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Tutti gli addii di Andres Iniesta
08 ott 2024
L'ultimo, oggi, al calcio giocato.
(articolo)
9 min
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IMAGO / ANP
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"Erano questi gesti che me li rendevano vicini perché erano uomini che recitavano addii. Avevano una singolare predisposizione a dire addio", è un passaggio del capolavoro di Filippo Tuena, Ultimo parallelo (Il Saggiatore), il racconto della spedizione al Polo Sud del capitano Scott e dei suoi compagni; spedizione in cui morirono sia Scott sia gli uomini che fecero le ultime miglia di ghiaccio con lui.

Quel passaggio mi è tornato in mente appena ho scoperto la notizia dell’addio al calcio di Andrés Iniesta – l’annuncio programmato per martedì 8 ottobre 2024, cioè oggi – perché quello che è stato uno dei miei calciatori preferiti in assoluto ha una certa predisposizione a dire addio, è talmente predisposto che è pronto a recitarne diversi, diluiti nel tempo, sciolti in lacrime di commozione, sue e nostre. Quando Iniesta se ne va, i gesti che compie, come quelli del capitano Scott e dei suoi uomini, me lo rendono vicino, perché in quei momenti – pur essendo ancora il fuoriclasse che ci ha incantati negli anni – mi è così prossimo da sembrare un mio amico.

Ci sono molti modi di dire addio al professionismo sportivo, soprattutto ci sono atleti che sanno farlo nella maniera (per loro) più giusta, ed è il caso di Iniesta, forse anche di Roger Federer (anche se un po’ meno, anche se in maniera diversa). All’apparenza sembrerebbe che Iniesta sappia dire addio, despedirse, come dicono in Spagna e Federer un poco meno, che ci arrivi a un certo punto quasi per contrarietà, non potendo fare altrimenti, non potendo più – molto semplicemente – giocare.

Poi ci sono quelli che l’addio non sanno recitarlo, proprio non lo sopportano, è il caso per esempio di Zidane, raccontato magistralmente dallo scrittore Jean Philippe Toussaint in La malinconia di Zidane, (Casagrande edizioni). Cosa scrive Toussaint? Scrive in maniera dolcissima, colta, romantica, del gesto che Zidane non può compiere: quello di smettere di giocare. Zizou non è capace, non sa dire addio. Nella sera di Berlino - Toussaint scrive della finale dei Mondiali del 2006 dove il destino scriverà una pagina di storia del calcio che non lo vedrà sollevare la coppa - lui mette in scena una serie di piccoli e frantumati e inconsapevoli addii: il rigore - un cucchiaio indolente -, la poetica definizione di Toussaint, del primo tempo, e il colpo di testa sventato dalla splendida parata di Buffon. Anche il quasi gol è un addio? Forse. Questi sono i saluti di Zidane, che secondo lo scrittore, preda della malinconia, della già presente nostalgia, mostra segni inequivocabili di insofferenza, come la fascia di capitano che continua a scivolare, le occhiate ai compagni, già insopportabili, già altra cosa da lui. Toussaint prosegue, la sua scrittura è poetica, limpida, e arriva all’addio di Zidane che avviene più tardi e sarà un gesto cupo che farà dimenticare la partita, i calci di rigore e il vincitore, lo scrive da francese, naturalmente. Il gesto di Zidane resta, ed è il gesto che allo stadio nessuno vede e che, se nessuno ha visto, non è accaduto. La testata a Materazzi, mai nominato dallo scrittore. L’addio è uno strappo. Toussaint scrive del gioco che riprende, con i giocatori che ricominciano là da dove erano rimasti, poi l’arbitro fischia e Buffon prende la testa di Zidane tra le mani, lo consola, lo scuote, lo accarezza, lo accompagna, lo capisce. Avverte forse la sua malinconia. Il cartellino rosso con cui l’arbitro espelle Zidane viene chiamato dall’autore il cartellino nero della malinconia. Zidane se ne va così, non è pronto per l’ultimo applauso e, forse, per uno come lui non ha senso. La sua uscita di scena, l’ultimo fotogramma, sembra estratto da un capolavoro del cinema: Zidane si avvia verso lo spogliatoio sfilando accanto alla Coppa del Mondo. Zidane non sa programmare un addio, ma ne improvvisa alcuni durante la finale dei Mondiali e, anche in quel modo, col senno di poi, ci commuove e ci incanta come quando spostava la palla con la suola e in giravolta si liberava di un paio di avversari.

