Il personaggio di Long John Silver, semplice cuoco di bordo che nasconde in realtà la bramosia di uno scaltro pirata ne L’Isola del Tesoro di Robert Louis Stevenson, viene introdotto per la prima volta nel racconto attraverso una lettera che John Trelawney spedisce al dottor Livesey e a Jim Hawkins prima della partenza, con l’intento di informarli di aver formato finalmente l’equipaggio. «Un vecchio marinaio […] che aspirerebbe a una buona branda per tornare in mare», lo descrive Stevenson attraverso le parole di Trelawney. «Un uomo alto e forte, con un faccione grosso come un prosciutto», è l’affresco che ne fa invece il giovane protagonista Hawkins durante il primo incontro a Bristol con Silver, inconsapevole del suo passato e delle sue reali ambizioni.
Seppur appartenenti a tutt’altro contesto, le considerazioni di Peter Lawwell – attuale proprietario del Celtic – e Dermot Desmond – direttore non esecutivo degli "Hoops" – dopo la prima videochiamata con l’allora allenatore degli Yokohama F. Marinos Ange Postecoglou devono essere state curiosamente simili. La corporatura imponente, l’accento aussie con velata sfumatura europea, la voce roca e laringea, la fama di vecchio e temuto condottiero in mete esotiche: elementi già abbondanti per contribuire a tratteggiare il personaggio in maniera quasi caricaturale. All’aspetto si aggiunge poi una storia personale movimentata e una lunghissima lista di aneddoti. Postecoglou sembra davvero il protagonista di un romanzo.
Con i suoi difetti e le sue contraddizioni – benché certo non declinate al doppiogiochismo del subdolo pirata di Stevenson –, con il suo sarcasmo e la sua profonda umanità che convoglia in un’ammirazione verso di lui pressoché istantanea, proprio come quella che gli organizzatori della spedizione provano inizialmente per Silver. «Non abbiamo bisogno di parlare con nessun altro» fu la frase che Desmond rivolse a Lawwell subito dopo aver terminato il primo virtuale confronto nella primavera del 2021 che portò rapidamente alla firma sul contratto con il Celtic. Non un incontro casuale sul molo di Bristol, ma una chiamata via Zoom tra Londra e Yokohama. Non il profondo desiderio di tornare in mare per cercare un tesoro, ma l’impazienza di rivedere l’Europa, di affermarsi nel continente in cui è nato e dove aveva vissuto solo per sei dei suoi cinquantasei anni, fornendo finalmente alle sue ambizioni le coordinate giuste.
Raccontare ogni tappa che ha portato Postecoglou a diventare oggi uno degli allenatori più stimati in Premier League richiederebbe uno spazio biografico ben più ampio, ma per comprendere il cammino e le difficoltà che ha comportato è sufficiente soffermarsi su alcuni passaggi cruciali.
Angelos Postecoglou nasce nel 1965 nei pressi di Atene ma emigra in Australia nel 1970 con tutta la famiglia in seguito al colpo di stato guidato dal Colonnello Papadopoulos e all’instaurazione della “Giunta”, il regime di stampo fascista durato fino alla metà degli anni ’70 che costò il lavoro a papà Dimitris, detto “Jim”. Il ritorno in patria avviene solamente trentasette anni dopo, qualche mese prima del celebre discorso del primo ministro Papandreou che rivelò la situazione debitoria di una Grecia sull’orlo della crisi economica. Le poche settimane passate ad allenare il Panachaïkī, club di terza divisione, rappresentano la breve quanto inspida parentesi greca prima di tornare in Australia a fine 2008 dopo qualche attrito con la società.
Fino al 2021 il suo rapporto con la Grecia, e quindi con l’Europa, si limitava a queste fugaci inquadrature – macchiate curiosamente da due dei momenti più complicati della storia contemporanea del Paese – in una sceneggiatura che per la maggior parte del tempo si è svolta dall’altra parte del mondo.
Il contesto in cui Postecoglou ha costruito la sua fama, prima da calciatore nel South Melbourne e poi soprattutto da vincente allenatore tra Australia e Giappone, è sempre parso così distante – sul piano geografico e culturale – da non aver mai prodotto un’eco che potesse arrivare davvero in Europa. «Ho avuto successo ovunque abbia allenato, ma apparentemente questo successo è stato percepito come qualcosa di poco credibile a causa del luogo in cui è stato ottenuto», ha raccontato senza troppi giri di parole a un gruppo di giornalisti in Australia, poco dopo aver firmato con il Tottenham quest’estate. «Se avessi vinto in un piccolo Paese europeo, come in Belgio o in Olanda, sarei stato preso in considerazione molto più rapidamente».
Questa difficoltà nel rendere visibile e misurabile la qualità del lavoro svolto negli anni attraverso i “parametri” del calcio occidentale è un aspetto che ha accompagnato con frustrante ritualità la carriera di Postecoglou. Durante la sua prima conferenza stampa con il Celtic – nel giugno 2021 – sembra quasi distratto, con i gomiti appoggiati sul bancone e lo sguardo che sorvola la stanza appoggiandosi un po’ dove capita, tradendo forse la voglia di essere altrove, magari già in campo.
Al di là delle frasi di circostanza che in situazioni così rigidamente formali sono inevitabili, fatica a trattenere l’orgoglio per un passo così importante, a cinquantasei anni: «avere l’opportunità di allenare in Europa è qualcosa che qualche anno fa avrei solo sognato». Lontana, inafferrabile fino a pochi mesi prima e ora finalmente reale. La chiamata del Celtic per Postecoglou equivale al superamento di quell’odiosissimo livello che gli ha sempre impedito di progredire nel videogioco. È l’agognata ricompensa dopo anni di unghie logorate dai morsi e amare delusioni inghiottite tappandosi il naso.
Qualche anno fa Postecoglou fu protagonista di un “colloquio” in auto con un direttore sportivo di un club di Championship, la seconda divisione inglese. Il dirigente in questione non gli concesse nemmeno un confronto guardandolo negli occhi: per tutta la durata del dialogo non fermò mai l’auto. Postecoglou, che raccolse ben poco da quel colloquio, fece uno sforzo per mantenere la calma.
Tempo dopo il suo agente, Frank Trimboli, gli organizza diversi incontri a Londra con dei dirigenti di Premier League e Championship. «Non avevano idea di chi fossi, mate [immancabile intercalare che tradisce le sue origini australiane, traducibile grossolanamente con “amico”, nda], è stata una perdita di tempo. È come essere portati a fare provini a Hollywood e venire sempre rifiutati». Eccola, la frustrante ritualità che ha macchiato ogni suo approccio al calcio europeo fino alla primavera del 2021.
“Κάτω η μπάλα”
Due fattori, su tutti, hanno contribuito a rendere più morbido il trasferimento di Postecoglou dalla Grecia all’Australia ad appena cinque anni: il legame con suo padre, che condizionerà profondamente anche il rapporto con i suoi giocatori, e il calcio, che a sud di Melbourne era calce per le fondamenta di una delle più nutrite comunità elleniche del Paese.
