Sono ormai diventato abbastanza vecchio da ricordarmi come si parlava di Andrew Wiggins e Jabari Parker ben prima che entrassero nella NBA.
Mi ricordo bene il modo in cui i due venivano messi in contrapposizione l’uno all’altro. Il primo come la Grande Speranza Canadese, il prospetto che non aveva possibilità di fallire con quel ben di Dio di capacità atletiche e potenziale sui due lati del campo. Il secondo come il Prossimo Grande Realizzatore NBA, 20 punti a partita senza neanche cominciare a discuterne, troppo forte fisicamente e con mani troppo educate per non mettere a ferro e fuoco la lega sin dal primissimo giorno. L’All-Around e il Realizzatore, i due volti della NBA che si stava affacciando alla seconda metà degli anni ’10 dopo un Draft, quello del 2013, che aveva lasciato solo l’amaro in bocca —do you remember Anthony Bennett?
Il fatto che fossero finiti alla 1 e alla 2 del Draft 2014 non ha fatto altro che aumentare la narrativa che li dipingeva come la prossima grande rivalità della NBA, avvicinandoli con un po’ troppo slancio euforico a Magic & Bird (e abbiamo sbagliato pure noi su questo stesso sito, basti vedere come abbiamo titolato questo articolo). Ruolo simile, stessa età, finiti entrambi in mercati in cerca di rilancio — Wiggins a Minnesota dopo lo scambio con Kevin Love, Parker a Milwaukee dopo aver esultato per essersi scampato Cleveland — e già disposti a essere ritratti assieme su una copertina di SLAM Magazine per immortalare nella storia la loro contrapposizione, utile anche a loro per farsi conoscere al grande pubblico fornendo una narrativa già pronta all’uso piuttosto che doverne costruire una.
Per una lunga serie di motivi, però, la realtà dei successivi cinque anni è stata ben diversa, tanto che ora pare veramente difficile pensare che anche solo uno dei due possa essere la superstar che tutti si aspettavano. Non necessariamente saranno “solo” dei giocatori di complemento in squadre da titolo, ma non sono nemmeno quei giocatori in grado di creare il contesto di gioco attorno a loro, quanto piuttosto due di quelli che devono adattarsi al contesto per avere successo. Andrew Wiggins e Jabari Parker, però, in questo inizio di stagione sembrano aver capito qualcosa che nei precedenti cinque anni non avevano afferrato, oppure più semplicemente sono stati messi in condizioni migliori per sfruttare le loro qualità e nascondere i loro difetti.
Il fatto che sia successo solo adesso è significativo: è cambiata troppo la NBA attorno a loro negli ultimi cinque anni oppure sono stati loro a non adattarsi abbastanza in fretta per tenere il passo con una pallacanestro che era pronta a incensarli e invece fino a poco tempo fa sembrava pronta a rigettarli?
Le promesse fallite di Andrew Wiggins
Nel momento stesso in cui Wiggins si è affacciato al basket giovanile, è stato praticamente subito etichettato come il prossimo LeBron James e/o il prossimo Kobe Bryant, se non proprio come la versione canadese di Michael Jordan. Di lui si parlava in termini talmente entusiastici che i Toronto Raptors, fermi in mezzo al guado con una squadra che non sembrava poter andare da nessuna parte, a un certo punto della stagione 2013-14 sono andati a tanto così dallo smantellare tutto e tankare nella speranza di pescare Wiggins alla 1, dando vita a un nuovo ciclo con il più grande prospetto canadese di sempre. Sarebbe stata una bella storia, forse, ma quella che li ha portati a tenere Kyle Lowry (che aveva letteralmente le valigie pronte per andare a New York) e, dopo parecchie peripezie, a vincere il titolo 2019 è andata un filino meglio.