Iniesta, quando lascia il Barcellona, seguendo la sua indole, programma le cose, prepara l’addio, ma anche per lui si tratta di piccoli frammenti, piccoli saluti sparsi. Iniesta convoca una conferenza stampa per il 27 aprile 2018 nella quale annuncerà il ritiro. Prima però ne parla con la famiglia, decide con Anna sua moglie, poi lo comunica ai compagni di squadra, quelli più stretti, chiama Jordi Alba, Piqué, Messi, Suárez, Busquets e dice loro: finisco la stagione e me ne vado, è arrivato il mio giorno. Si abbracciano, si commuovono. Qualcuno tace come Leo Messi, Jordi Alba lo abbraccia forte. Messi dirà in seguito: «Tutto finisce, no? Prima Xavi, dopo Andrés, un giorno toccherà anche a me», giorno che, per fortuna dei tifosi dell’Inter Miami e di tutti gli appassionati di calcio, non è ancora arrivato. Chissà se Messi saprà dire addio, ma forse sì, il suo rivale di sempre, Cristiano Ronaldo, con ogni probabilità non sarà in grado, per motivi – immaginiamo – molto diversi da quelli di Zidane.

Il primo addio però, Andrés, lo recita sei giorni prima, quando il Barcellona vince la Coppa del Re battendo il Siviglia 5-0. Quella partita è magica, a Iniesta riesce di tutto e segna anche un gol bellissimo, dopo un triangolo con Messi. Iniesta ha lo specchio della porta chiuso, finta sul portiere in uscita spostando il pallone con il sinistro e poi calcia di destro. Valverde – ed ecco il frammento – lo richiama in panchina quando mancano tre minuti al novantesimo, l’addio non è ancora ufficiale, ma è come se lo fosse, in qualche modo tutti sanno. Parte una indimenticabile standing ovation, sugli spalti sono tutti commossi, anche i tifosi del Siviglia che applaudono in maniera convinta e grata.

Il secondo frammento è quello della conferenza stampa, in cui Iniesta è talmente commosso che quasi non riesce a parlare, si tocca la maglietta, si tocca il mento, si gratta la testa, ha le lacrime agli occhi, dice più volte: «È complicato», e lo è. Seduti davanti a lui ci sono i familiari, gli amici, e tutto il Barcellona. Jordi Alba trattiene a stento le lacrime, Rakitić si nasconde, Piqué si passa la mano tra i capelli. Ringrazia tutti, ha trentaquattro anni, dice che ha dato il massimo, che bisogna capire quando passare la mano, si commuove.

Altro frammento, il Clasico del 4 maggio, una bella partita che finirà 2-2. Sergio Ramos qualche giorno prima gli ha chiesto l’ultima maglia, l’avrà. Iniesta viene richiamato in panchina a metà del secondo tempo e riceve la standing ovation del Santiago Bernabeu, una cosa da brividi. Uscendo dal terreno di gioco, passa accanto a Zidane – tecnico dei "blancos" – come questi era passato accanto alla Coppa del Mondo, Zizou lo abbraccia. Dirsi addio, ancora una volta. Il 20 maggio è il giorno della festa, sembrerebbe l’ultimo frame. Il Barcellona ha già vinto matematicamente il campionato, l’ennesimo per Iniesta, il Camp Nou è in visibilio, c’è il famoso striscione Infinit Iniesta, con il doppio otto in orizzontale, ci sono gli applausi e i cori che durano tutta la partita. Iniesta esce a nove minuti dalla fine, attacca la fascia di capitano al braccio di Messi, il passaggio di testimone è definitivo, Busquets ha le lacrime agli occhi, gli avversari della Real Sociedad applaudono, il pubblico è al culmine delle emozioni. Iniesta si siede in panchina ha gli occhi lucidi, poi parte lo show. Gli danno un microfono, le ultime parole saranno «forza Barcellona, forza Catalogna», e poi c’è lui che torna sul terreno di gioco a piedi nudi, si siede al centro del campo, a contatto con la sua erba, la sua casa, gustandosi il silenzio del Camp Nou.