Papà Jim lavorava sempre, si alzava presto al mattino e tornava tardi alla sera. Anche una frase così retorica, detta da lui, suona sempre leggera e autentica. Per il giovane Ange non era semplice costruire con lui un rapporto, almeno inizialmente. Le cose cambiano rapidamente quando comincia a concedergli di rimanere alzato fino a tardi il lunedì sera per vedere con lui “Match of the Day”, un programma riassuntivo sul weekend di calcio inglese: «capii allora che il calcio sarebbe potuto diventare il tramite attraverso cui potermi avvicinare al mio eroe», ha raccontato ad Athletes Voice. Il legame si consolida quando lo porta a Middle Park per seguire il South Melbourne Hellas, club fondato da immigrati greci a fine anni ’50. «Ho amato ogni singolo minuto di quelle domeniche pomeriggio. Ho amato come il calcio lo faceva stare». Suo padre – «non più disincantato e severo, ma energico ed entusiasta» – gli sedeva accanto cercando di spiegargli ogni singolo aspetto della partita. «Amava i giocatori che saltavano l’uomo, quelli che segnavano, adorava le squadre che superavano gli avversari in mezzo al campo passandosi il pallone, senza lanci lunghi».
«Κάτω η μπάλα», che significa a grandi linee “tenere bassa la palla”, era il mantra di Jim Postecoglou. Tre parole che racchiudevano perfettamente il suo modo di vedere il calcio, trasmesso inevitabilmente al figlio come tutte le grandi passioni che contribuiscono a vincere l’asfissia di una vita faticosa e di un lavoro monotono. «Mio padre odiava il calcio italiano, era l’epoca del “catenaccio”. Ogni volta che lo trasmettevano, spegneva la tv. Ma se giocava qualche squadra entusiasmante, come l’Ajax o il Liverpool, ne rimaneva affascinato». Postecoglou junior ha introiettato questo approccio e lo ha fatto suo. «Mi ha sempre guidato in qualche modo: “quando allenerò, questo è il modo in cui voglio farlo”. Nel tempo ho cominciato pensare: “come hanno fatto queste squadre a diventare così? Come si arriva ad allenare a questo livello? Come fanno questi club a diventare quello che sono sono?”. Riflettere su tutto ciò mi ha fornito una chiara idea di quello che avrei voluto fare».
Il richiamo della panchina arriva relativamente presto, a ventisette anni, in seguito a un infortunio che lo costringe a chiudere anzitempo la carriera da giocatore. Fino ad allora si era distinto con più che discreti risultati nel South Melbourne, conquistando due campionati (nel 1984 e nel 1991) e raggiungendo anche la nazionale australiana, con quattro presenze nel 1986.
Il suo percorso da allenatore comincia tre anni dopo il ritiro, sotto l’influenza di Ferenc Puskas, suo tecnico nella stagione della seconda A-League vinta. Dopo due anni e mezzo come vice, nel 1996 diventa a tutti gli effetti allenatore e dopo altre due stagioni conquista il suo primo campionato in panchina, bissando poi il successo nel 1999.
A trentaquattro anni Postecoglou in Australia è già uno stimato allenatore, tanto da meritarsi un colloquio con i vertici della Federazione per il posto di commissario tecnico della Nazionale; l’allora OFC – Oceanic Football Confederation – scelse però Frank Farina al suo posto, proponendogli in alternativa la gestione degli Under 17 dei Socceroos. Postecoglou accetta, i risultati sono convincenti e nel giro di cinque anni la OFC lo promuove alla guida dell’Australia Under 20. Quella che sembrava un’ascesa inarrestabile, però, subisce uno scossone che fa parzialmente deragliare le sue prospettive.
Rise and fall (and rise again)
Immaginatevi di comparire su una tv nazionale, con una camera ininterrottamente puntata sul viso, e di dover dialogare con un’icona riconosciuta come tale pressoché in tutto il Paese che vi attacca in diretta televisiva per quasi quindici minuti. Forse la cosa più vicina nella realtà a quegli incubi in cui ci si ritrova senza voce e paralizzati davanti a un sanguinario inseguitore, travolti dalla vivida tentazione di scappare, urlare e aprire gli occhi affondando le mani nella confortante morbidezza del materasso. Sollievo metaforico che Postecoglou, in un celebre e clamoroso episodio di diciassette anni fa, non poté concedersi.
Fino al 2006 la sua carriera da allenatore non aveva mai incontrato difficoltà significative, tutto era andato generalmente secondo i piani. Qualcosa comincia a non funzionare sulla panchina dell’Under 20, dove intraprende un complicatissimo percorso verso la qualificazione ai Mondiali. Ai gironi l’Australia viene sconfitta a sorpresa dalla Cina, finendo seconda nel raggruppamento e incontrando così la Corea del Sud ai quarti, che vince ed elimina i Socceroos che non mancavano una singola edizione dal 1989.
Il mancato accesso al torneo viene vissuto come un’onta in patria e il sentimento collettivo spinge verso una virtuale esecuzione in pubblica piazza del principale colpevole. Una celebre trasmissione australiana, “The World Game”, invita allora Postecoglou come ospite in collegamento. Lo sguardo severo, un tratto tipico che non ha mai abbandonato nel suo approccio con i media, si rivolge con decisione in camera senza segni di apprensione.
Dopo appena un minuto di intervento, prende la parola Craig Foster, ex giocatore con un passato in Premier League e con ventinove presenze con la Nazionale australiana, apprezzato anche per il suo considerevole impegno sociale, che gli è stato riconosciuto istituzionalmente due anni fa anche attraverso un’onorificenza da parte del governo.
Forte anche del suo status, non trattiene la frustrazione e la sete di risposte davanti alla telecamera (a Les Murray, il presentatore del programma, aveva confessato che non si sarebbe trattenuto e che l’avrebbe «messo alle strette»): «Non puoi prendertela con i giocatori, devi prenderti le tue responsabilità», dice rivolgendosi a Postecoglou. Da qui il dibattito si accende, pur rimanendo su toni sorprendentemente composti. «Non mi stai ascoltando», la sua replica, «prendo piena responsabilità di quello che è successo, non ce l’ho con i giocatori. Anziché parlare da uno studio, dovresti venire a vedere come ci alleniamo». Ma Foster incalza: «Sei pagato per portarci ai mondiali, non per “vincere” in allenamento». Insomma, la fedele trasposizione televisiva di un appassionante match di boxe con le parole al posto dei pugni. Il dialogo si protrae per diversi minuti finché Foster chiede apertamente a Postecoglou se intende di dimettersi, il quale risponde che no, non l’avrebbe fatto, nonostante la mancata qualificazione. Qualche mese più tardi – in concomitanza con il matrimonio con l’attuale moglie Georgia – l’addio arriva comunque, aprendo uno dei momenti più complicati nella sua carriera e in senso più ampio della sua vita.