Wiggins è arrivato all’università di Kansas con gli occhi del mondo addosso, tutti ansiosi di vedere a livello collegiale un giocatore dal fisico già così definito e un talento realizzativo — si diceva — da primi della classe. Solo che già alla prima partita (contro la Duke di Jabari Parker, ovviamente) gli occhi di tutti sono stati catturati da un centro camerunense capace di proteggere il ferro e di ribaltare il lato come un veterano nonostante avesse cominciato a giocare pochi anni prima, tale Joel Embiid. Wiggins al suo arrivo nel grande basket era già diventato la seconda scelta della sua stessa squadra, e se non fosse stato per le red flag legate alla schiena e ai piedi di Embiid con ogni probabilità di Cleveland Cavaliers si sarebbero convinti a prendere il camerunense e non lui alla 1 — e chissà come sarebbe cambiata la sua carriera, e la storia stessa della NBA, già in quel momento.
Phantom Cameras per una partita di Summer League: questo era il livello di hype per Wiggins vs Parker.
Dopo un mese da separato in casa in attesa che si potesse consumare il suo scambio con Minnesota — memorabile l’imbarazzante intervista durante la quale un giornalista gli chiedeva se i Cavs volessero puntare su di lui, domanda alla quale Wiggins non aveva idea di come rispondere sapendo già che sarebbe stato scambiato —, la sensazione di tutti è che Cleveland stesse giocando un po’ troppo con il destino. Perché va bene accontentare LeBron James con tutti gli onori che si riservano al figliol prodigo, ma sacrificare ben due vitelli grassi — intesi come Bennett e Wiggins, al tempo considerati ancora come due prime scelte assolute e non per i giocatori che erano — sembrava davvero un po’ troppo, specialmente per le prospettive a lungo termine che il talento di Wiggins faceva intravedere.
Nella sua stagione da rookie con i T’Wolves Andrew Wiggins è stato al centro di una delle prime grandi battaglie tra valutazioni tradizionali e analitiche. Da una parte si sottolineava come i suoi quasi 17 punti a partita, per essere un giocatore al primo anno e in una squadra fortemente perdente, erano tutt’altro che malvagi, sottolineando qua e là i suoi grandi exploit offensivi o le prestazioni particolarmente ardite (specie la prima contro LeBron James, nella quale fece un figurone tanto che anche qui è stato incensato), per non parlare del suo potenziale difensivo dato dal profilo fisico-atletico. Dall’altra parte però, chi cominciava a utilizzare le statistiche avanzate per valutazioni più approfondite su un giocatore faceva notare come i suoi numeri fossero tra i peggiori in tutta la NBA tra i giocatori con il suo stesso minutaggio: peggior Statistical Plus-Minus e Box Plus-Minus, peggiori Win Shares su 48 minuti, penultimo PER davanti solo a Channing Frye e anche il Real Plus-Minus di ESPN non era molto più clemente.
La sua incapacità di contribuire in qualsiasi aspetto del gioco che non fosse mettere la palla nel canestro (senza farlo neanche in maniera particolarmente efficiente, se non quando riusciva a guadagnarsi viaggi in lunetta) aveva fatto scattare l’allarme in diverse parti del web, a cominciare da FiveThirtyEight che lo dipingeva come ben lontano dal Futuro LeBron James che tutti pensavano potesse diventare — anzi, metteva bello grosso nel titolo che non sarebbe diventato neanche il prossimo James Posey.
Questo non gli ha comunque impedito di portarsi a casa il premio di Rookie dell’Anno e, al netto dei difetti che aveva mostrato, tutti davano per scontati quei passi in avanti per cominciare una carriera destinata non solo all’All-Star Game, ma proprio alla Hall of Fame. L’arrivo di Karl-Anthony Towns e Zach LaVine ha reso poi automaticamente i T’Wolves un League Pass Team di default, proprio perché ci si aspettava che Wiggins facesse quei passi in avanti per realizzare definitivamente il suo potenziale.
Volevano farsi chiamare Bounce Brothers, ma solo loro lo facevano.