Tutto perfetto e nella nostra memoria l’addio al Barcellona è sembrato anche un addio vero al calcio, e invece no. Gli anni in Giappone di Iniesta sono stati buoni e anche vincenti, anni felici, e hanno generato altri momenti di commiato, perché Andrés si lega ai luoghi, alle squadre, alle persone ed è legato al pallone, scopre di non saper andarsene come aveva creduto. Finisce il periodo in Giappone ma va a giocare una stagione negli Emirati Arabi e dopo spera ancora di giocare, fino all’estate appena finita, fino a ieri, fino a questo 8 ottobre, in cui il numero sarà girato in orizzontale un’altra volta e per sempre.

Zidane e Iniesta, uno non sa dire addio e l’altro sì, così ci è parso di capire, ma in realtà sia l’addio con strappo di Zizou, sia quello diluito in tanti commoventi saluti di Andrés ci raccontano qualcosa di molto più profondo e intimo che ha a che fare anche con noi appassionati. Qualunque sia il carattere di un campione il suo addio non sarà mai recitato per davvero l’ultimo giorno, programmato o meno che sia, perché l’addio è una condizione esistenziale del calciatore, del giocatore di basket, del tennista, dal giorno in cui hanno cominciato le carriere. In questo senso Federer, Zidane, Iniesta, Maradona con il celeberrimo «La pelota no se mancha», Michael Jordan, o chiunque ci venga in mente, hanno recitato addii dal primo all’ultimo gesto sul campo. Ci hanno sempre e per sempre trasmesso il senso di perdita legato al pensiero della fine. Cosa sono un dribbling riuscito, un gol, un diritto vincente, un canestro da tre, se non un modo di finire qualcosa? Sono o non sono minuscoli atomi di addio che si installano nella nostra memoria preannunciandoci la mancanza che verrà?

"La morte / si sconta / vivendo", scrive Giuseppe Ungaretti, nella geniale terzina che chiude la poesia Sono una creatura. Ungaretti parlava dell’impotenza dell’uomo davanti all’orrore e al dolore. La nostra morte si sconta vivendo, sopravvivendo a quella di chi è morto. L’angoscia è la pena da scontare, il senso di colpa per averla scampata. E allora, in maniera molto meno dolorosa, più terrena, molto meno tragica, andando all’ultimo addio di Iniesta, ho pensato che l’addio si sconti giocando.

Perciò Iniesta ci ha detto addio centinaia di volte e per ognuna di quelle volte ha sparso bellezza. Ci ha detto addio il 6 maggio del 2009 segnando quel gol pazzesco contro il Chelsea nella semifinale di Champions League, al minuto 93, coordinandosi in maniera perfetta fuori dall’area di rigore, come se pensasse a quell’istante da sempre.

Ci ha detto addio nella Champions League del 2015, ballando intorno ai giocatori del PSG, scivolando sul prato come un pattinatore per lanciare poi Neymar verso la porta e il gol. Ha recitato un addio durante il Clasico del novembre 2015: nel secondo tempo, Iniesta riceve palla, controlla, avanza e vede il taglio di Neymar dentro l’area. Iniesta passa la palla al brasiliano e non si ferma, sfila dietro Modric (che se lo perde). Neymar con un colpo di tacco manda la palla in un punto in cui – fino a quel momento – non c’era nessuno. Poi Iniesta arriva prima di tutti e calcia in corsa, il tiro è bellissimo e finisce in gol, sotto la traversa. Ha recitato addii ogni volta che ha tenuto la palla sotto la suola, che si è girato, ha dribblato, ha fatto sparire il pallone e poi lo ha fatto comparire nel punto esatto in cui serviva. Ha recitato addii per ogni assist, tiro, passaggio illuminante. Ha sgranato il rosario degli addi, il più importante, nell’estate del 2010 segnando il gol che ha regalato il Mondiale alla Spagna per la prima volta. Quella sera ha detto addii agli spagnoli, uno per uno, da quel momento, più di ogni altro, poteva andarsene. Despedirse.

L’addio si sconta giocando, adesso basta Andrés, basta commuoverci e illuderci, adesso vai, forse ti rivedremo in panchina da allenatore, forse chissà, di certo non dimenticheremo. Ti siamo grati.

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