«Dopo quell’intervista, per la prima volta l’ho visto in difficoltà, era preoccupato e angosciato. E dopo aver salutato la Nazionale le cose hanno cominciato ad andare a rotoli», ha confessato Georgia qualche anno fa a una tv australiana. A quarantun anni Postecoglou si trova senza lavoro, con un Paese intero che associa al suo faccione quella celebre intervista in cui viene preso a schiaffi in diretta nazionale. È in questo contesto che arriva la decisione di tornare a vivere in Grecia, per la prima volta dopo trentasette anni, con l’idea di imparare, riflettere su cosa non ha funzionato e tornare soprattutto ad allenare.
Un importante aspetto della sua personalità, che ha fatto da carburante nel corso della sua carriera di nauseanti saliscendi emotivi e professionali fiorisce proprio qua, attorno a una feroce determinazione, all’attaccamento a un’idea sopravvissuta nel tempo, alla sensibilità e all’umiltà di fare i conti con i propri errori, mettendosi in discussione in maniera anche duramente critica.
Al Panachaïkī le cose, come detto, vanno maluccio e il ritorno in Australia non è esattamente accompagnato da fanfare e coriandoli. Postecoglou allena qua e là squadre di ragazzini, apre e chiude un’incolore esperienza in panchina con i Whittlesea Zebras (oggi Brunswick Juventus FC), vive per qualche mese a casa dei genitori della moglie Georgia e riesce a farsi ospitare in qualche sporadica trasmissione televisiva. Insomma, segnali ben poco confortanti per credere che la direzione sia ancora quella giusta. La consapevolezza, però, è un’arma che Postecoglou ha imparato a maneggiare con cura nel corso degli anni.
Nick Deligiannis, suo amico di infanzia, ha tratteggiato in maniera esemplare questo elemento, che fa curiosamente eco con le parole di qualche mese fa dopo la firma con il Tottenham: «In quegli anni, nonostante tutto, non ho mai visto Ange mettere in discussione le sue capacità. Aveva sviluppato una visione chiara riguardo a ciò che avrebbe fatto non appena avrebbe avuto la possibilità di metterlo in pratica». L’occasione arriva nel 2009, quando Frank Farina – proprio lui, che era stato scelto al posto di Postecoglou per allenare la Nazionale qualche anno prima – viene esonerato dal Brisbane Roar in seguito a una condanna per guida in stato d’ebrezza. Archie Fraser (CEO della A-League in quegli anni), il quale conosceva bene Postecoglou, fa il suo nome al board del Brisbane che gli fissa un colloquio. Da quel preciso istante, la sua carriera comincia a decollare senza mai smettere di perdere quota.
I primi mesi, come ogni nuovo inizio, sono complicati. Postecoglou fa fuori diversi punti fermi della squadra (Liam Reddy, Craig Moore, Bob Malcolm e soprattutto Charlie Miller) e porta a Brisbane alcuni suoi fedelissimi, come Tommy Oar e Michael Zullo. «Volevo che fosse una squadra offensiva, una squadra che in qualche modo si sposasse meglio con la mia personalità», dirà qualche anno più tardi.
I Roar in pochi mesi cominciano a volare. Il 4-3-3 di Postecoglou diventa presto uno dei sistemi più riconoscibili del campionato australiano, forte di principi moderni che tuttora caratterizzano il suo gioco: costruzione dal basso, terzini alti e difesa a tre in fase di possesso, con il centrocampista più arretrato che si abbassa e “apre” i due centrali, riaggressione costante votata all’immediata riconquista del pallone, progressioni rapide e codificate che permettono al Brisbane di risalire il campo con sorprendente facilità ed efficacia.
Sempre Les Murray qualche anno fa ha ammesso che il Brisbane Roar di Postecoglou è stata la miglior squadra australiana che avesse mai visto giocare. Non solo entusiasmante, ma anche vincente perché nel giro di poco più di due stagioni conquista due titoli di fila (2010/11 e 2011/12) come non era mai successo a nessun club prima di allora in A-League, condendo il tutto con un’impressionante striscia di 36 vittorie consecutive, record tutt’ora imbattuto nel calcio australiano.
Dopo una breve parentesi al Melbourne Victory (aprile 2012-ottobre 2013) in cui si avvicina solamente alla vittoria del campionato nella seconda stagione, la Federazione si rimette in contatto con lui nonostante il brusco addio ai giovani “Socceroos” di qualche anno prima e lo nomina allenatore della Nazionale in un segmento temporale estremamente delicato da gestire. L’Australia stava vivendo una fase difficile sul campo (tra il settembre e l’ottobre 2013 erano arrivate due umilianti sconfitte con Francia e Brasile, entrambe per 6-0) e di faticosa transizione post-Golden Generation, con i vari John Aloisi, Harry Kewell, Mark Viduka, Tim Cahill, Mark Schwarzer, Brett Emerton che avevano ormai dato l’addio alla Nazionale o sembravano sul punto di farlo. Gli unici a rimanere con Postecoglou per più di qualche mese sono Cahill e Schwarzer, all’epoca rispettivamente trentatreenne e quarantenne.
Cuoco, orso, mentore, carpentiere, amico, padre
Lo storico capitano dell’Everton e della Nazionale australiana è uno dei primi ad aver pubblicamente e concretamente fornito una precisa versione sul rapporto giocatore-allenatore con Postecoglou: «Ange è un motivatore eccezionale, fantastico. Ti prendeva da parte e ti diceva: “fai quello che ti dico e mettilo in pratica, e vedrai che trovi tutte le risposte”. Ed era esattamente quello che succedeva». Singolare che ad averlo voluto sottolineare sia stato un calciatore che lo ha conosciuto solo nella fase finale della carriera, dopo aver vissuto quindici anni ad alti livelli e aver avuto tecnici di livello altrettanto alto.
L’approccio di Postecoglou trasforma l’iniziale scetticismo in una fede quasi cieca nella sua visione, che accompagna i giocatori al Mondiale in Brasile pur consapevoli di non avere nessuna chance di qualificarsi agli ottavi dopo essere stati sorteggiati con Olanda, Spagna e Cile.
«Il Mondiale del 2014 è stato incredibile: sapevo esattamente cosa stavo facendo e come la squadra doveva muoversi. Il nostro calcio era tra i migliori del torneo, tenevamo sempre il pallone. Abbiamo complicato la vita a tutte le squadre contro cui abbiamo giocato, mentalmente e fisicamente», racconta Cahill con gli occhi che si posano nel vuoto come quando si racconta un momento felice. E benché queste parole – dopo tre sconfitte su tre che decretano l’eliminazione – ricordino quelle di Aldo, Giovanni e Giacomo dopo aver perso la partitella in spiaggia per riprendersi la gamba, in realtà spiegano bene come l’arrivo di Postecoglou abbia avuto un impatto profondo e immediato sulla Nazionale australiana e sull’approccio dei calciatori stessi al nuovo corso.
