
Viene quasi da rimpiangere il mondo di tre anni fa, quando Andrew Tate provava ad attaccare Greta Thunberg su Twitter: "Fammi sapere a che mail vuoi che ti mandi il dettaglio delle emissioni della mia collezione di auto". "Sì certo, illuminami. Scrivi pure all’indirizzo smalldickenergy@getalife.com", ha risposto lei. E non era solo per l’ironia con cui le parole di Thunberg avevano schivato il gancio di Tate per rientrare con un montante da KO, ma anche per il sottinteso smascheramento della sua stessa ridicolaggine: quella di un uomo di quasi quarant’anni, un ex atleta di alto livello, che prova a bullizzare online una ragazza di diciannove flexando le sue macchine potenti.
Viene da rimpiangere, appunto, un mondo in cui le cose sembravano così semplici (sì insomma, relativamente semplici). Immediatamente dopo quello scambio di tweet, forse anche proprio grazie ad esso - e in particolare grazie al patetico, quasi auto-satirico, video di risposta finale di Tate in accappatoio con una scatola per la pizza davanti che potrebbe aver aiutato la polizia romena a rintracciarlo (anche se questo dettaglio è stato smentito e potrebbe trattarsi di una pura e semplice coincidenza temporale) - è venuta fuori una storia ben peggiore: quella di un uomo di quasi quarant’anni accusato di tratta di esseri umani.
Andrew Tate non è solo un “influencer” che trasmette ai suoi ascoltatori, quasi tutti giovanissimi, una cultura misogina grottesca ma è anche la dimostrazione stessa del pericolo reale che quella cultura rappresenta. Delle conseguenze che possono avere quelle “idee” e quelle “parole”.
Tate è accusato di aver stuprato e costretto in vario modo (insieme al fratello) a lavorare per lui, nel suo business di webcam pornografiche, qualche dozzina di ragazze, tra cui una quindicenne. Tra le prove ci sono cose francamente disgustose, tipo il messaggio vocale che Tate ha mandato a una delle accusatrici in cui diceva che «più non ti è piaciuto, più ho goduto io».
Con il processo ancora in corso in Romania e la Gran Bretagna che ne ha richiesto l’estradizione per avviare procedure proprie - i fratelli Tate hanno la doppia cittadinanza americana e inglese, ma vivono in Romania per ragioni di “lavoro” da più di dieci anni - l'amministrazione Trump ha esercitato pressione affinché gli venisse concesso il diritto di viaggiare, come riportato dal Financial Times e confermato dalle autorità romene (anche se non hanno parlato di “pressione” quanto semplicemente di “richiesta”), e qualche settimana dopo Andrew Tate e il fratello sono volati negli Stati Uniti.
E dove si sono fatti vedere Andrew e Tristan Tate appena hanno potuto? A Las Vegas, all’evento UFC 313. Il posto perfetto non solo per guardare un paio di incontri, ma soprattutto per farsi vedere. Già il giorno prima, in realtà, erano stati ospiti dell’evento Power Slap (la promotion di gare di schiaffi sorella di UFC) dove Dana White li aveva accolti dicendo loro: «Benvenuti in America».
Andrew Tate è troppo persino per molti conservatori americani e sostenitori di Trump, persino per molti fan dell’UFC che hanno rinfacciato a Dan White l’accoglienza riservatagli. Ma tutto torna in modo fin troppo chiaro: l’UFC è ormai parte di un’ampia rete di sostegno alla cultura trumpiana più estrema, che usa abitualmente podcast e influencer. Ma il rapporto tra Dana White e Donald Trump è di vecchissima data e non può essere ridotto a semplice opportunismo.
Trump ha sostenuto la promotion fin dall’inizio del nuovo millennio, ospitandola nel suo albergo di Atlantic City quando in molti stati gli veniva negata la licenza per organizzare i loro combattimenti e il senatore repubblicano John McCain li definiva: «la versione umana dei combattimenti tra galli». Dana White, da parte sua, fa campagna elettorale per Trump fin dai tempi del suo primo mandato ed è diventato una figura così centrale che quando Mark Zuckenberg, pochi mesi fa, ha voluto segnalare la sua sottomissione all’agenda del nuovo imperatore lo ha fatto infilando Dana White nel consiglio di Meta.
E come ha festeggiato Donald Trump, lo scorso 17 novembre, dieci giorni appena dopo le elezioni? Sedendo a bordo gabbia in un evento UFC, insieme a Musk, Robert F. Kennedy Jr e altri membri del suo futuro governo. Trump è stato celebrato da Joe Rogan, il podcaster più famoso al mondo anche lui a braccetto della UFC quando era ancora un comico stand-up di modesto successo e poi il presentatore del reality Fear Factory.
Donald Trump, Dana White e Joe Rogan - e se volete persino l’UFC e le MMA come sport in generale - hanno in comune il fatto di essere outsider di successo. Più in profondità c’è una certa idea di “uomo”, inteso come maschio piuttosto che come essere umano, che coincide con quella che è l’immagine più superficiale del fighter: individualista (sull’ottagono sei solo), forte, prevaricatore.
Gli argomenti usati fino a ieri per legittimare le MMA - ovvero il fatto che si tratta di uno sport strategico, basato anche sulla collaborazione tra membri del team, sul duro lavoro, sulla curiosità, sull’apertura culturale necessaria per innovarsi e mischiare le diverse arti marziali, e soprattutto sul rispetto di regole condivise senza le quali non ci sarebbe differenza con una banale rissa - diventano oggi superflui. Nessuno vuole che le MMA o l'UFC siano qualcosa di diverso dalla messa in scena della brutalità umana, della cultura del cane-mangia-cane. Soprattutto, non lo vuole Trump.
Un mese fa il fighter inglese Michael Venom Page ha scelto di salire sull’ottagono senza bandiera nazionale, dichiarando poi di averlo fatto perché non sente di appartenere a nessun “gruppo” se non a quello della “specie umana”. Ma è un’eccezione in un mondo sempre più identificato con un certo spettro politico.
Certo, un po' di utilitarismo c'è dietro il benvenuto a Andrew Tate, oltre alla lealtà e all'amicizia ormai ventennale tra White e Trump. Come ha scritto Ryan Broderick nella sua newsletter Garbage Day, Dana White potrebbe usare Andrew Tate semplicemente per provare a non far invecchiare il proprio pubblico, come è successo alla boxe. In fin dei conti si tratta, secondo Broderick, di «uomini che hanno provato a diventare ricchi e sono falliti in ogni modo prima di capire che il modo più semplice era manipolare maschi tristi su internet».
In parte è senz’altro così, va sottolineato però che il tappeto rosso steso sotto ai piedi di Andrew Tate significa soprattutto che, per chi condivide quella cultura, «vale davvero tutto». Non è più una questione di ipocrisia e libertà di parola, qui si parla di rendere accettabile qualcosa che fino a poco fa era inaccettabile (persino in galera c'è un trattamento speciale per chi ci finisce per crimini sessuali).
Significa che tutti, comprese le persone che prima si definivano di destra ma avevano dei valori che segnavano dei limiti ben precisi - tipo: non si toccano le donne; una regola che proprio Dana White aveva detto di seguire, prima di essere filmato mentre schiaffeggiava la propria moglie a una festa di capodanno, due anni fa - devono riadattare il proprio sistema di valori. Che l’asticella della violenza tollerata va molto oltre il ground and pound o le commozioni cerebrali.
E se non vi sta bene stringere la mano a uno che tatuava delle ragazze con la scritta “proprietà di Tate”, beh peggio per voi, significa solo che siete rimasti indietro all’epoca nella quale stiamo vivendo.