Invece questo salto non è mai arrivato, e con lui quello della squadra. Wiggins non è mai realmente evoluto nei primi cinque anni della sua carriera NBA: al netto di qualche sprazzo di brillantezza e sporadiche partite in cui sembrava finalmente aver “svoltato” (specialmente quelle contro Oklahoma City con cui sembra avere un feeling particolare), in troppe occasioni il canadese è sparito sullo sfondo — sia della sua squadra che della lega stessa. La NBA è cambiata troppo in fretta attorno a lui senza che se ne accorgesse davvero: nonostante i suoi straordinari mezzi atletici, Wiggins non ha mai avuto abbastanza chili per giocare stabilmente come 3, ma allo stesso tempo è privo di quelle “ball-handling skills” per poter essere una guardia con la palla stabilmente nelle mani nella lega di oggi.
Spesso si è parlato di come la sua selezione di tiro sia terribile, accontentandosi troppo spesso del suo tiro dalla media distanza; la verità è che molto spesso quella era l’unica opzione disponibile dopo essersi visto sbarrata la strada verso il ferro, perché Wiggins non ha le doti in palleggio per “spezzare” la difesa del suo avversario e creare un vantaggio in prima persona avvicinandosi a canestro.
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Seconda partita del sesto anno in NBA e la selezione di tiro, a volte, è ancora questa.
Sono queste mancanze in palleggio ad aver sempre limitato Wiggins, per quanto sia sempre riuscito a portare a casa la pagnotta con una ventina di punti malcontati con tanti tiri e poca preoccupazione delle difese. A sua discolpa, bisogna pur sempre dire che i Timberwolves non sono stati esattamente l’ambiente ideale per poter lavorare sul proprio gioco, sia a livello dirigenziale che a livello di panchina — coincidendo negli anni in cui Tom Thibodeau ha presieduto entrambi. Dopo una seconda stagione che sembrava aver indirizzato la sua carriera verso quella di un realizzatore alla DeRozan, Wiggins ha fatto netti passi indietro non appena è stato messo al suo fianco l’ingombrante Jimmy Butler, che dopo poco tempo ha cominciato a disprezzare tanto la mancanza di ferocia di Towns quanto l’apatia del canadese.
Nonostante la convivenza con Butler non fosse stata perfetta in campo, i Timberwolves hanno comunque deciso di estendere il suo contratto al massimo salariale dandogli 148 milioni di dollari in cinque anni verrebbe da dire sulla fiducia, confidando che fosse solo una questione di esperienza e di tempo prima di avere la superstar che tutti aspettavano. Ma “Il Contrattone” ha fatto più male che bene a Wiggins, che senza neanche il pungolo di dover cambiare la propria vita economicamente si è di fatto adagiato sugli allori e sul talento minimo per portare a casa quei 20 punti che servono per essere al di sopra delle critiche minime al di fuori di Minneapolis.
Schiacciate di questo tipo, poi, gli hanno permesso di costruirsi una nomea di schiacciatore forse superiore alle sue reali capacità: quest’anno è fermo a 6 schiacciate in tutto.
Ma la sua pigrizia mentale lo ha portato a diventare una presenza impalpabile in campo, almeno prima di questa stagione. Nelle serate in cui non segnava, Andrew Wiggins era totalmente inutile sul parquet, visto che non impattava la partita con le piccole giocate — i suoi numeri difensivi e quelli a rimbalzo, da questo punto di vista, sono raccapriccianti — e neanche mettendo a disposizione della sua squadra le sue doti atletiche, poiché non supportate da quelle mentali. Wiggins occupava un sacco di minuti, perché comunque è un giocatore che raramente si infortuna ed è sempre disponibile, ma lo faceva senza dare realmente nulla: non si poteva affidargli la gestione di un attacco perché non sapeva palleggiare e passare la palla al livello necessario per farlo; non poteva prendere in consegna il miglior esterno avversario perché non aveva abbastanza chili; e non poteva reggere il peso della franchigia sulle spalle perché non aveva nemmeno le doti caratteriali per riuscirci.
