Andy Murray viene torturato dagli applausi, che scrociano verso il suo corpo intimidito. Ha la postura di chi si è improvvisamente ritrovato nudo di fronte a una folla. Con la mano destra tiene il braccio sinistro, la testa è bassa per coprire le lacrime. Non ha mai cercato di nascondere la propria vulnerabilità e non vuole farlo neanche in quel momento, quello del congedo. Il recente infortunio alla schiena, l'ultimo di una serie infinita, lo ha costretto ad annunciare il ritiro dopo i Giochi Olimpici di Parigi.
Non è la prima volta che Andy Murray piange sul campo da tennis, o a favore di telecamera, ma le lacrime sportive sanno essere molto diverse tra loro.
Aveva pianto, prostrato, nel 2012, dopo aver perso da Roger Federer alla sua prima finale. La tristezza si era raggomitolata in gola e le parole si rifiutavano di uscire. Gli applausi continuavano a cuocerlo. Dopo più di un minuto era riuscito ad arrangiare un discorso. Gli avevano chiesto se preferisse forse non parlare, ma lui aveva insistito, accettando tutta l’esibizione del proprio dolore: «Ho qualcosa da dire». Due anni prima, sempre in lacrime, aveva scolpito la sua massima auto-commiserazione: «Posso piangere come Roger, è un peccato che non posso anche giocare come lui».
Aveva pianto di nuovo, pochi mesi dopo, sullo stesso campo, dopo essersi preso la rivincita su Federer ai Giochi Olimpici. Si era inginocchiato e aveva nascosto la faccia dietro le mani. I polsini e la maglia della Gran Bretagna. Aveva pianto in Scozia, nella sua vecchia scuola, mentre riceveva un’onorificenza. Il discorso si ingolfa, la voce si rompe, e lui costretto a dire «Mi scuso per questo comportamento». Aveva pianto ancora a Melbourne, al suo primo ritiro. Aveva pianto ad Anversa, le ossa già rotte, già postumo a sé stesso.
Le lacrime di quest’anno, però, erano diverse. Con la faccia scavata, i pochi capelli, i figli in tribuna che hanno passato l’orario per andare al letto, Murray sembrava averne passate troppe per cedere di nuovo al pianto. A Wimbledon, però, lo conoscono bene e lo hanno provocato. Lo hanno costretto a guardarsi a ritroso, ricostruendo la propria carriera attraverso il senso delle proprie lacrime. «Non sono certo la personalità più frizzante» ha scherzato parlando di quando ci ha regalato il pianto più famoso, quello appunto del 2012.
C’erano tutte le autorità a salutarlo, perché il tennis ha grande rispetto della propria storia. Ma che storia stavano celebrando, lì, incravattati, John McEnroe, Tim Henman e gli altri convocati?
Pur essendone uno dei protagonisti indiscussi, Andy Murray occupa un ruolo ambiguo nell'epoca d'oro del tennis. Il sistema di personaggi lo conosciamo: il Re (Roger Federer), l’antagonista (Rafael Nadal) e il terzo uomo (Novak Djokovic), che segue un plot di vendetta per raggiungerli e superarli entrambi. Murray è riuscito a infiltrarsi in questo sistema di personaggi per un breve periodo storico difficile da leggere. In quegli anni non essere al livello di quei tre significava, in sostanza, rinunciare a vincere tutti i tornei più importanti del circuito. E Murray ha opposto un rifiuto profondo alla non realizzazione dei propri sogni e dei propri talenti.
Quando si racconta questa storia - come ha fatto la giornalista sul campo centrale - si sottolinea innanzitutto la forza e il talento degli avversari di Murray; secondariamente, poi, il lavoro che lui ha dovuto fare per darsi la possibilità di competere. Murray, allora, è innanzitutto il riflesso dell’eccezionalità altrui. La sua bravura è stata quella di competere con chi non avrebbe potuto competere. Quando si parla di lui si usa sempre lo stesso aggettivo: “fighter”, usato anche in questa specie di coccodrillo del Guardian; è un termine generico: anche Nadal, Wawrinka o Djokovic sono giustamente considerabili dei “fighter”. Ha più senso chiedersi che tipo di lottatore è stato Andy Murray.