Come Cahill, decine di altri giocatori hanno descritto in maniera simile Postecoglou, soffermandosi sul suo lato umano e sulla sua professionalità. «Illuminante, un vero game changer per me, sia a livello mentale che a livello tecnico», sottolinea Bailey Wright, che ha esordito con lui in Nazionale nel 2014. «I suoi discorsi motivazionali sono senza dubbio i migliori che abbia mai sentito», confessa invece Tom Rogic (qui, per esempio, si può trovare un frammento di un animato “pep talk” nell’intervallo di una partita dell’Australia che anche se parziale spiega bene cosa significhi essere spronati da Postecoglou. Ben diverso da questo*, più dolce e intimo, che tocca corde molto profonde).
«Ovunque tu sia, lui ti osserva. Sta con le braccia conserte alle tue spalle. Ti giri e lo vedi che ti fissa e a quel punto vuoi solo fare bene e fare una buona impressione su di lui», è il ricordo più nitido di Matt McKay. Questo condiviso senso di sicurezza si unisce a una fiducia incondizionata nei suoi metodi, perché il risultato sul campo è spesso stato perfettamente in linea con le premesse.
Tommy Oar, centrocampista portato a Brisbane da Postecoglou e suo fedelissimo anche in Nazionale, ha sempre visto in lui le caratteristiche dei grandi tecnici del calcio contemporaneo: «Ange è spanne sopra ogni allenatore con cui io abbia mai lavorato. È molto simile a Jurgen Klopp, per certi versi. Ogni giocatore vuole vincere per lui».
Il ritratto che forse colpisce più di tutti è quello di Thomas Broich, convinto anni prima a trasferirsi dalla Bundesliga alla A-League, e ora nello staff tecnico dell’Hertha Berlino: «Per distacco il miglior cervello prestato al calcio che abbia mai conosciuto. Una persona incredibile. Il più grande mentore della mia vita». La quasi paterna inviolabilità del rapporto giocatore-allenatore è ciò che prima di qualsiasi altra cosa permette ai calciatori di affidarsi ciecamente a lui. In tempi più recenti, Yves Bissouma – nel post-partita dell’amichevole estiva tra Tottenham e West Ham – l’ha spiegato concretamente. «Ci infonde sicurezza e consapevolezza. È come un padre, uno zio, un amico per noi: siamo felici di essere allenati da lui, cerchiamo di seguirlo e di fare ciò che ci chiede. È buono con noi, ci parla e si confronta. Significa veramente tanto per noi giocatori».
Questa estate è stato chiesto a Postecoglou di svelare il segreto del suo legame con i giocatori, ma ha faticato a fornire una spiegazione precisa a riguardo: «È difficile parlare di me, davvero. Ho sentito molti miei giocatori ed ex giocatori descrivere il nostro rapporto, ma non saprei come spiegarlo e da dove nasce. È così e basta, forse l’influenza di mio padre ha contribuito. Lui ha tirato fuori il meglio di me in questo modo, quindi penso che il metodo sia quello giusto, ma non è qualcosa che faccio consapevolmente. Cerco di essere solo me stesso».
Un approccio che si declina in curiose contraddizioni tra il suo essere profondamente empatico e il tentativo di allontanare ogni coinvolgimento emotivo, tra le sue abilità di comunicatore e il suo odio per le small talks, la chiacchiera fine a sé stessa: «Se parlaste con i calciatori che ho allenato negli anni, vi direbbero tutti con ogni probabilità che non hanno mai avuto con me una conversazione più lunga di un minuto per tutto il tempo in cui abbiamo lavorato insieme. Ma ciò non significa che non parlo con loro: se un giocatore ha un problema, mi siedo e mi confronto con lui. È importante per loro sapere che hanno sempre il mio sostegno. Questo però non implica pranzare insieme e parlare di come è andata la giornata. Non è così che sono fatto».
Postecoglou è tante cose messe insieme, una stratificazione di aspetti che lo rendono probabilmente molto più vicino a noi di quanto possano sembrare i suoi colleghi. Niente tic alla Guardiola, nessuna risata da androide in stile Klopp, lontano dalle deviazioni filosofiche alla Spalletti e dalla stancante retorica di molti e ben diverso dall’approccio fumettistico di Bielsa agli incontri con i media, con cui condivide comunque alcuni elementi a livello estetico e caratteriale.
Eppure sono numerosi i tratti che danno vita a una moltitudine di interpretazioni soggettive, un po’ come quando si tenta di dare un volto alle nuvole. Per Dario Saltari ha “l’apparenza del carpentiere del primo Novecento”, 'per esempio, per molti suoi giocatori come detto è un mentore e addirittura un padre, per Max Rushden del Guardian è un “empatico, premuroso, rude e feroce orso”. Ma c’è anche chi ha visto in lui il modello ideale per dare forma visiva all’espressione sempre più di uso comune “is cooking”, letteralmente “sta cucinando”, che applicata al contesto sportivo significa performare, fare molto bene, produrre qualcosa di entusiasmante e apprezzabile dal punto di vista prestazionale. Tramite un software AI una community ha postato su Instagram in tempi recenti un prompt che raffigura un Postecoglou ai fornelli, intento appunto a “cucinare”. Se Long John Silver, oltre che uno stimato cuoco di bordo e un temuto pirata, fosse stato anche un allenatore di calcio probabilmente avrebbe avuto esattamente questo aspetto in un’ipotetica quanto improbabile rivisitazione del romanzo di Stevenson.
Il successo continentale e altri racconti
Il percorso durante il Mondiale del 2014, amaro ma lodato in patria anche e soprattutto in relazione alla rosa a disposizione, ben lontana dal valore generale della Golden Generation, cementa le basi del nuovo corso, che avrebbe dovuto disputare la Coppa D’Asia a meno di sei mesi di distanza.
L’incipit è un gol del Kuwait dopo otto minuti dall’inizio della competizione, davanti al pubblico di casa dato che l’Australia è per la prima volta Paese ospitante (dopo essere entrata nella Federazione solo nel 2007, nel passaggio tra OFC e AFC). Poi però le cose si risistemano subito: rimonta e 4-1 all’esordio, 4-0 nella gara successiva contro l’Oman e sconfitta per 1-0 contro la Corea del Sud. Ai quarti supera agilmente Cina (2-0) ed Emirati Arabi Uniti (2-0), ritrovando la Corea del Sud di Uli Stielike in finale.
Al 45’ segna Massimo Luongo, un classe ‘92 pescato da Postecoglou dallo Swindon Town (in prestito dal Tottenham) due anni prima, che sarà poi eletto migliore giocatore del torneo. L’inerzia sembra pendere per il verso giusto. Poi, come in una sceneggiatura scritta con poca fantasia ed eccessiva prevedibilità, nel recupero lo stadio cade nel silenzio più totale. Qualche mese dopo Postecoglou rivelerà che se l’aspettava: due minuti prima si era girato verso il pubblico per stuzzicarlo nella rigida tensione del finale in cui era caduto.
Al 91’ – le coincidenze della vita – pareggia Heung-min Son ed è come se «l’aria fosse stata risucchiata dallo stadio», per citare proprio Postecoglou e il suo eloquio fuori dai canonici parametri di un allenatore.