Tutto questo era reso ancora più insopportabile dal fatto che in alcune sporadiche partite Wiggins era straordinario: c’erano giornate in cui si svegliava e si trasformava una macchina da canestri in attacco nonché una presenza difensiva indiscutibile, ruotando dal lato debole con tempi perfetti per stoppate decisive o segnando tre triple in fila in 71 secondi come capitato nella recente partita interna contro Miami. Poi quel giocatore magicamente spariva, isolandosi su un lato del campo, senza riuscire a mettere in fila due prestazioni convincenti pur essendo sempre lì, sempre in campo, perché comunque i Timberwolves non è che avessero chissà quali alternative per tenerlo in panchina.
L’incostanza e la passività sono stati i due tratti caratteristici della carriera di Wiggins. Qui la Khaleesi Doris Burke lo distrugge in diretta nazionale, ripetendo più volte: “È il giocatore di maggiore talento per i suoi, perché se ne sta fermo e non fa nulla?”
Queste convinzioni che si erano ormai radicate nella testa di molti sono state messe in discussione da un inizio di stagione incredibilmente incoraggiante da parte del canadese. Con Ryan Saunders - giovanissimo capo-allenatore con cui ha stabilito un rapporto personale fin dai tempi in cui il figlio del grande Flip era assistente - stabilmente in panchina, Wiggins ha trovato attorno a sé un contesto di gioco offensivo estremamente diverso rispetto a quello avuto finora in carriera. Le spaziature date da tre tiratori stabilmente piazzati sul perimetro ha permesso di mettere in mostra le sue doti di passatore che - per quanto non straordinarie e sicuramente non strabilianti all’occhio - sono abbastanza solide da permettergli di salire ai massimi in carriera per assist nonché di migliorare la sua efficienza offensiva (le palle perse sono rimaste pochissime) all’aumentare dello Usage - cosa che raramente succede.
Avere così tanto spazio in attacco ha anche liberato il suo potenziale in avvicinamento a canestro: Wiggins è passato da 8 a 14 penetrazioni a partita da un anno all’altro, facendo collassare le difese su di sé e trovando con continuità i tiratori appostati sull’arco. L’area completamente sgombra ha permesso anche di migliorare la sua intesa con Karl-Anthony Towns, realizzando diversi dai-e-vai di fattura davvero pregevole e di grandissimo interesse per il futuro dei Timberwolves, che su di loro hanno investito tantissimo. A questo si aggiunge una selezione di tiro decisamente rivista: continuando un trend cominciato già da qualche stagione, i tiri dalla media distanza che hanno contraddistinto le sue prime cinque stagioni sono ulteriormente diminuiti a favore delle triple (mai così tante in carriera) e supportate da percentuali confortanti (specialmente quando tira subito e non deve mettere palla per terra).
Il duello contro D’Angelo Russell, che sarebbe potuto diventare suo compagno di squadra quest’estate se solo non fosse arrivata Golden State.
In generale, però, Wiggins sembra giocare con una fiducia nei suoi mezzi vista solo a sprazzi in passato: sarà per il coaching staff che lo ha sempre sostenuto o per il contesto più leggero rispetto a quello tremendo con Thibodeau e Butler, ma Wiggins ora sembra quasi divertirsi in campo - cosa che non sempre si è potuta dire nella sua carriera. Se sarà solo una questione di qualche settimana o se davvero qualcosa è cambiato ce lo dirà solo il tempo (alcune statistiche indicano che certe percentuali sui tiri più difficili sono destinate a diminuire, e che la difesa non è migliorata quanto l’attacco), ma queste sue partite ci hanno dimostrato ancora una volta quanto il contesto possa influenzare il rendimento di un giocatore - anche uno talentuoso come Andrew Wiggins.
