iniesta il vero astro attorno a cui tutti gli altri, compagni e avversari, ruotano: in fondo è questo il significato delle celebri foto di Iniesta da solo circondato da avversari. Tutte foto con la maglia della Nazionale: è lì che davvero Iniesta è riuscito a scrollarsi di dosso la sua timidezza, e in questo Aragonés prima e Del Bosque poi sono stati decisivi.

Il lascito di Iniesta

Il paradosso della sua carriera è che di un giocatore dai talenti così grandi e così poco appariscenti tutti ricorderanno i gol, anzi due gol. Il primo è il cosiddetto Iniestazo, il gol che al 93esimo della semifinale tra Chelsea e Barcellona qualifica i catalani alla finale di Roma, che poi vinceranno: forse il singolo episodio più importante dell’epopea guardiolesca al Barça. Il secondo è il simbolo calcistico di un intero movimento, il gol al minuto 116 della finale del Mondiale tra Spagna e Olanda, la fine delle transizione delle Furie Rosse nel gotha calcistico mondiale. In entrambi i casi, Iniesta sembra fornire sempre un’immagine di tranquillità al momento del tiro: e forse non è un caso che sia stato proprio lui, in situazioni così delicate ed estreme, l’unico in grado di rimanere lucido. Del gol contro l’Olanda, dice di “aver sentito il silenzio”, nel momento in cui stava per colpire il pallone: l’espressione massima della concentrazione, annullare qualunque interferenza esterna.

Batman ha bisogno di Robin: circondato da avversari, Messi si libera del pallone e serve Iniesta. Dalla ripresa dall’alto, si intuisce come il centrocampista del Barça capisca in anticipo la necessità di allontanarsi dagli avversari per avere più spazio di tiro: arretramento di due-tre passi, corpo leggermente all’indietro, mezzo collo esterno, gol. Pura intelligenza spaziale applicata al calcio.

Il paradosso della sua vita è che l’estrema sensibilità e la capacità di assorbire ed elaborare quello che succede intorno, gli hanno praticamente rovinato il periodo tra questi due episodi (e per fortuna solo questo). E che in qualche modo, quei due gol abbiano addirittura definito non solo la sua legacy, ma anche la sua vita. Dopo il gol al Chelsea, infatti, Iniesta si infortuna in modo piuttosto grave: lesione muscolare alla gamba destra (la quarta in 7 mesi), con soli 17 giorni per recuperare. Lo rimettono in campo in condizioni precarie per la finale di Champions contro il Manchester United, addirittura con l’ordine dello staff medico di non tirare mai in porta. Il Barça vince, ma forse la vittoria svuota Iniesta di qualcosa: durante l’estate si accorge che qualcosa non va, si sente male, giorno dopo giorno. Effettua tutte le possibili visite mediche, ma il suo corpo non ha nulla. Al primo giorno di ritiro si infortuna di nuovo, allo stesso muscolo: deve allenarsi a parte, da solo. L’ultimo giorno della tournée in USA, Puyol gli si avvicina e gli annuncia una notizia ferale: Dani Jarque, il capitano dell’Espanyol, e suo amico, è morto in una camera di Coverciano, dove la sua squadra era in ritiro. “A partire da quel momento è iniziata la mia caduta libera verso un luogo sconosciuto... Ho visto l’abisso. Ed è stato allora che ho detto al dottore “non ce la faccio più”. L’abisso è la depressione, mai nominata esplicitamente, perché usare quella parola significherebbe riconoscere un problema, dargli un valore: è ancora un tabù troppo grande nel calcio.