Al 105’, però, James Troisi firma il vantaggio, che si protrae fino al termine dei supplementari consegnando all’Australia il primo, vero, grande trofeo della sua storia. «È stato bellissimo vederlo festeggiare così, con i pugni al cielo e lasciandosi andare. Ho temuto solo per l’abito con tutto quel movimento», dirà il figlio James dimostrando di aver ereditato pienamente l’ironia del padre.
Ange Postecoglou diventa un eroe nazionale dopo il successo in Coppa d’Asia nel 2015 e il suo nome – seppur ancora marginalmente – comincia a circolare anche fuori dai confini australiani. Mantiene la guida dei Socceroos fino al 2017, dopo aver centrato la qualificazione ai playoff contro l’Honduras per un posto al Mondiale del 2018 in Russia. A novembre, con grande sorpresa da parte di tutti (Fox Sports parlò di «shock resignation» rispetto alle dimissioni di Postecoglou), lascia l’Australia in attesa che alcuni colloqui intrapresi nei mesi precedenti si sviluppino in maniera concreta.
Declinata un’offerta di una squadra della Chinese Super League, Postecoglou accetta, un mese dopo l’addio alla Nazionale, quella degli Yokohama F. Marinos in Giappone (club legato al City Football Group, che detiene il 20% delle quote societarie), tornando su una panchina di un club a distanza di quattro anni dall’ultima volta. «Il nostro obiettivo è quello di portare gli Yokohama F. Marinos a essere una squadra temibile per qualunque avversario. La mia ambizione è entusiasmare i nostri tifosi, renderli orgogliosi di questo club e soprattutto tornare a vincere insieme». Si presenta così, come è sempre stato: diretto, sincero, impreziosendo quella che può sembrare la solita retorica del calcio offensivo e divertente con una promessa di successo, non vuota ma intrisa di esperienza e conferme sul curriculum.
Come da tradizione, anche in Giappone l’inizio non è semplice, complice anche la consueta vorticosa sessione di mercato nel nome del piano di riforme promosso da Postecoglou (si contano ventuno movimenti complessivi tra acquisti e cessioni dal suo arrivo in panchina). Nelle prime dieci partite arrivano appena due vittorie e la squadra si avvicina pericolosamente alla zona retrocessione. Poi, tra fine aprile e ottobre, le prestazioni cominciano lentamente a decollare. Il Japan Times riassumerà quella stagione come «entusiasmante e frustrante in egual misura. I Marinos chiudono al dodicesimo posto, arrivando però fino alla finale di Coppa di Lega, persa 1-0 contro lo Shonan Bellmare. Nel breve tributo che il club riserverà a Postecoglou al termine della sua avventura giapponese, il 2018 viene dipinto con immagini di amarezza e frustrazione dei giocatori in campo, accompagnate da una sintetica didascalia: «Abbiamo costruito il nostro stile di gioco lottando con fatica».
Nel 2019 l’inizio è incoraggiante e i segnali che la squadra stia cambiando sono evidenti, a livello di risultati più che sul piano tattico. A fine maggio (la J1 League, il campionato giapponese, comincia a fine febbraio e termina a inizio dicembre) i Marinos sono secondi a cinque punti dal FC Tokyo, grande favorita per la vittoria finale, e a luglio il distacco si riduce di altre tre lunghezze.
L’appartenenza, seppur parziale, al City Football Group, “costringe” il club di Postecoglou ad affrontare il City di Guardiola all’interno dell’Asia Tour, in piena preparazione per gli inglesi, in mezzo alla stagione in corso per i giapponesi. Come due corpi celesti che si sfiorano influenzando anche solo marginalmente le rispettive traiettorie, l’amichevole tra Manchester City e Yokohama porta Guardiola e Postecoglou a studiarsi a vicenda, a cogliere le imperfezioni dell’uno e le potenzialità dell’altro.
A fine partita (vinta 3-1 dai Citizens, ma dominata da Yokohama sul piano del possesso, con un impressionante 58%) lo spagnolo si dice affascinato dal gioco dei Marinos: «hanno giocato un calcio incredibile», confessa, aggiungendo che si è trattato di «ottimo test» e di una partita «complicata» per il City. Quelle che possono sembrare le solite lodi rivolte pressoché a chiunque da Guardiola, vengono però confermate da Raheem Sterling: «È una delle migliori squadre che abbia mai visto nella costruzione dal basso. Giocano veramente bene, è stata una prova importante per noi».
A un mese da quell’atipico scontro tra due mondi nella galassia del City Football Group, i Marinos scalano le marce e cominciano a volare: undici risultati utili consecutivi, di cui dieci vittorie, e sorpasso sul Tokyo completato. Tradotto: a Yokohama torna il titolo dopo quindici anni di attesa, il quarto della storia del club. «Abbiamo giocato il nostro miglior calcio nel momento più importante ed è per questo che siamo diventati campioni», il commento di Postecoglou nel giorno della festa. «Ancora una volta i nostri giocatori hanno dimostrato grande consapevolezza e fiducia, giocando in maniera eccezionale».
L’anno successivo le ambizioni dei Marinos si scontrano con il Covid e con un calendario di conseguenza estremamente congestionato. Alta intensità e pressione costante sono per definizione nemiche di settimane con poco tempo per recuperare a livello fisico. Il modello di Postecoglou quindi finisce per non funzionare «in queste circostanze», complici anche «troppe rotazioni e troppi cambiamenti» effettuati da lui stesso nel corso dell’anno, come ammette prendendosi una buona fetta di responsabilità sul nono posto finale. Il 2021 allora diventa l’anno del riscatto, di un cammino da riprendere per tornare a dominare in Giappone, pur mantenendo porta aperta e orecchie tese verso nuove sfide.
Il nome di Postecoglou è ancora poco conosciuto in Europa, ma circolava – insieme a quello di Eddie Howe, primo nome sulla lista – da quasi tre anni sul taccuino del CEO del Celtic Peter Lawwell, su suggerimento del figlio Mark, scout per il City Football Group rimasto positivamente impressionato dal suo lavoro a Yokohama. Tra l’ottobre e il dicembre 2020 gli Hoops avevano praticamente smesso di vincere spianando la strada ai Rangers di Steven Gerrard e avvicinando pericolosamente la fine del secondo mandato di Neil Lennon in panchina (dopo quello ricco di successi tra 2010 e 2014). A gennaio arriva una sola vittoria su 6 partite e dopo la sconfitta contro il Ross County a fine febbraio Lennon saluta. Per il Celtic si tratta di uno dei momenti più complicati della propria storia recente, con i Rangers che a fine anno conquistano il primo titolo dopo il fallimento del 2012, un successo che sembrerebbe sancire nuove gerarchie nel calcio scozzese.