Come sa chi ha giocato anche ai livelli più infimi, poche cose sono capaci di metterti di fronte a te stesso come il tennis. Certo, è una prerogativa di quasi tutti gli sport: un modo per mettersi di fronte ai propri limiti, cercare di superarli, lavorare su sé stessi. Le variabili del tennis, però, rappresentano un complesso meccanismo di scavo interiore. Richiede troppa tecnica, il punteggio è troppo tortuoso, e dunque serve raggiungere uno stato mentale delicato e quasi utopico. In genere i tennisti professionisti, quasi tutti, sono riusciti a superare virtuosamente questa complicazione, che rende il tennis un potenziale supplizio. Per una questione di competitività, o semplice sopravvivenza, hanno smesso di pensare che un dritto sbagliato dica qualcosa su di loro. Questo, però, non è mai sembrato valere per Andy Murray, che faceva dello sport uno strumento di tortura.
In certe partite, particolarmente brucianti, il risultato e il gioco sembravano secondari, per Murray. Le partite diventavano delle occasioni per tormentarsi, per scoprire la propria inadeguatezza e svelarla al mondo. Ogni errore, occasione persa, sbavatura, un pretesto per darsi contro con una strana energia nervosa. Come se il fine ultimo della sua carriera professionistica fosse l’autodistruzione.
Non era il tennista che gli inglesi volevano. Sudava, grugniva, sbroccava. Era sempre spettinato, quando non portava un inaccettabile cappellino da baseball. Aveva i denti sporgenti, l’aria di un disperato. Si discuteva del ruolo oppressivo di sua madre, della sua igiene dentale, delle sue origini. A Glasgow poteva davvero nascere un tennista? Poco prima c’era stato Tim Henman, nato a Oxford, che giocava ancora un tennis da Belle Epoque e non versava una goccia di sudore.
Tra il 2008 e il 2012 perde tutte e quattro le finali Slam disputate, tre volte contro Federer e una volta contro Djokovic, vincendo in totale un paio di set. Ogni volta che perdeva i giornali lo definivano “scozzese”. In quel momento Murray non era considerato un “fighter” e quei soliloqui con cui accompagnava le sue partite non erano visti come ardore agonistico, ma come un auto-sabotaggio. Murray sembrava uno che non lottava abbastanza, che non ci teneva abbastanza. Nel 2004, praticamente appena arrivato nel circuito, e già circondato da una pressione concepibile solo per un’atleta britannico, ci vedeva già lungo: «Immagino che io debba vincere Wimbledon per zittire tutti».
In quel momento l’impresa sembrava lontanissima, parlarne uno scherzo. L’ultimo britannico a vincere Wimbledon era stato Fred Perry nel 1936 e nonostante oggi abbia una statua all’All England Club, all’epoca non andava bene nemmeno lui. Era pur sempre il figlio di uno del partito laburista.
Dopo aver vinto Wimbledon nel 2013 la BBC lo elegge “personalità dell’anno”. Adidas celebra l’evento con una sua foto e la scritta “Non male per uno senza personalità”. A inizio carriera Murray viene considerato moscio, noioso, senza spina dorsale. Uno che avrebbe pure il talento per vincere qualcosa, se solo avesse la grinta per provarci davvero. Rilascia interviste apatiche e francamente tristi, senza un filo d’ironia o di emozione. Una discussione su un forum di tennis risalente al 2009, che verte attorno a questo argomento, contiene questo commento che mi colpisce nella sua causticità: «È solo che sembra che non gli piaccia il tennis più di tanto. Non sorride in conferenza, non sorride in campo. Sembra sempre una guerra per lui. Non mi interessa, in ogni caso». C’è della cattiveria, ma non va lontano dal punto.