Dall’altra parte, Iniesta non vuole apparire vittima, e sembra quasi voler dire che forse è stato troppo debole lui, visto quello che le persone “normali”, come i suoi genitori, sopportano. Per capire la gravità della situazione, Iniesta arriva persino a dire che “quando la mente e il corpo sono in una situazione di così grande vulnerabilità, sei capace di qualunque cosa. Forse suona troppo forte, ma arrivo a capire le persone che in un determinato momento fanno una pazzia”. Qui il convitato di pietra è il suicidio. Ci vuole un lavoro di equipe, tra psicologi e fisioterapisti, per tirarlo fuori dall’abisso. Ma il problema per uno sportivo è che una volta ritornati alla vita, bisogna anche recuperare tutta una serie di certezze legate al campo (Iniesta evidenzia come anche negli allenamenti non riuscisse a fare cose elementari per lui, con evidente sorpresa dei compagni). A chiudere davvero il cerchio, infatti, in un modo quasi magico, è il gol che regala il Mondiale alla Spagna, e quella maglietta mostrata al mondo con la scritta “Dani Jarque siempre con nosotros”.

Foto di Franck Fife / Getty Images

Il gol al Mondiale, dopo il lavoro degli psicologi, ci ha restituito forse la più grande mezzala della storia, l’uomo capace di trovare soluzioni con il pallone in spazi angusti, di dominare gli avversari senza alcuna prevaricazione, una vera e propria forza gentile, e quindi inevitabilmente meno appariscente. “El Messi de las sombras” (secondo Martí Perarnau), cioè il genio meno visibile ma altrettanto decisivo, e che avrebbe probabilmente meritato il Pallone d’oro del 2010 al posto dell’argentino.

Iniesta è passato per il calcio come una grande nave da crociera, che solca serena ma decisa il mare, con il suo passo, a prescindere dalle condizioni atmosferiche, dall'intensità della burrasca: nel suo elemento naturale. La sua legacy ha diverse direzioni, proprio come le sue intelligenze e talenti: simbolo di controllo in un calcio iperdinamico; simbolo gentile, mai eccessivo e antidivo; santino della storia del calcio spagnolo; il paradosso vivente della modernità della tradizione (il suo calcio avrebbe trionfato anche negli anni '50) e dell'uomo che finisce in copertina da dietro le quinte che si è scelto.

Tra i suoi soprannomi, il più famoso è l’Illusionista, appunto, perché fa sembrare tutto incredibilmente facile; illusionista, perché per quasi un'intera carriera ci ha fatto credere di essere una figura secondaria e invece era il vero motore creativo del Barça e della Nazionale spagnola.

Il campione più sottovalutato degli anni 2000, l’unico a saper giocare in tutti i contesti e ad aiutare la realizzazione di diverse idee di gioco: il suo supereroe al Barça, Messi, non è riuscito ad elaborare questa capacità nonostante tutto l’impegno (vedasi carriera con l’Argentina). Unico a giocare tutte e 4 le finali di Champions vinte dal Barca dal 2006; uno dei 4 titolari nelle tre finali consecutive della Spagna (insieme a Casillas, Ramos e Xavi); Iniesta è anche un giocatore da grandi partite.

In un calcio che sta spingendo sempre più sul dinamismo e che va a una velocità supersonica, chissà se vedremo mai più un giocatore come Iniesta. Forse i talenti come il suo saranno meno apprezzati dagli scout delle giovanili, ma diventeranno addirittura più indispensabili e rari nel grande calcio: giocatori capaci di decidere i ritmi della partita, di alterarli e di giocarci.

Adesso che la sua storia nella Liga è finita, se ne va l’unico calciatore in grado di unire la Spagna: perché Iniesta è il bambino silenzioso e introverso, che se gli dai un calcio ti chiede scusa (parole di Eto’o) e che alla fine della giostra, dopo una breve parentesi all’estero (al Vissel Kobe, la squadra giapponese del suo idolo di gioventù Laudrup), tornerà probabilmente nella sua terra, a gestire la Bodega Iniesta, 200 ettari di vigneto. La splendida partita giocata contro il Siviglia, in finale di Coppa del Re, è stata una degna uscita di scena, con tanto di gol difficile reso facile: questa volta, però, le ombre sono sparite e tutti hanno capito che il vero Re, quello del gioco, non era in tribuna, ma in campo.

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