«La realtà», ha spiegato Postecoglou riavvolgendo il nastro, «è che non c’erano ancora molte porte aperte per me, soprattutto qui in Europa, che è sempre stato il mio obiettivo finale. Non ero sicuro di quale sarebbe stato il passo successivo e, a essere sincero, forse non ero scoraggiato ma sentivo comunque che nonostante quanto raccolto in carriera qualcuno si sarebbe dovuto prendere la briga di scommettere su questa parte di mondo o che le stelle si sarebbero dovute allineare in qualche modo. Fortunatamente è stato così, perché lavorare con lo Yokohama mi ha permesso di avere un legame con l’Europa attraverso il City Football Group, il che significa avere i loro occhi qui a osservare ciò che stavo facendo». L’ossessione, anestetizzata da abbondanti dosi di tenacia nel corso degli anni e supportata da una perseveranza quasi religiosa, lo stava finalmente avvicinando allo scopo.
La proposta di Mark Lawwell a Peter anni prima, la crisi profonda che stava attraversando il Celtic, l’offerta declinata da Eddie Howe allora allenatore del Bournemouth, la necessità di cambiare aria dopo quasi quattro anni in Giappone: eccole, le stelle perfettamente allineate che portano alla chiamata in cui la scelta di ingaggiare Ange Postecoglou diventa definitiva.
“We never stop”
«Is this a wind up? Where do they come up with these guys!?».
Una delle reazioni più sprezzanti all’arrivo di Postecoglou a Glasgow è quella di Alan Brazil, ex calciatore scozzese di Ipswich Town e Manchester United tra fine anni ’70 e primi anni ’80 e oggi opinionista per TalkSport. In una trasmissione del giugno 2021, condendo il tutto con fragorose risate, pronunce intenzionalmente sbagliate e altre battute sarcastiche, si lascia andare. «È uno scherzo, vero? Da dove se ne escono fuori con questi tizi?». Insomma, non certo il picco del dibattito calcistico scozzese. Lo stesso Brazil, a maggio 2022, a meno di un anno dall’arrivo del nuovo tecnico, si scuserà di fronte all’evidenza del valore dimostrato da Postecoglou.
Nuova squadra, solito Ange. Charlie Eccleshare, giornalista che segue il Tottenham per The Athletic, lo ha definito con una parola che in italiano non è traducibile letteralmente se non attraverso una somma di aggettivi simili che messi uno sopra l’altro arrivano al risultato finale: “uncompromising”, qualcosa a metà tra l’inflessibile e il categorico, l’irremovibile e l’ostinato. Una persona che difficilmente scende a compromessi con le sue idee e le sue convinzioni; magari le leviga e ne modifica alcuni aspetti, senza però mai trasformare il nucleo, il senso profondo da cui nascono.
Se rivoluzione deve essere, quindi, rivoluzione sarà, perché l’evangelica adesione ai suoi principi e alla sua personalità tattica dev’essere condivisa, non messa in dubbio né tantomeno osteggiata. Come fatto con Roar, Australia e Marinos si fa promotore del cambiamento, arma la riscossa, stila una lunga lista di oppositori del partito. Finiscono fuori dal progetto Odsonne Edouard, Kristoffer Ajer, Ryan Christie, Mohamed Elyounoussi e capitan Scott Brown, che dopo quattordici anni di Celtic capisce che la pressione alta, la riaggressione famelica e la copertura di ampie porzioni di campo non fanno per lui e piuttosto che lasciare in eredità ai tifosi il ricordo di un giocatore «lento, vecchio» e pressoché sempre in panchina, decide di firmare per l’Aberdeen.
Simbolo della rivoluzione e capitano diventa il prodotto dell’academy Callum McGregor che ha ammesso qualche anno fa di «conoscere ben poco» Postecoglou prima del suo arrivo in Scozia. «Ci siamo confrontati con Tommy (Rogic, suo ex giocatore con l’Australia e allora nella rosa del Celtic, nda), che ci ha parlato benissimo di lui. Quando abbiamo sentito uno come Tom parlarne in quel modo, ci siamo subito convinti della bontà della scelta». Anche per McGregor l’impressione è stata immediatamente positiva, come per chiunque abbia incrociato la sua strada con quella di Postecoglou. «Appena l’abbiamo incontrato, si è capito subito di che pasta fosse fatto. È arrivato con autorevolezza, e da quando abbiamo cominciato a lavorare con lui siamo cresciuti molto a livello collettivo. Ci ha spiegato subito il tipo di calcio che avrebbe voluto giocare, cosa chiede ai giocatori e come vuole vederlo in campo: il messaggio è stato chiaro fin da subito».
I primi mesi di Postecoglou sono diventati celebri per aver consegnato gli “Hoops” a un lato catastrofico della storia: dopo la sconfitta del 24 febbraio 2022 contro il Bodø/Glimt il Celtic diventa la prima squadra a essere eliminata da tutte e tre le competizioni europee in una singola stagione (secondo turno di qualificazione in Champions League a luglio contro il Midtjylland, terzo posto nel girone di Europa League e sconfitta ai playoff di Conference League contro i norvegesi). Cornice esemplare per spiegare, ancora una volta, come ripartire da Postecoglou implichi dotarsi di un significativo bagaglio di pazienza. A dire il vero, prima di quel gelido giovedì sera a Bodø, il Celtic aveva già messo in bacheca il primo trofeo della stagione, la Coppa di Lega vinta in finale contro l’Hibernian, che aveva cominciato timidamente ad ammorbidire gli scettici.
Da qualche anno a questa parte molte squadre stanno pubblicando sui rispettivi canali YouTube dei video “mic’d up”, ovvero clip di giocatori e allenatori microfonati durante partite o allenamenti per permettere al tifoso di entrare in stretto contatto con i protagonisti e con il loro linguaggio in campo. Pochi mesi dopo l’arrivo di Postecoglou il Celtic ha deciso di produrne uno durante una sessione a Lennoxtown, creando inconsapevolmente un culto intorno a una frase che si sente al minuto 1.58. «We never stop. We never stop. We stop at half time, we stop at the end of the game and we celebrate. But during the game we don’t stop. The opposition want to stop, that’s good for us, we f*ucking take advantage of it» («Non ci fermiamo mai. Non ci fermiamo mai. Ci fermiamo all’intervallo, ci fermiamo a fine partita quando festeggiamo. Ma durante la partita non ci fermiamo. Se gli avversari vogliono fermarsi, meglio per noi, lo usiamo a nostro vantaggio»). Quel “We never stop” comincia a comparire ovunque a Celtic Park e diventa presto l’espressione simbolo dei suoi due anni a Glasgow.
“Big Ange”, il soprannome che gli viene affettuosamente attribuito dopo poco tempo, diventa un’icona, un personaggio che avvicina nuovi discepoli settimana dopo settimana, accentrando i giudizi in un unico scrosciante diluvio di ammirazione. Non solo per la sua dialettica atipica, il suo acuto sarcasmo, le sue risposte sempre inspiegabilmente pronte e sfrontate (come quando durante la prima conferenza stampa a inizio campionato a chi gli chiedeva se conoscesse gli Hearts – gli avversari –replicava così: «Siamo sullo stesso pianeta, mate, non arrivo dallo spazio profondo»), ma anche e soprattutto perché i risultati presto o tardi arrivano, sempre. Il 3-0 nel secondo Old Firm stagionale, il derby di Glasgow con i Rangers, davanti ai sessantamila del Paradise a inizio febbraio, è il primo, luminoso segnale che il Celtic è diventato il Celtic di Postecoglou. In quarantaquattro minuti i Bhoys annientano la squadra di Giovanni van Bronckhorst – in vetta alla Premiership – con una ferocia e un’intensità travolgenti, fornendo la precisa trasposizione in campo del mantra “We never stop” e incendiando un Celtic Park già per natura incandescente.