È per questa sensazione, molto più universale dell’anonimo commento ripescato su internet, che probabilmente nel suo addio al campo centrale, sempre parlando delle lacrime del 2012, ha detto: «In quel momento, per la prima volta, le persone si sono rese conto di quanto ci tenessi al tennis».
Questa mancanza di coraggio e ambizione pareva riflettersi anche nel suo stile di gioco. Murray aveva tutto per stare tra i migliori, ma non sapeva come usare questo talento. Giocava in modo prudente, remissivo, nonostante i suoi colpi potessero forse permettergli un gioco più arioso e dominante. Era come se remare da fondo campo, costringersi a un tennis più umile, lo facesse sentire meno a disagio. Un modo come un altro per risolvere una sindrome dell’impostore che è sembrato accompagnarlo per tutta la carriera.
Soprattutto nei suoi primi anni, raramente Murray prendeva in mano lo scambio. Preferiva arretrare dietro la linea di fondo e contenere: infilarsi in un purgatorio di tennis contro-offensivo che esaltava le sue incredibili doti atletiche, ma che non si accordava del tutto col suo talento. Murray non aveva, sostanzialmente, punti deboli: sapeva accelerare sia col dritto che col rovescio. Aveva un timing sulla palla spettacolare, che riusciva a sfruttare solo parzialmente, proprio quando le circostanze della partita lo costringevano a tirare fuori un po’ di coraggio. Serviva bene, aveva una gran mano, il suo back di rovescio era forse il migliore del circuito, a rete in pochi erano meglio di lui. E come usava tutti questi doni? Giocando come un disperato che si mette a ribattere tutto da fondo campo perché dalla sua non ha nient’altro che delle buone gambe.
A volte faceva pena.
Quando però Murray riusciva a scrollarsi di dosso questa patina autolesionista, il suo talento si librava nell’aria con una leggerezza speciale, quella del malato che guarisce. E allora era grandioso da guardare, e alla meraviglia estetica si aggiungeva un livello d’empatia.
Tra il 2013 e il 2016 era riuscito ad allineare tutte le variabili, anche grazie all’aiuto del coach Ivan Lendl. Per diventare più duro mentalmente ha scelto un uomo che da giocatore si pensava non potesse passare il test di Turing. Nel 2016 è riuscito a issarsi al numero uno del mondo, stavolta in modo stabile. Per raggiungere quel traguardo, però, ha dovuto aspettare che i suoi rivali mollassero un po’ la presa, distaccati dall’usura e dagli infortuni. Lui giocava ogni torneo in quel periodo, vincendone più di tutti. Non aveva asciugato la sua programmazione attorno agli Slam come stavano facendo i suoi rivali. Aveva raggiunto la sua prima posizione con le armi che conosceva: costanza, lavoro, testardaggine. Era un essere umano che provava ad appartenere a un mondo divino, con le conseguenze che conosciamo.
Per qualche anno, però, Murray non è sembrato fuori posto. Nel 2013 riuscì a battere Djokovic 3 set a 0 in finale a Wimbledon: di per sé un’impresa. Se ricordiamo una partita più equilibrata è soprattutto per quell’ultimo game e la sua atmosfera surreale. Murray che viene rimontato da 40-0, l’ansia che cola dal pubblico, che fatica a contenersi. Djokovic che rifiuta la sconfitta, annusa la paura del rivale. Un game lungo come una puntata di una serie tv, in cui sembra che Murray voglia costringersi alla sofferenza anche nei contesti all’apparenza più tranquilli, come era stata quella partita fino a quel momento. «Sporting immortality doesn’t come easily» dice il telecronista. Il modo in cui lascia la racchetta e poi si prostra sull’erba del campo centrale resta una delle celebrazioni più intense della storia recente.