Ciò che poteva essere Jabari Parker
Se nel caso di Wiggins non si può imputare a nessun altro che non a lui tutte le sue mancanze nei primi cinque anni di carriera, nel caso di Jabari Parker è inevitabile parlare di che cosa sarebbe cambiato per la sua carriera se non si fosse fatto rotto per due volte il legamento crociato del ginocchio sinistro. In uscita da un liceo glorioso come Simeon High School, Parker aveva una storia troppo bella perché non la si esaltasse: giovane, interessante, figlio di Chicago ed erede di Derrick Rose e Benji Wilson, leggende che come lui hanno vestito la numero 25 di Simeon. Con quella divisa è finito sulla cover di Sports Illustrated due anni prima che venisse scelto al Draft, in un articolo in cui veniva definito come “il miglior giocatore liceale dai tempi di LeBron James” e in cui veniva anche raccontata la sua fede mormone.
Il suo passaggio da stella assoluta a Duke non ha fatto altro che accrescerne la fama, specialmente se visto in contrapposizione a Wiggins, rispetto al quale sembrava mostrare più talento puro nel mettere il pallone nel canestro da ogni posizione e in ogni maniera e, soprattutto, sembrava un personaggio meno piatto. Le parole “Carmelo” ed “Anthony” sono state utilizzate talmente spesso da farci credere che fosse automatico vedere di nuovo un realizzatore con caratteristiche fisiche e tecniche così peculiari come ‘Melo, ma Parker sembrava davvero destinato a segnarne 20 ogni sera per 15 anni di carriera.
A differenza di Wiggins, che si è visto arrivare il vero giocatore franchigia in casa un anno dopo il suo arrivo in città, Parker è arrivato a Milwaukee in un momento in cui Giannis Antetokounmpo aveva cominciato a far girare un po’ di teste, ma in cui nessuno poteva sospettare che sarebbe diventato l’MVP della lega nel giro di un lustro. Dei due, era Parker quello destinato a diventare il giocatore franchigia e Antetokounmpo la spalla-tuttofare: un progetto di “Big Two” che si è schiantato in fretta sui limiti che Parker ha denunciato nel suo tiro in sospensione e, inevitabilmente, i due gravi infortuni al ginocchio in rapida successione.
Forse in un universo alternativo Jabari e Giannis sono diventati davvero quella coppia di assaltatori del ferro che sembravano potessero essere all’inizio della stagione 2016-17, quella in cui ha tenuto 20 punti di media prima di spaccarsi il crociato per la seconda volta. Quell’anno Giannis e Jabari formavano il duo più elettrizzante della lega, una scarica di adrenalina ogni volta che potevano accelerare in campo aperto e arrivare in area il più in fretta possibile per concludere — spesso sopra il ferro.
Anche senza gli infortuni, però, i Bucks si sarebbero resi conto che farli coesistere sarebbe stato impossibile: le mancanze al tiro di entrambi avrebbero finito inevitabilmente per limitare le spaziature nell’attacco a metà campo. Quello che forse un po’ tutti avevano sottovalutato di Parker è che il suo tiro piedi per terra non era poi così solido come si poteva pensare in fase di analisi al Draft: anche nelle sue stagioni sane a Milwaukee, Jabari non è mai stato un tiratore sopra la media, il che rendeva difficile un suo utilizzo offensivo lontano dal pallone — necessità assoluta di fianco a un talento peculiare come Antetokounmpo.
La prima volta di Jabari Parker contro Andrew Wiggins in NBA.
La sua fissazione per il tiro dalla media distanza — praticamente ha sempre tirato più dalla media che da tre punti nella sua carriera, tolta questa stagione in cui gli Hawks lo hanno ricondotto a più miti consigli — ha finito per acuire ancora di più queste mancanze. E questo senza considerare la sua ben nota presenza difensiva nettamente deficitaria, sia per limiti di talento, di mobilità laterale e soprattutto di applicazione mentale. L’intervista in cui ha detto chiaramente che «nella NBA non si viene pagati per difendere» è un’occasione troppo ghiotta per descrivere il suo atteggiamento nei confronti della metà campo difensiva, nonché un motivo molto semplice per giustificare il fatto che la sua carriera non sia andata nella maniera immaginata.