A inizio 2022, a un punto di distanza dai rivali di sempre, la diffidenza nei confronti di questo bizzarro omone comparso dal nulla comincia a svanire definitivamente nella Glasgow biancoverde e, per estensione, in tutta la Scozia. L’apprezzamento nei confronti di "Big Ange" porta i tifosi del Celtic a reinventare addirittura un loro celebre coro dedicato a Papa Francesco – la tifoseria è tradizionalmente legata a posizioni cattoliche – mettendoci al posto del pontefice il suo nome. Indicativo di come i termini “culto”, “religione”, “evangelico” accanto a lui non suonino poi così tanto iperbolici.
Il Celtic che arriva in primavera pienamente in corsa per titolo e Scottish Cup è una squadra che sembra costruita da un fanatico di Football Manager e un nostalgico ottimista che cerca di recuperare talenti sciupati. Agli ordini di Postecoglou ci sono giocatori un po’ alla deriva come il trentatreenne Joe Hart, malamente cacciato da Nuno Espirito Santo nelle sue prime settimane al Tottenham, Cameron Carter-Vickers, altro ex Spurs che arrivava da sei prestiti in cinque anni, e James McCarthy, centrocampista irlandese classe 1990 con un lungo passato in Premier League. Ma anche una significativa manciata di stelline grezze pescate un po’ ovunque nel mondo: dall’esterno israeliano Liel Abada (’01) al velocissimo Jota (’99), lussuoso esubero del ricco vivaio del Benfica, dal centrocampista Matt O’Reily (’00), allora gioiellino dell’under 21 danese, al non più giovanissimo Georgios Giakoumakis (’94), possente attaccante greco prelevato dal VVV-Venlo. E ancora, i quattro giapponesi arrivati a Glasgow su precisa indicazione di Postecoglou: Daizen Maeda degli Yokohama F. Marinos, ecco Daizen Maeda, Yosuke Ideguchi del Gamba Osaka, Reo Hatate del Kawasaki Frontale e, soprattutto, Kyogo Furuhashi del Vissel Kobe, che finirà la stagione con venti gol complessivi nonostante tre mesi out per infortunio.
A febbraio arriva il sorpasso sui Rangers, seguito da altri quattordici risultati utili consecutivi (di cui solo tre pareggi) che consegnano al Celtic il titolo, il secondo in sei mesi dell’era Postecoglou. I “Bohys” perderanno solo la semifinale di Scottish Cup ad aprile contro i Rangers, in una partita dominata per larghi tratti ma mal gestita nel finale.
Al secondo anno in carica le cose vanno ancora meglio e il processo di crescita si irrobustisce anche grazie all’esperienza in Champions League. Il Celtic apre la stagione con sette vittorie su sette (29 gol fatti, 2 gol subiti), l’ultima delle quali contro i Rangers a settembre, un 4-0 che conferma il dominio ristabilito dai “Bohys” nell’eterno duello con i “Gers”.
Il debutto in Champions arriva pochi giorni dopo in casa contro il Real Madrid, con otto undicesimi della squadra all’esordio assoluto nella competizione, proprio come Postecoglou. I primi venti minuti sono praticamente un assedio del Celtic, che colpisce anche un palo con McGregor. Poi l’atteggiamento ultra-aggressivo e l’approccio spregiudicato degli “Hoops” cominciano ad aprire spazi alle progressioni del Real, che chiude il discorso sul 3-0 segnando tutti e tre i gol nel secondo tempo. La gara con i “Blancos” racconta bene come uncompromising sia un aggettivo che si sposa alla perfezione con Postecoglou, che non solo non rinuncia a un baricentro alto e a una riaggressione continua, ma concede scientemente anche porzioni di campo gigantesche ai Campioni d’Europa, come se fossero un Motherwell qualunque. D’altra parte, confrontando le rose, il Celtic avrebbe potuto subire lo stesso risultato anche con un atteggiamento diverso (gli 1,37 xG prodotti, peraltro, indicano come agli scozzesi sia mancato solo il gol).
Complice anche parecchia sfortuna nelle due gare contro lo Shakhtar Donetsk (entrambe terminate 1-1) e nel ritorno a Celtic Park contro il Lipsia (perso 0-2 nel finale, ma per numerosi segmenti dominato), il Celtic saluta la Champions League da ultimo nel girone. «A tale of missed opportunities», «una storia di opportunità mancate», viene definito da Postecoglou il cammino europeo dei suoi dopo la sconfitta contro i tedeschi, per porre l’accento sulla mancanza di concretezza negli ultimi metri.
L’amarezza per il debutto in Champions del tecnico australiano si trasforma in una fame ostinata in campo, testimoniata dai ventotto risultati utili consecutivi in patria di cui ventisei vittorie tra Coppa di Lega, campionato e Scottish Cup. Come nella stagione precedente, il Celtic conquista la prima (questa volta in finale con i Rangers) e vince il secondo (chiudendo a +13 sempre sui Rangers), riuscendo poi a completare il Domestic Treble – il “triplete” nazionale – a giugno vincendo contro l’Inverness l’ultimo atto della Coppa di Scozia, che è anche l’ultima partita stagionale del Celtic.
Se fosse il finale di un film, stuzzicherebbe facilmente la sensibilità dell’Academy. In un Hampden Park curiosamente baciato dal sole e dipinto per metà di bianco e verde, comincia a risuonare You’ll Never Walk Alone – storico inno del Celtic condiviso con il Liverpool – e Postecoglou, in silenzio, si gode lo spettacolo, consapevole che per lui con ogni probabilità sarebbe stato l’ultimo saluto. L’espressione sempre severa, le mani che provano timidamente a chiudersi in un applauso, le braccia che si congiungono dietro la schiena difronte allo spicchio di tifosi, mentre fatica visibilmente a trattenere l’emozione in un momento così travolgente. Poi si fa dare la Coppa e sorride, battendosi la manona sul cuore mentre il suo nome viene urlato in coro dai venticinquemila “Hoops” presenti ad Hampden Park. Il sipario si chiude quel pomeriggio, confermando i sospetti sul suo addio che circolavano già da settimane.