Come Icaro che vola troppo vicino al sole e si brucia, questo slancio titanico costerà a Murray la salute del corpo - con una consequenzialità tra infrazione morale e punizione corporale propria dei miti greci. È un modo di raccontarsela. Sappiamo, però, che un giorno Andy Murray si è alzato dal letto e non riusciva più a infilarsi i calzini. Era il numero uno del mondo, uno dei migliori atleti del pianeta, e non aveva ancora 30 anni; eppure le operazioni fisiche più elementari cominciavano a essergli precluse. Un contrappasso crudele, per chi a inizio carriera veniva accusato di inventarsi i mali per costruirsi alibi.
Così è iniziato a verificarsi quello strano fenomeno. Mentre Murray si infortunava, si operava, andava in pezzi, Federer, Djokovic e Nadal trovavano una seconda (e poi una terza, una quarta) giovinezza. Il giocatore che tra i quattro era arrivato più tardi era anche quello invecchiato prima. Murray è una settimana più vecchio di Djokovic, finalista nell'ultimo torneo di Wimbledon dello scozzese.
La carriera di Murray, come è evidente, è divisa in due parti. C’è un Murray giovane, tormentato e che lavora inesauribilmente al miglioramento personale - anche attraverso il martoriamento delle carni. Poi c’è un Murray post-umano, che indossa un’anca metallica e si è ormai liberato del desiderio di eccellere. Un Murray che sa che non può più chiedere a sé stesso di essere il migliore, e questa rinuncia lo trasforma in qualcosa di più puro ed essenziale. Un fantasma tormentato dall’agonismo, che non può fare a meno di competere; al contempo, però, liberato dall’ossessione del risultato - o della somma e costruzione dei risultati che poi formano una carriera. Un essere privato ormai di uno scopo vero e proprio, e che continua a giocare a tennis per consumare una dannazione, una condanna, un morbo che gli è rimasto appiccicato.
In tanti hanno provato pena nel vederlo ancora giocare in questi ultimi anni, senza essere più quello di una volta. Cosa c’è di più patetico di uno che non si arrende alla propria fine. Le stesse cose che si dicono di Rafa Nadal di questi tempi. Eppure, oltre al rispetto d’etichetta che dobbiamo a questi atleti, va riconosciuto anche qualcosa di magnifico nell’accettazione di una forma ridotta di sé stessi, e nell'inquietudine di Andy Myrray. Lottare in ogni partita, su ogni punto, senza avere il lusso di vincere facilmente ormai con nessuno. Non temere quel sentimento d’imbarazzo che le persone possono proiettarti addosso.
Cos’è che ha mosso Murray in questi anni? È questa la grande domanda: amore per il gioco? Per il pubblico? Per la competizione in sé? Cosa lo animava, mentre lottava per rientrare fra i primi cinquanta giocatori al mondo, o per vincere il Challenger di Nottingham? Un rifiuto della morte sportiva? Da dove nasce la sua inquietudine?
Il ritorno dal ritiro del 2019 è il secondo grande rifiuto della carriera di Andy Murray. Come si è opposto all'idea di non concludere niente col suo talento, innalzando il suo livello, si è opposto anche al fatto di doversi ritirare senza la volontà di farlo. Voleva ritirarsi secondo i suoi termini: a qualunque costo. Dopo aver passato una prima fase della carriera di fisime mentali e mezzi toni, Murray ha capito che non poteva lasciare nulla all'intentato. Doveva spremere sé stesso in modo assoluto e totale, bruciare, sacrificarsi. Nel suo Libro dell'inquietudine Fernando Pessoa scrive: «I sentimenti che fanno più male, le emozioni che feriscono di più, sono quelle assurde - desiderare cose impossibili proprio perché sono impossibili; la nostalgia per cosa non è mai stato; il desiderio verso cosa potrebbe essere; l'insoddisfazione di esistere. Tutti quei mezzi toni della coscienza creano un paesaggio doloroso, un eterno tramonto di cosa siamo».