Ma esattamente come con i tiri dalla media distanza di Wiggins, non è solo una questione di atteggiamento: anche nei momenti in cui ci prova Parker denota proprio una chiara mancanza di talento difensivo, e anche se con l’andare del tempo potrà diventare più scaltro nello sfruttare la sua stazza, rimarrà un difensore al di sotto della media — e questo già da adesso, con ogni probabilità, gli chiude le porte del quintetto base di una squadra che vuole giocarsi qualcosa di serio ai playoff. A differenza di Wiggins, che ha sempre avuto i suoi minuti a disposizione, le mancanze difensive di Parker hanno finito per toglierlo dal campo: al netto di quanto di buono può dare in attacco, tutto quello che ti toglie in difesa ha finito per relegarlo a un ruolo di riserva a 25 anni appena compiuti.
Parker ha provato a rilanciarsi nella sua Chicago, ed è andata male. Poi è stato scambiato a Washington, dove è andata meglio seppur in un contesto che non aveva più niente da chiedere alla stagione, ma comunque non è stato trattenuto dagli Wizards. Ora ha deciso di andare ad Atlanta, ma con un biennale da 13 milioni complessivi (secondo anno con opzione a suo favore) ben lontano dalle cifre che si aspettava. E anche se ha accettato di buon grado di uscire dalla panchina, lo ha fatto perché «la mia produzione da riserva è stata buona negli ultimi due anni». Come a dire: giocare contro le second unit mi permette di mettere su bei numeri, perciò mi sta bene. Il che è anche comprensibile per un giocatore che — pur avendo guadagnato 20 milioni di dollari nella scorsa stagione — non si è preso il contratto al massimo salariale al quale aspirava nei suoi primi anni a Milwaukee quasi dandolo per scontato, anzi offendendosi per non averlo ricevuto.
Ma se Jabari Parker non può più essere un pezzo fondamentale nella costruzione di una squadra, è inevitabile che diventi un flyer che le squadre NBA si prendono senza investirci troppo in termini economici e soprattutto temporali, nella speranza di beccare l’anno giusto in cui tutti i pianeti si allineano e il suo innegabile talento — anche nel passare il pallone, quando vuole — emerga fino a far vincere delle partite. Ora che la sospensione per doping di John Collins gli ha aperto le porte del quintetto di Atlanta, lui ha subito risposto presente con 19 punti contro San Antonio e ha continuato a metterne 20 a sera nelle sette partite disputate partendo dall’inizio, facendo nascere l’idea che sia ancora possibile per lui ritagliarsi un ruolo da 4 che gioca negli spazi creati da Trae Young.
I due infatti sembrano aver creato una connessione mentale immediata, anche perché Parker è stato sgravato di qualsiasi compito di creazione del gioco e sta venendo utilizzato esclusivamente come realizzatore di ciò che esce dalle mani fatate di Young, capace di trovare qualsiasi cosa si muova su un campo da pallacanestro. Nonostante un tiro da tre punti che sembra averlo abbandonato (23% da titolare), dover pensare solo a segnare nel minor tempo e il più vicino possibile al ferro ha dato un senso alla sua carriera che finora non era riuscito a trovare: sfiorando il 65% da due punti e realizzando quasi la metà dei suoi canestri in schiacciata (35 su 73).
Diventare un tipo di giocatore diverso — Parker un lungo che blocca e taglia verso il ferro in situazioni dinamiche, Wiggins uno slasher in grado di trovare i tiratori sul perimetro in uno schema “5 fuori” — potrebbe permettere loro di togliersi diverse soddisfazioni, sia in termini personali che di successo di squadra nella seconda parte della loro carriera. Non sarà quello che si erano immaginati entrando in pompa magna nella lega, ma è comunque meglio rispetto a continuare a illudere di poter essere delle superstar in questa NBA che non aspetta niente e nessuno.
Perché se non sei in grado di creare il contesto, devi imparare a giocarci dentro. Andrew Wiggins e Jabari Parker ne avranno l’umiltà?