Vincere dove non si può vincere
Per comprendere anche solo parzialmente il vuoto lasciato da Big Ange, basta leggere i commenti sotto qualsiasi video della sua avventura con il Celtic. Amore incondizionato, gratitudine, riconoscenza e auguri, tantissimi auguri per il suo nuovo percorso. Non avrebbe potuto essere altrimenti dopo aver salvato gli “Hoops” dalla crisi di risultati più profonda degli ultimi venticinque anni. «È arrivato da sconosciuto, ma ho imparato subito ad amarlo, grazie al suo carisma, al suo approccio diretto e naturale anche di fronte ai media», mi racconta con un sorriso trasognato David, nato a Glasgow. «Il suo calcio in questi anni è stato una gioia per gli occhi; si è sempre posto con educazione, il che l’ha reso ancora più affascinante per noi. Quando se n’è andato mi è dispiaciuto, ma nel contempo ero felice per la sua nuova avventura in Premier League, con la possibilità di farsi conoscere a livello globale. È stato poco qua, ma è diventato subito uno dei miei allenatori preferiti di sempre».
Oggi Postecoglou è chiamato alla sfida forse più complicata della sua carriera, in un Tottenham che sembra ormai inconsciamente credere a ciò che si dice sul suo conto da decenni. Nick Hornby già sul finire degli anni ’90 si riferiva a Spurs, Arsenal, Chelsea e Rangers per spiegare la condizione naturale del tifoso di calcio, ovvero «l’amara delusione». Ma se per le altre tre le cose si sono evolute, plasmando un’aspettativa diversa nel corso del tempo, per il Tottenham non sono mai realmente cambiate.
Non è un caso che dal 1991 – l’anno dell’ultima FA Cup vinta – a oggi, gli Spurs abbiano vinto solo una Coppa di Lega nel 2008, arricchendo il già ampio campionario di battute sarcastiche nei loro confronti. Per i giocatori del Chelsea White Hart Lane, l’ex stadio del Tottenham, era diventato “Three point Lane”, talmente tante sono state nel tempo le vittorie raccolte in trasferta dai Blues. Per Chiellini è addirittura qualcosa di radicato nella «storia del Tottenham: creano tante occasioni e segnano molto ma alla fine gli manca sempre qualcosa». Insomma, un destino che pare universalmente e inevitabilmente segnato, tanto da travalicare i confini del calcio e arrivare addirittura al cinema, raccontato da Colin Farrell in una breve scena del film di Martin McDonagh In Bruges.
Il contestatissimo proprietario del Tottenham Daniel Levy ha provato in ogni modo a cambiare l’eterna condizione del club, anche se spesso in maniera frenetica, quasi isterica e confusionaria, affidando la scelta dei tecnici a direttori sportivi non sempre all’altezza e non sempre supportati da un processo decisionale particolarmente elaborato.
Oggi le cose sembrano andare verso un’altra direzione, sia dal punto di vista dirigenziale – con la nomina di Scott Munn come CFO degli Spurs, ex CEO del City Football Group –, sia dal punto di vista tecnico con l’arrivo in panchina di Ange Postecoglou, a cui è stato affidato il compito di ricostruire senza particolare fretta, abbandonando almeno per il momento l’ossessione di vincere subito con instant teams costruiti con un’impazienza quasi infantile.
L’avvio ha superato di gran lunga le aspettative, anche in relazione alle sue precedenti esperienze dove i primi mesi sono spesso stati complicati. Premiato per tre volte consecutive come miglior allenatore del mese in Premier League (come nessun altro tecnico alla sua prima stagione), miglior partenza del Tottenham da quando è stata istituita la Premier League e seconda miglior partenza dal 1960/61, anno dell’ultimo titolo degli Spurs nella massima divisione. Anche qui, risultati convincenti e personalità affascinante hanno portato a un’ammirazione istantanea da parte della maggior parte dei giocatori e da quasi tutti i tifosi Tottenham, sollevati dopo la soffocante tendenza auto-celebrativa di Mourinho e Conte negli ultimi anni.
Il momento difficile, però, è arrivato. Alla folle sconfitta casalinga con il Chelsea che ha spezzato l’imbattibilità del Tottenham ha fatto seguito quella al Molineux contro il Wolverhampton senza gli squalificati Udogie e Romero, oltre a una lunghissima serie di infortuni. Dopo aver salutato Harry Kane passato in estate al Bayern Monaco e mai sostituito in rosa, Postecoglou ha dovuto fare i conti gli infortuni di Ivan Perisic e Manor Solomon, fuori fino a fine stagione, oltre a quelli di Richarlison, Ryan Sessegnon, Micky van de Ven e, soprattutto, James Maddison. Alcuni di loro sono solo rientrati di recente.
«Nella mia carriera ho imparato che ci sono solo due condizioni con cui un allenatore deve convivere: o sei sotto assedio o l’assedio sta arrivando. Nulla va mai sempre per il verso giusto, ci sono sempre sfide da affrontare», ha detto dopo aver perso contro il Chelsea. «Cerco solo di non cambiare le cose. Qualunque sia l’ostacolo». Poi Postecoglou chiosa, sfumando volutamente i contorni di un’esaltazione collettiva che si stava manifestando con prepotenza dopo un avvio così sorprendente. «La cosa più importante è che stiamo ancora costruendo questo club, cercando di allestire una squadra di successo, un ambiente in cui le persone si sentano vincenti e ambiziose. Questo obiettivo non cambierà da una settimana all’altra a seconda di quello che succede».
Se da una parte arrivare ad allenare in Premier League a 58 anni, 31 anni dopo la primissima esperienza, implica aver vissuto talmente tante vite da tecnico da sapere come gestire determinate situazioni, dall’altra ti espone a un contesto indubbiamente diverso da qualsiasi altro affrontato in carriera. La più grande sfida di Postecoglou consisterà innanzitutto nell’essere capace di assorbire la pressione di un campionato di rilievo globale, levigando contestualmente la frenesia di un proprietario che dopo venticinque anni spera di non dover ricorrere all’ennesimo e improvviso cambiamento radicale per dimostrare di avere ragione.
Il passato di Big Ange gioca a suo favore, ma è chiara la differenza tra la Premier League e la Premiership, la J1 League o l’A-League. L’unica vera costante rimane l’approccio tattico, professionale e umano di Postecoglou, che in circostanze sempre diverse gli ha permesso di trasformare squadre prive di talento e ambizione in squadre vincenti e consapevoli. Difficile dire se funzionerà anche in Inghilterra, non sempre il passato è specchio del futuro, anzi. Aspettarsi che le cose cambino in una manciata di mesi, in un club come il Tottenham oltretutto, è una presunzione che Levy, i tifosi, i media non possono permettersi di avere. Let him cook, lasciatelo cucinare.
La speranza degli Spurs è che la ciclicità del suo successo annienti la rassegnazione di un club che non sa più come si fa a vincere. Non oggi, non tra qualche mese, magari nemmeno l’anno prossimo. Ma presto o tardi ci si aspetta tacitamente che Postecoglou si sieda in conferenza stampa per pronunciare queste quattro parole: «We are champions, mate». Con i gomiti sul tavolo e con la testa leggermente infossata nelle spalle, con il suo vocione roco e con quello sguardo da vecchio pirata che sa di essere riuscito a mettere finalmente le mani sul tesoro.