Murray ha rifiutato questo paesaggio di rimpianti e fantasmi mentali, scegliendo una sofferenza più fisica, più materiale e tangibile - che nello sport è considerata più nobile. Murray ha accettato di mostrarsi vulnerabile, rimpicciolito rispetto ai suoi anni migliori, ma quell’istinto a restare attaccato alla sua carriera, alle partite, nasce anche da una forma d’amore pura e senza compromessi verso cui dovremmo provare ammirazione.
In più era bello avere Murray in giro per il circuito. Dopo aver vinto l’oro ai Giochi di Londra del 2012 non è stato solo il suo gioco a fiorire, ma anche la sua personalità. Le interviste hanno cominciato a tingersi di ironia, e di profondità, e di coraggio. In un mondo, come quello del tennis, in cui nessuno prende posizione, lui non si è fatto problemi a dire quello che pensava. Quando un reporter gli disse che Querrey era il primo giocatore statunitense a qualificarsi nella semifinale di uno Slam dal 2009 lui lo corresse subito: «Giocatore maschio» - un pezzo fondamentale della domanda che era stato omesso dal giornalista. Lui lo ha ripreso senza spocchia, col riflesso di chi si è già a fondo interrogato su certe cose.
È stato il primo tennista uomo d’alto livello a essere allenato da una donna - Amelie Mauresmo - e per ora, significativamente, anche l’ultimo. Dice che aver lavorato con lei gli ha aperto ulteriormente gli occhi sul fatto che le donne compiono gli stessi sacrifici degli uomini per giocare a tennis, e dovrebbero godere dello stesso rispetto. La madre, Judy, lo ha spronato ad allenarsi con le ragazze sin da quando era piccolo. Si è espresso alla BBC a favore dell’idea di far giocare maschi e femmine insieme il più possibile, da ragazzini: «Da piccoli è tutto basato sul senso della pallina, la coordinazione occhio-mano e sulla creazione di uno spirito competitivo. Non c’entra la forza o la velocità». Si è auto-definito “femminista”, a favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso e si è espresso per la rimozione del nome di Margaret Court dallo stadio di Melbourne: «Quando vengo a Melbourne voglio pensare solo al tennis e il nome di Margaret Court mi distrae da questo» - Court si era espressa contro le unioni omosessuali.
L’umiltà che nei suoi primi anni era grave e oscura, col tempo è diventata deliziosa. Una giovanissima Mirra Andreeva lo definisce “Beautiful in Life” con gli occhi a cuoricino; lui risponde sui social «Immaginate quanto diventerà forte quando risolverà i suoi problemi alla vista». In tempi di Covid, dopo essersi vaccinato, aveva commentato sarcasticamente: «Il terzo microchip mi è stato iniettato oggi». Nella sua seconda parte di carriera, da uomo maturo, Murray è diventato un’icona, un personaggio che trascendeva lo sport. Amava prendere parola e usare il suo potere per influenzare il mondo con le sue idee. Per questo era ancora più doloroso, poi, vederlo consumarsi in campo dietro a vittorie effimere e sconfitte senza appello. Col documentario uscito su Prime nel 2019, Resurfacing, è stato tra i primi a raccontare il rehab da un infortunio, e lo ha fatto col suo stile: con un’onestà brutale, a tratti persino difficile da sostenere con lo sguardo. È stato tra i primi a rifiutare un modello di maschio macho, indistruttibile e senza ombre.
Quella di Murray è la storia perfetta anche se non ha un lieto fine ma tante delusioni, dolori e amarezze. È la storia perfetta perché ci ha mostrato tutte le fasi possibili di uno sportivo: le promesse della giovinezza, la fatica nel realizzarle; e poi la maturità, la gioia, il declino, la sofferenza fisica e mentale. E poi varie rinascite, e ricadute; e soprattutto la storia di un uomo che deve affrontare tutto questo, uscendone in qualche modo migliore.
Dopo l’annuncio del suo primo ritiro, nel 2019, Billie Jean King ha scritto delle parole che oggi suonano ancora più appropriate: «Il tuo momento più importante deve ancora venire».